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L'ultima volta che vidi Walter Tobagi fu alle tre e mezzo di notte del 28 maggio 1980. Ho nitidissima, nella mente, la sua sagoma massiccia che armeggia con la serratura del portone di casa, nello slarghetto buio di via Solari, la mano grassoccia che si leva in cenno di saluto mentre lui entra nel cono di luce dell'androne. Meno di sette ore dopo Tobagi era morto, assassinato dai killer della «Brigata 28 marzo». Ci capitava spesso di tornare a casa insieme la notte, perché facevamo lo stesso mestiere, perché abitavamo vicino, perché a Tobagi non piaceva portare la macchina, perché eravamo amici. A volte entravamo in casa, in silenzio e nel buio per non svegliare la moglie Stella e i bambini, e ci infilavamo in cucina a sbocconcellare qualcosa e fare le ultime chiacchiere, non sembrandoci mai abbastanza tardi. Quella notte invece, dopo aver partecipato a un dibattito al Circolo della Stampa, ci eravamo fermati a parlare nella mia macchina. Fuori cadeva una pioggia leggera. Tobagi s'era fatto improvvisamente serio. Mi disse che le cose al Corriere non andavano bene, che era in disaccordo con Di Bella, che da un mese aveva smesso di occuparsi di terrorismo. E aggiunse, con la sua voce tranquilla di sempre: «Sai, non ho nessuna voglia di finire ammazzato per questi qui». lo rabbrividii e pensai che eravamo degli incoscienti a stare fermi lì, in macchina, proprio davanti al suo portone. Nove anni sono passati. Tobagi è più morto che mai, sepolto, oltre che dalla terra, dalla retorica e dalla strumentalizzazione politica. La retorica è quella, che fu subito partorita dal Corriere della Sera, del «cronista buono», la melensa, insulsa, triste, ingiusta retorica del «cronista buono». Tobagi non era affatto un «cronista buono». Era un «buon cronista» che è cosa tutta diversa. Era un ragazzo che aveva lavorato e sudato e sacrificato molto per arrivare, a soli trentatre anni, dove era arrivato. E per farlo aveva dovuto usare, anche lui, gli artigli. Sia pure i suoi particolari artigli, che erano una grande capacità di mediazione, un po' democristiana, un notevole senso della realtà e dei rapporti di forza, un sicuro istinto politico. La strumentalizzazione è quella dei socialisti che, con un'operazione che una volta era tipica dei comunisti (i meno giovani ricorderanno, forse, il caso del giovane Ardizzone) si sono appropriati del cadavere di Tobagi. Il quale, morto, è diventato molto più socialista di quanto fosse da vivo (in realtà Tobagi era un esemplare, piuttosto raro, di blando cattosocialista). Trasformato Tobagi in un proprio martire, il Psi sta mandando avanti da anni una campagna politico-giudiziaria alla ricerca di un «mandante» del delitto che si anniderebbe negli ambienti giornalistici comunisti milanesi. Non gli basta che due sentenze della magistratura abbiano escluso l'esistenza di questo fantomatico «mandante». Non gli basta l'obiezione logica che, in regime di legislazione premiale, i «pentiti» Barbone e Morandini avevano tutto l'interesse giuridico a rivelare l'esistenza di un mandante, se ci fosse stato, oltre che quello morale per poter scaricare su altri il peso del loro delitto. Ancora la settimana scorsa il sindaco Pillitteri, intervistato da Retequattro, affermava che questa obiezione logica non regge perché «i “pentiti” Barbone e Morandini hanno avuto pene molto miti». lo vorrei sapere dove sta la logica di Pillitteri. Se Barbone e Morandini rivelando ics hanno avuto pene miti, ancora più miti avrebbero potuto sperare di averle se avessero rivelato ics più ipsilon. O no? Nella sua «Talpa di città» Oreste del Buono mi coinvolge in una polemica gratuita, malevola, vile e sciocca come sono, al novanta per cento, le cose che fa Del Buono (il restante invece è geniale e questo è il mistero di Oreste del Buono). Egli presenta una mia lunga intervista a Paolo Lecaldano, fatta per il quarantennale della Bur, come se fosse organizzata a un unico scopo: dire una malignità su Tommaso Giglio, mio ex direttore all'Europeo. E cioè che Giglio, il quale fu uno dei traduttori della Bur, non sapeva l'inglese. Il che è la pura verità. Giglio diceva underground e pronunciava undergrund. Che fosse stato traduttore di poeti inglesi e, in particolare, per la Bur , dell'ostico Carrol, mi aveva quindi sempre incuriosito e quando mi sono trovato di fronte Lecaldano mi è venuto naturale chiedergli spiegazioni. Peraltro, come Del Buono mi insegna, per essere buoni traduttori di poeti più che sapere la lingua è necessario essere, a propria volta, poeti e Giglio lo era (giovanissimo, nel 1948, era entrato nella terna finalista del Saint Vincent mettendosi alle spalle gente come Pasolini, Parronchi, Spagnoletti). Nulla esclude quindi che Giglio possa essere stato un ottimo traduttore di poeti inglesi, come afferma, indignandosi, Del Buono, pur avendo una scarsa conoscenza della lingua. Ma la questione, naturalmente, non è questa. La questione sta tutta nella testa contorta di Del Buono. Solo lui può credere, per qualche suo transverso motivo (anche Oreste fu traduttore della Bur, dal francese), che una faccenda del genere possa sminuire in qualche modo la figura di Tommaso Giglio. Giglio è rimasto nella storia della cultura italiana non come traduttore ma perché è stato un grandissimo direttore di giornale. Che non sapesse l'inglese è rilevante quanto può esserlo per un fantino. Da noi redattori si faceva intendere benissimo. E non aveva bisogno dell'inglese e nemmen tanto dell'Italiano. Gli bastavano gli speroni.