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Le statistiche ci informano quasi ogni giorno che l'età media è in costante aumento. In Italia siamo ad 80 anni per le donne e 74 per gli uomini. Questi dati, combinati con la diminuzione della natalità (da noi il saldo naturale è vicino allo zero), portano a un progressivo invecchiamento della società: gli ultrasessantacinquenni sono attualmente il 13,5% della popolazione e diventeranno il 22% nel Duemila. Non ci sono mai stati tanti vecchi (presenti e futuri). Ciò dovrebbe far pensare ad un progressivo aumento del potere delle «tempie grigie». Ma così non è. Mai come oggi il vecchio è emarginato, ghettizzato, privato d'ogni ruolo e funzione, persino ridicolizzato. Tutta la nostra società, a cominciare dal linguaggio, determinante, della pubblicità, è impostata infatti sul culto del giovanilismo, dell'efficienza fisica, della produttività individuale. In una trasmissione televisiva di qualche tempo fa si affermava che «la pubblicità non rifiuta l'anziano, ma l'immagine della vecchiaia». Dici niente. Ciò significa semplicemente che il vecchio è negato come tale, che per essere accettato deve fare il giovane, sembrare giovane, inseguire i modi dei giovani così da scacciare da sè e dagli occhi degli altri quell'orribile «immagine della vecchiaia» che alla pubblicità ripugna soprattutto perché l'anziano, visto che non è più un produttore, deve essere almeno un consumatore. Nascono quindi, su iniziativa dei comuni e di enti assistenziali, attività per «risocializzare» gli anziani e si sono visti e si vedono settanta-ottantenni, sotto la guida di animatori sociali e di giovani volonterosi, sgambettare impudicamente in sale da ballo, ascoltare idoli rock, praticare improbabili jogging, ruzzare nei prati. Oggi non è più permesso invecchiare decorosamente, dignitosamente, secondo i propri ritmi biologici, non è più lecito lasciarsi andare alla propria età (che era una delle poche libertà della vecchiaia), bisogna darsi da fare. La stessa parola “vecchio” è stata messa fuori legge, bandita, scomunicata, espunta dal vocabolario corrente e sostituita, col consumato tartufismo che caratterizza la nostra epoca, con i più svariati eufemismi: «la terza età», «la quarta età», «i meno giovani» o, al massimo, gli «anziani». Come se le parole potessero annullare -altro mito contemporaneo- la sostanza delle cose. Purtroppo non c'è ipocrisia linguistica, non c'è iniziativa sociale, per quanto meritoria, non c'è buona volontà, non c'è boyscoutismo che possano cancellare la realtà: nella società industriale il vecchio non ha alcun ruolo. In quella agricola, nell'ancien regime, il vecchio era utile, aveva una funzione. In quella società, che si basava sulla tradizione orale (la scrittura era prerogativa di pochi), egli era il detentore del sapere, conosceva quelle cose, spesso indispensabili per la vita e la sopravvivenza o anche per la semplice amministrazione quotidiana, che i membri giovani della sua famiglia e del suo villaggio non conoscevano e imparavano di volta in volta da lui. Era consultato, era importante, era rispettato, tanto che, come nota uno storico dell'ancien regime, l'inglese Peter Laslette, «c'era chi esagerava la propria età» (ve lo immaginate uno che oggi si dà più anni di quelli che ha?).Nella società attuale avviene esattamente il contrario. «Una società industriale», scrive un altro storico, Carlo Maria Cipolla, «è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico. In tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L' agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese nell'adolescenza. L' uomo industriale è sottoposto a un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio, nella società industriale un relitto». Di questa realtà è conferma la tendenza (che, forse, solo ora comincia ad avere una leggerissima inversione) dell'industria ad abbassare la soglia del ricambio generazionale nelle aziende: prima a 60 anni, poi a 55, poi a 50. L' Ibm, negli Stati Uniti, prevede uscite dal lavoro già a 45 anni. E se un uomo è «obsoleto» a 45 anni, si può facilmente immaginare come sia considerato a 65 ed oltre. Ma alla perdita di ruolo, e quindi di motivazione e di autostima (così importanti per vivere), si aggiunge l'altro spettro della vecchiaia anni Duemila: la solitudine. La spaventosa solitudine dei vecchi. Nella società preindustriale, agricola, non per nulla chiamata «patriarcale», il vecchio vive in famiglia fino alla fine, circondato dai figli, dai nipoti, da molti bambini, da donne ed è da essi accudito quando non è più in grado di provvedere a se stesso. Oggi sono le strutture stesse della società industriale, l'inurbamento, le limitate dimensioni degli appartamenti, la famiglia mononucleare, i ritmi di lavoro ad espellere i vecchi dal nucleo familiare. Nella maggioranza dei paesi europei solo il 2% degli anziani vive con i propri figli o i nipoti. Per gli altri c'è la solitudine o il cronicario. Non per nulla è di quest'epoca l'impressionante e penosissimo fenomeno, sconosciuto prima d'ora, del suicidio dei vecchi. È stata creata un'intera classe di spostati e di esclusi, che prima non esisteva e che ora è in costante aumento. I vecchi non sono mai stati così numerosi, ma non sono mai stati così infelici. A tutto ciò noi diamo, come sempre, il nome di progresso.