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«Pronto, casa Berlusconi? Cerco il cavaliere». «Attenda». Dopo qualche secondo sento una voce con una leggera inflessione lombarda: «Buongiorno. Alle sei ad Arcore. Le va bene?». «Certamente». «Allora d'accordo. Alle sei. Anche se... Ma no, va bene così... Avverto nella voce una sfumatura d'incertezza, forse di timidezza. «Dica pure, cavaliere». «È che potrebbero essere anche le sei e un quarto. Sa, se non vado a Como a vedere il Milan poi Sacchi se ne ha a male».

Quando, puntuale, arrivo alla famosa villa di Arcore per questa intervista che, è pattuito, verterà solo sul calcio, Berlusconi non c'è ancora. Vengo fatto accomodare sulla veranda che dà sul grande e splendido parco. Lui arriva poco dopo vestito con un maglione nero, la camicia aperta sul collo. «Allora», chiedo, «È andato a Como?» «No. Sono stato così vicino al Milan in questa settimana che posso permettermi almeno oggi di rimanere a riposo».


E' un Berlusconi inusuale quello che siede davanti a me. Non solo non ha la giacca e la cravatta d'ordinanza, ma è un Berlusconi stanco. Niente sorrisi smaglianti. Forse è la stanchezza che viene, improvvisa, dopo che si è raggiunto un obiettivo cui si teneva molto. Forse è il riflesso della stanchezza più generale d'un uomo che lavora quattordici ore al giorno. Ma, cosa strana per me che ho un debole per tutte le debolezze, la sua stanchezza non mi intenerisce. È, per così dire, una stanchezza incellofanata, come il suo sorriso televisivo. Mi rendo conto di non provare per quest'uomo, che pure è uno dei potenti d'Italia, alcuna attrazione. Nè positiva nè negativa. Non ha l'arroganza regale di Agnelli. Nè la sanguigna corposità di Lucchini. Ma nemmeno la protervia di De Benedetti. Caso mai colpisce un certo candore.


Dopo averlo visto da vicino, mi sentirei di escludere che alle sue spalle ci sia, come si dice di ogni grande ricchezza, un delitto. Lo sospetto, piuttosto, capace di buone azioni. Come quando, già imprenditore, faceva il presidente di una squadra, la Torrescala, dove giocava il fratello e, poiché gli altri squagliavano, gli toccava fare tutto, anche segnare le righe del campo. E' domenica. Da fuori arrivano grandi strombazzamenti di clacson. «E' l'Inter che ha vinto il campionato», dice Berlusconi. «Complimenti. Se l'è veramente meritato». Potrebbe persino essere sincero. Tre anni fa scrissi, su questo giornale: «O il calcio distruggerà Berlusconi o Berlusconi distruggerà il calcio».

Sono tuttora convinto che Sua Emittenza sia un pericolo, con quella sua ottimistica megalomania di innovare, americanizzare, spettacolarizzare un gioco che è rimasto uno degli ultimi rifugi della tradizione. Ma mi rendo conto di essere stato troppo khomeinista quando, in più occasioni, l'ho demonizzato. Berlusconi non è il diavolo. È solo, come tutti noi, un povero diavolo. Il suo ingresso nel mondo del calcio, alla testa del Milan, fu clamoroso, all'americana, un po' kitsch. Si ricorda? Gli elicotteri, le majorettes... «Le majorettes, per la verità, non c'erano. In quanto agli elicotteri devo dire che c'era stata, all'interno del nostro gruppo, una riflessione precisa al riguardo perché ci rendevamo conto delle critiche e dei sorrisi cui andavamo incontro. Ma avevamo bisogno di far sapere che la filosofia del Milan era cambiata e soprattutto di scuotere subito l'ambiente del tifo rossonero, perché la presenza di sole 21 mila persone a San Siro rappresentava un pericolo enorme. Allora decisi quel “coup de theatre” per conquistare la prima pagina di tutti i giornali sportivi e non sportivi. La cosa funzionò, il pubblico rispose e collezionammo abbonamenti. Dopo di che nessuno meglio di me sapeva e sa che il calcio è liturgia, e che come tutte le liturgie non ha da essere cambiata».

Quello che lei dice, dottor Berlusconi, mi stupisce non poco. Lei ammette che i calcio è liturgia, che è rito. Però nello stesso tempo sta proponendo una raffica di varianti, mentre l'essenza del rito è di rimanere sempre uguale a se stesso. «Beh, io so che c'è anche un'altra regola: difficilmente qualcosa può restare uguale a se stessa e progredire. C'è il rischio che l'interesse diminuisca soprattutto quando incalzano altri sport che hanno adottato regole più moderne, regole, tra l'altro, che sono più vicine a quel senso di giustizia che è insito nel cuore di ciascuno di noi. Per questo ho proposto di abolire nel calcio i “tempi morti”, come si fa nel basket. E' un'idea che è venuta fuori all'indomani della partita del Milan con la Stella Rossa in cui un arbitro non all'altezza della situazione permise alla squadra jugoslava di perdere continuamente tempo e di ridurre il gioco a un numero di minuti veramente lontano dalla giustizia».

C'è ben altra carne al fuoco. Lei ha proposto un Supercampionato europeo, mi pare. «Si». Il Supercampionato taglierebbe fuori dal grande calcio Bergamo, Lecce, Como, Pisa eccetera, insomma tutte le medie e piccole città, e reciderebbe le radici popolari e campanilistiche di questo sport. «lo sono di opinione esattamente opposta. Il Supercampionato europeo darebbe più senso alla partecipazione di queste squadre ai loro campionati di appartenenza». Ma svalorizzerebbe completamente il campionato italiano. «Questo è tutto da vedere. Già adesso, del resto, abbiamo un certo numero di squadre che partecipano alle coppe europee. Soltanto che la formula di queste competizioni ora è ad altissimo rischio, perché le squadre possono essere eliminate alla prima partita. Il Supercampionato consentirebbe invece a queste stesse squadre di non trovarsi nelle condizioni di aver messo in piedi una struttura dimensionata a un impegno europeo da cui escono subito. A ciò aggiungo il vantaggio che le  squadre in vetta ai valori nazionali avrebbero incontri continui con squadre straniere dello stesso valore. Per esempio il Milan potrebbe ospitare ogni mercoledì il Real Madrid o il Barcellona...».

Sì, però a questo punto Milan-Lecce non interesserebbe più nessuno. «Beh, vede, io non sono così convinto che Milan-Lecce sia giusto che ci sia. E le spiego il perché. Intanto perché quando una squadra vince il Campionato d'Europa poi ha molta difficoltà a trovare motivazioni nell'incontrare una squadra troppo inferiore. Secondo, perché credo che per una squadra inferiore (e non vorrei parlare del Lecce per il quale ho grandissima simpatia) sia meglio partecipare a un campionato in cui ha la possibilità di vincere piuttosto che a un campionato in cui l'unico suo obiettivo è quello di non retrocedere. Inoltre le squadre capaci di emergere nella propria fascia di importanza potrebbero partecipare ai play-off».

Ma se per queste città il grande calcio diventa solo quello visto per televisione, è probabile che il calcio praticato perda fascino e che i ragazzini si mettano a giocare invece, che so, a baseball. A questo punto anche le grandi squadre dove vanno a rifornirsi? Inoltre il fascino delle Coppe sta proprio nel brivido dell'eliminazione diretta. «Oh, senta. Questa è soltanto una delle idee che io ho avanzato. Una delle tante. Come accade nel gruppo. L'altro giorno abbiamo avuto una riunione e ho proposto venti idee, perché sono fatto così, poi ne abbiamo approvate quattro. La stessa cosa vale per il Supercampionato. Non ci insisto in maniera particolare, l'ho precisato anche all' Uefa, non pretendo di essere nel giusto. Se va, avrò una soddisfazione, sennò pazienza. Del resto, se mi consente, se c'è qualcuno cui in questo momento dovrebbe andare bene l'attuale formula è proprio il signor Berlusconi presidente del Milan che con questa formula e queste regole ha vinto la Coppa dei Campioni».

Parliamo di abbonamenti. Voi ne avete 65 mila. Finanziariamente il meccanismo è perfetto: è denaro fresco che entra in anticipo. Ma ciò ha cambiato l'antropologia del tifoso milanese. Ha tolto al milanese medio la possibilità di andare a San Siro. Fino a non molto tempo fa c'era nella nostra città la civile abitudine di guardare il cielo la domenica mattina e dire bah, è una bella giornata, vado a San Siro. Ora questo non è più possibile. «La politica degli abbonamenti ha dei vantaggi e degli svantaggi, come tutte le cose di questo mondo. II vantaggio è di avere il teatro colmo con qualunque partita. Lo svantaggio è che chi decide di andare una volta all'anno a San Siro ha difficoltà a trovare i biglietti. Comunque per coloro che intendono andare soltanto a qualche partita abbiamo preparato un sistema che funziona benissimo». Quale? «L'interessato si rivolge ad alcune banche che all'inizio di stagione gli prenotano un posto per questa o quella partita. Certo; si tratta di avere una cultura diversa, nuova, di saper programmare in anticipo le proprie decisioni di andare allo stadio».

E vabbè, così adesso oltre a programmare le vacanze da un anno all'altro dovremmo anche decidere, mesi prima, le nostre sortite allo stadio. «A me sembra che privilegiare chi ha più amore per la squadra, chi è più costante e assiduo, non sia una cosa negativa». Così però si finisce per convogliare a San Siro solo gli elementi un tantino fanatici... «lo sono di diverso avviso. Perche quelli che lei definisce fanatici e io chiamo appassionati, è gente che allo stadio trova sfogo ad una carica che probabilmente. scaricata altrove, potrebbe essere assai più pericolosa».

Comprendo benissimo. Però, un tempo. era proprio quel cuscinetto di tifosi normali che stemperava le violenze dello stadio. Ad ogni modo già oggi il derby, quando ospita il Milan, è diventato una cosa tristissima. Perche ci sono 70 mila bandiere rossonere e tremila nerazzurre. Mentre il fascino del derby stava proprio nella contrapposizione dei colori delle tifoserie. «Io, francamente, non ho trovato affatto tristissimo il derby. Perche quella interista era una minoranza agguerrita, che si faceva sentire». Dica la verità, presidente, lei si diverte in uno stadio dove ci sono solo tifosi milanisti? «lo non ho mai visto stadi totalmente di una squadra. Forse l'unica eccezione è stata proprio in questa Coppa dei Campioni. Però Iì c'è stato un altro tipo di spettacolo, perché assistere a una migrazione cosl totale di una città in un'altra è stata una cosa veramente grandiosa».

Lei parlava prima di giustizia e di sportività, ammetterà che quello di Barcellona non era più un campo neutrale e che voi eravate totalmente avvantaggiati. «Non è colpa mia se esiste la cortina di ferro e se un certo signor Marx ha tenuto milioni di persone in uno stato di schiavitù e miseria per tanti anni». Lei si è battuto per il terzo straniero. Adesso propone di portare gli stranieri a cinque. Ciò non aumenterà ulteriormente il gap fra squadre ricche e squadre povere? «Io penso che questo gap debba esistere e che il calcio, come tutte le altre attività, nel futuro debba andare verso le concentrazioni. C' è una regola, che non ho inventato io, che è considerata oggi la regola dello sviluppo della nostra civiltà e che gli americani hanno teorizzato così: ciò che è grande diventerà più grande e ciò che è piccolo diventerà più piccolo. Questo avverrà anche nel calcio. Nel calcio del futuro ci saranno dei grandi protagonisti e, se vuole sapere, saranno legati ad aziende multinazionali che approfitteranno delle squadre di calcio per diffondere un loro messaggio dl comunicazione e di immagine. Questa è una previsione, non è qualcosa per la quale mi batto».

Non mi pare affatto. Una multinazionale del genere esiste già e si chiama Fininvest. Il Milan è un veicolo pubblicitario della Fininvest. È appiattito sulla Fininvest. Se cerchi sull' elenco del telefono non trovi più Milan, trovi: vedi voce Fininvest. «Io sono ancora una volta di parere opposto al suo perché, caso mai, se dubbio ha da esserci, è che la Fininvest si appiattisca sul Milan. Il Milan oggi è il fatto più evidente. Per cui se vince c'è considerazione nei confronti del nostro gruppo, se perde ci andiamo di mezzo noi con le altre attività. Quindi caso mai, il rischio è opposto a quello che lei ha detto».

A me sembra che abbiamo detto la stessa cosa. Comunque sia lei dice: il mondo va verso queste grandi concentrazioni, lo vogliono le leggi dell'economia. Ma proprio perché il mondo intero marcia in questa direzione non pensa che debba rimanere, come sfogo, qualche nicchia per la tradizione, per quei valori irrazionali, emotivi, sentimentali, simbolici, mitici, espulsi da tutte le altre parti? E che una di queste nicchie sia proprio il calcio? «Ma questo rimane, rimane. lo penso che avrà sempre un grande valore l'identità di una squadra nei confronti della sua gente, del suo ambiente di amore. Per quanto mi riguarda io sto procedendo in questa direzione. Nella scelta dei giocatori - lasciamo stare per il momento gli stranieri- io cerco di avere gente il più possibile radicata in terra lombarda. Cioè dovendo scegliere fra un giocatore e un altro per un certo ruolo della prima o della seconda squadra io privilegio chi appartiene a Milano, alla regione. Che io consideri come un grande vantaggio quello della omogeneità, della compattezza della cultura, lo dimostra il fatto che non sono andato a prendere degli stranieri qui e là, ma ho scelto tre olandesi. Ma adesso consenta un'obiezione anche a me. Lei è venuto qui esponendo una serie di tesi in contrasto con quelle che sapeva essere le mie. Non mi ha dato assolutamente spazio per qualcosa di positivo. Ciò che voglio dire è che il risultato conseguito nella Coppa dei Campioni non è soltanto una sia pur esaltante vittoria di una squadra di calcio su un'altra, è la vittoria di un sistema di valori in cui io personalmente credo e in cui credono anche le persone che sono felici di lavorare con me. Il primo è quello di sapersi dare degli obiettivi ambiziosi. E ci vuole del coraggio. Perche quando io ho dato ai ragazzi del Milan, ai collaboratori della società, questa missione: “Dobbiamo avere una squadra che dovrà essere sempre protagonista in Europa e quindi dobbiamo puntare a costruire la squadra più forte del mondo”, nessuno più di me sapeva come questo ci esponesse a sarcasmi e a critiche. Certo il traguardo non deve essere irraggiungibile, quindi ci vuole chiarezza nella valutazione dei propri mezzi. E noi questa chiarezza l'abbiamo avuta. Il secondo valore è l'umiltà. C'è il traguardo ambizioso, ma poi ci deve essere anche una grande umiltà nel lavoro quotidiano, continuo, attento, mirato. Il terzo valore è la solidarietà del gruppo, per la quale abbiamo lavorato moltissimo. Il quarto, importantissimo, è la lealtà nei comportamenti. Che con un sistema di valori del genere si possa arrivare a risultati che potevano apparire irraggiungibili io l'ho dimostrato in tutte le attività che mi vedono protagonista».

Dottor Berlusconi, non sono in discussione i risultati che lei ha raggiunto. Sono sotto gli occhi di tutti. L 'obiezione che le porto qui è che lei sta imprenditorializzando, tecnicizzando, razionalizzando in eccesso un qualcosa, come il calcio, che deve rimanere in parte irrazionale, che deve rimanere in qualche modo... sogno. E tutto il suo lavoro va, istintivamente, contro questa direzione. Dal campionato europeo agli stranieri, ai tempi morti del basket, alla computerizzazione delle emozioni dei giocatori fino a quella centralina elettronica che dovrebbe certificare, senza più ombra di dubbio, il gol, ammazzando così anche il piacere delle infinite discussioni che facciamo il lunedì in ufficio, al bar, in strada. «Se questo è il risultato mi dispiace. Perche nessuno più di me è sognatore. Nessuno più di me insegue l'utopia. La differenza è forse che io sono un sognatore pragmatico, cioè mentre gli altri di solito si fanno dei sogni che restano sogni, io cerco di trasformare i miei sogni in realtà».

Il sole, sceso ormai sull'orizzonte, indora gli alberi del parco e ferisce il volto stanco di Berlusconi. Si sentono le grida infantili delle due figliolette, molto carine e molto infiocchettate come è destino dei poveri figli dei ricchi. Chiedo: «Berlusconi, lei è un vincente. Cosa pensa dei perdenti?». C'è un lungo silenzio, poi la risposta: «lo sono un vincente quando vinco, ma sono un perdente quando perdo. Nonostante qualche apparenza, nulla mi è mai stato facile nella vita. Per arrivare, da figlio di un impiegato di banca, ho dovuto sempre lavorare, lavorare e ancora lavorare. Mia madre mi dice a volte; “E' una grossa condanna la tua, niente ti riesce facile”. E io rispondo: “mamma: sangue sudore e lacrime. E' l'unica ricetta che conosco e quindi continuo a praticarla. Fin quando reggo, reggo».