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L’ultimo rapporto Censis ci dice, in sostanza, che nel periodo Covid i poveri sono diventati più poveri, i ricchi più ricchi. In realtà il Covid non fa che evidenziare un fenomeno, quello del progressivo aumento delle disuguaglianze fra ceti ricchi e ceti poveri, che ha inizio praticamente col capitalismo (al punto in cui siamo arrivati siamo costretti a riutilizzare il linguaggio di Marx). In un documento della FAO che risale a metà degli anni Settanta si dice: “L’analisi storica dello sviluppo dimostra che l’accumulazione del capitale privato o statale, il passaggio dall’economia contadina all’economia industriale e urbana, ha avuto in un primo tempo come conseguenza un aumento delle disuguaglianze”. Del resto Alexis de Tocqueville che visse il passaggio dal mondo contadino a quello industriale nel saggio Il Pauperismo (1835), dopo un viaggio in Europa constata, con un certa meraviglia, che nei Paesi che hanno già imboccato la via dello sviluppo industriale, per esempio l’Inghilterra, ci sono più poveri che nei Paesi che quella strada non l’hanno ancora iniziata. Ma c’è molto da discutere sul fatto che solo “in un primo tempo”, come scriveva la FAO, il capitalismo industriale abbia prodotto un aumento delle disuguaglianze. Se nei Paesi europei si è potuto affermare per più di un secolo e mezzo un forte ceto medio, che faceva da cuscinetto fra i più ricchi e i più poveri, è perché erano da poco risuonate le sacre parole della Rivoluzione francese liberté, égalité, fraternité che proprio la Francia, l’Inghilterra, il Belgio davano inizio al colonialismo sistematico. Cioè rapinavano le risorse dei Paesi terzomondisti. Questa pacchia ebbe fine col declinare del colonialismo dopo la seconda metà del Novecento. È in questo periodo che riemergono nei Paesi europei fortissime disuguaglianze di classe. Prendiamo l’Italia, che è poi il Paese che qui ci interessa. Ne La Ragione aveva Torto? (1985), che fotografa la situazione dell’Italia degli anni Ottanta, scrivevo: “Il decile più ricco, cioè il 10% che sta alla sommità della piramide sociale, ha il 29,9% del reddito complessivo rispetto al 2,4% del decile più povero, i ricchi cioè hanno un reddito che è 12,5 volte quello dei più poveri”. Ma il dato più sconcertante lo si ha se si mettono a raffronto le ricchezze invece dei redditi. Nell’Italia degli anni Ottanta il 6,7% delle famiglie deteneva il 42% della ricchezza totale e il 15,8% si spartiva il 66% della ricchezza. Per contro il 47,8%, cioè quasi la metà della popolazione, aveva lo 0,8%. Da allora la situazione in Italia, ma il problema è mondiale, non ha fatto che peggiorare. Secondo un rapporto della Banca d’Italia del 2018 “Nel decennio tra il 2006 e il 2016, i due decili più bassi della ricchezza netta sono passati, rispettivamente, da 2.300 a 1.100 euro e da 12.000 a 6.200 euro”.

Il problema, dicevamo, è mondiale. Forbes pubblica ogni anno un elenco degli uomini più ricchi del mondo che, rappresentando nei rispettivi Paesi l’1% della popolazione, detengono la metà ed oltre della ricchezza nazionale. Per esempio negli Stati Uniti l’1% dei più ricchi detiene circa il 38% della ricchezza USA. Lo stesso fenomeno si riscontra peraltro nei Paesi cosiddetti terzomondisti. La Nigeria che è il Paese più ricco di quella che una volta chiamavamo Africa Nera ha il più alto numero di poveri. Ma per tornare in Italia assistiamo, proprio in base ai dati che abbiamo fornito, a una progressiva scomparsa del ceto medio: alcuni entrano a far parte dell’empireo dei ricchi, ma molti di più scendono nella caienna della semipovertà o della povertà tout court i cui livelli si sono ulteriormente abbassati (quelli che nell’Italia di oggi sono sotto i livelli ufficiali di povertà, negli anni Ottanta sarebbero stati considerati dei benestanti o quasi). Le Democrazie occidentali dovrebbero essere molto più attente a questo fenomeno perché il ceto medio è storicamente il collante fra i ceti ricchi e i ceti poveri, dando a questi ultimi la speranza di accedere, grazie alla mobilità sociale, a livelli superiori. Fra le cause che portarono al Fascismo ci fu anche il forte indebolimento nel dopoguerra del ceto medio (i ricchi, speculando, erano diventati ancora più ricchi e i poveri  ancora più poveri). Ecco perché la proposta di Beppe Grillo di una “patrimoniale” non ha solo un senso equitativo ma anche l’obiettivo, molto poco rivoluzionario, di evitare disordini sociali che in Italia, ma prima ancora in Francia, hanno fatto capolino col Covid. In Spagna il governo socialista di Pedro Sánchez e di Podemos una “patrimoniale”, della cui complessità non è il caso di rendere conto qui, l’ha varata. Perché in Italia al solo sentire il termine “patrimoniale” si fa il ponte isterico come le prefiche d’antan?

Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2020