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Ho letto la bella intervista di Emiliano Liuzzi a Mario Capanna. Conosco Capanna dal 1968 e ho per lui stima e anche affetto. Perché è stato una delle rarissime persone capace di entusiasmarmi, agli inizi del movimento studentesco, non ancora MS. Capanna era personalmente contrario alla violenza. Preferiva gli sberleffi ludici, come il lancio delle uova alla Scala sulle 'sciure' invisonate. O come quando in Largo Gemelli, con un megafono in mano, ordinò ai carabinieri della locale stazione di arrendersi. Fummo subito caricati e ci rifugiammo in una chiesa sconsacrata, lì vicino. Ma eravamo circondati, in trappola. Capanna con altri afferrò una grande asse di legno che serviva per i restauri e la usò come un maglio contro una porticina che dava sul retro. Era una scena medioevale. Nella mia immaginazione postuma lo vedo con indosso una tonaca da monaco (del resto, con quel viso umbro, ce l'aveva un po' l'aria del monaco eretico). Era contrario alla violenza ma ebbe la grave responsabilità politica di avallarla e si autoassolve con troppa disinvoltura. Dimentica gli innumerevoli, selvaggi, pestaggi avvenuti davanti alla Statale. Nel febbraio del 1972 ce ne furono uno dietro l'altro, contro uno studente israeliano sospettato, naturalmente a capocchia, di essere una spia della Cia, l'altro contro un sindacalista della Uil, Giovanni Conti accusato in un comunicato dell'MS oltre che di nefandezze politiche di alzare il gomito e di amare la notte. Tale era, sotto le parole rivoluzionarie, il moralismo bacchettone dell'MS. Io allora lavoravo all'Avanti! e avevo lasciato quasi da subito l'MS proprio per questo 'vizietto' del linciaggio. Scrissi questo corsivo: «Il Movimento studentesco c'è ricascato. A poche settimane di distanza dall'aggressione del sindacalista della Uil, Giovanni Conti, un altro episodio di violenza vile e stupida che non trova aggancio in alcuna seria motivazione politica, ha avuto come teatro la Statale e come protagonisti i picchiatori del Movimento studentesco. A questo punto non si tratta più di casi isolati, di 'ragazzate' di qualche frangia particolarmente irrequieta dell'MS -come sostiene, fingendo il nulla, Mario Capanna- ma di metodo. E il linciaggio, la caccia all'uomo e alle streghe, israeliane e non, le grida al 'monatto', sono metodi che, ce ne doliamo con Capanna, echeggiano le abitudini delle squadracce fasciste, sono, soprattutto, espressione di una mentalità (forse inconsciamente) fascista. Il Movimento studentesco deve uscire dall'equivoco. Il linciaggio e l'isteria collettiva non fanno parte del linguaggio politico ma della patologia medica». Quando rimisi piede in Statale i katanga mi circondarono, volevano farmi la festa. Mi salvai rifugiandomi sotto le ali protettrici di Capanna.

Nel 1973 scrissi per Linus una lunga inchiesta sui vari gruppi della sinistra extraparlamentare, che Oreste del Buono titolò 'L'extramappa', in cui fra le altre cose prendevo in giro Luca Cafiero leader dell'MS, braccio destro di Capanna. Qualche sera dopo mentre rincasavo arrivarono in quattro, con i caschi da motocicletta e le catene. Quando il capo del manipolo mi fu quasi addosso lo riconobbi al di là della visiera: era Giorgio Livrini, un allegro ragazzo con cui sei anni prima avevo fatto il guardiaporte alla Statale, ma che si era appesantito nella stazza del picchiatore. Dissi: «Giorgio..». Vidi passare nei suoi occhi un lampo, che diceva: «Questo qui o lo ammazzo, perché mi ha riconosciuto, o lasciamo perdere». Finimmo tutti e cinque da Oreste a bere un bicchiere. A me è andata bene, altri sono finiti in sedia a rotelle.

Capanna dimentica con troppa disinvoltura che quelli dell'MS andavano in giro gridando «Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero», «Uccidere un fascista non è reato», spaccando vetrine e, all'occorrenza, anche crani.

Capanna dice di aver pianto a dirotto per Soriano Ceccanti reso paralitico da un proiettile della polizia, ma non sparse una lacrima per il diciassettenne Sergio Ramelli morto dopo un'atroce agonia in seguito a una bastonatura selvaggia. Non furono quelli dell'MS a sprangarlo, ma elementi di Avanguardia Operaia. Però il clima era quello.

Il Sessantotto, se non avesse avuto esiti tragici, sarebbe stato, per prendere un'espressione usata da Luigi Einaudi per la massoneria, «una cosa comica e camorristica». Erano quasi tutti figli della borghesia (l'MS aveva nelle sue file un solo operaio, un certo Lo Bue, che portava in giro come una 'madonna pellegrina') i cui leader (non Capanna che non ha fatto nessuna carriera) erano in perfetta malafede e già pensavano di inserirsi negli alti posti di comando di quella stessa borghesia che dicevano di voler combattere («Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi»). L'esempio classico, ma è solo uno dei tantissimi nomi che si potrebbero fare, è quello di Paolo Mieli che militava in Potere Operaio, PotOp per gli amici, ad altissimo tasso di concentrazione di figli dell'alta borghesia e dell'aristocrazia romane tanto da meritarsi il soprannome di 'molotov e champagne'.

No, Mario, non furono anni 'formidabili'. Furono anni infami. E un po' di autocritica dovresti farla anche tu.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2014