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E’ molto difficile, anche per me che lo conoscevo da moltissimi anni, da quando avevo pubblicato con lui, con la sua casa editrice, la Marsilio, Denaro. “Sterco del demonio”, parlare e descrivere una personalità complessa e, all’apparenza non facile come quella di Cesare De Michelis. E’ difficile anche perché mi viene un po’ di groppo in gola: era uno degli ultimi amici della mia generazione che mi erano rimasti e con cui potevo parlare. Naturalmente sapevo che era malato da tempo, una malattia cui cercava di resistere con tutte le sue forze e il suo coraggio. Gli avevo telefonato pochi giorni fa e l’avevo sentito con la voce ancora forte. C’eravamo lasciati con l’eterna promessa di riverderci a Milano e fare le solite chiacchiere in cui non eravamo d’accordo quasi su nulla. Lui era un pragmatico, un realista, e mi prendeva garbatamente in giro per le mie certezze. Ora non ci rivedremo più, né a Milano né in qualsiasi altro luogo, perché siamo entrambi dei ‘non credenti’, io, almeno, l’ho sempre interpretato così, anche se scavare nell’animo più profondo di un essere umano non è possibile a nessuno.

L’avevo conosciuto moltissimi anni fa nell’ambito del ‘Premio Berto opera prima’ di cui eravamo entrambi giurati. Per la verità in quella giuria c’ero capitato per puro caso. Lo aveva fortemente voluto la moglie di Berto perché pensava, non so quanto a ragione, che in un’intervista fatta a Berto sulla terrazza della loro casa romana, in uno splendido pomeriggio di giugno, avessi in qualche modo ridato fiato e un po’ di vita al marito, ammalato di quel cancro di cui morirà pochi mesi dopo. All’epoca del Premio Berto io pubblicavo con Mondadori. De Michelis mi faceva un discreto filo ma io lo ignoravo. Quando Mondadori fu presa da Berlusconi per non sentirmi fare la solita accusa che attaccavo il rais di Arcore ma poi prendevo soldi da lui (altri sono stati più disinvolti) accettai l’offerta di Cesare. Ed entrai in un altro mondo, editorialmente e umanamente. Per De Michelis, per quanto fosse un editore abile e accorto come in cinquant’anni di professione ha dimostrato, il libro non era un ‘prodotto’ ma qualcosa di diverso e di più. Come i suoi autori e collaboratori non erano semplicemente dei numeri. C’era in Marsilio un’atmosfera quasi familiare. Lui era un finto burbero che cercava di mascherare in questo modo una chiusa timidezza.

Era un uomo di una cultura sterminata, bastava entrare nella sua casa con una libreria mi pare di 80mila volumi, letti comunque consultati, per capirlo, ma non per questo noioso e pedante. Conosceva l’ironia e l’autoironia. Al suo livello culturale, nella ormai mia lunga esperienza, ho incontrato solo Pier Paolo Pasolini e Giovanni Spadolini (solo che Spadolini, buonanima, era pedante e noioso).

Con la Marsilio siamo andati sempre benissimo e in crescendo. Ma quando con l’intuizione di pubblicare i giallisti svedesi, Mankell e Larsson, che portarono la Marsilio in una dimensione economica diversa e io divenni un autore, diciamo così, di seconda fascia, il suo atteggiamento nei miei confronti non mutò. Al contrario. Nel 2016, intuendo che era alla fine, mi fece il regalo (perché di regalo si tratta, non so quanto ci abbia guadagnato) di pubblicare con La modernità di un antimoderno una parte della mia ‘opera omnia’, replicando poi due anni dopo, nel maggio del ’18, con Confesso che ho vissuto, quando lui, come capiva benissimo, era agli sgoccioli. Per alleviare un po’ le cose negli ultimi tempi gli dicevo scherzando: “tu non mi puoi premorire perché la morte di un editore non fa aumentare le copie, quella dell’autore sì”. Invece è toccata a lui.

Di Cesare, fra i tanti, mi piace ricordare due aneddoti minori. Due anni fa tenne a Mogliano Veneto una ‘lectio magistralis’ su Berto così affascinante che anche la mia segretaria, Nadia, ne fu presa e quasi se ne innamorò. Io dovevo intervenire subito dopo e, pur conoscendo bene Berto, non sapevo come avrei potuto reggere il confronto. Me la cavai con i soliti trucchetti da giornalista. De Michelis, come quasi tutti i veri editori, non ha mai scritto niente di suo. Era un regista, non gli piaceva comparire e questo stava perfettamente nella sua natura sostanzialmente schiva. Ci sono però un paio di eccezioni. Libri brevissimi scritti in un italiano straordinario, difficile da trovare oggi. Uno riguarda la storia della sua famiglia, l’altro, Gazzetta. Storia di una parola, l’ho letto proprio quest’estate. Ne viene fuori, oltre a una cultura minuziosa espressione però di un atteggiamento mentale più vasto, che, in origine, in qualsiasi lingua i ‘gazzettieri’, i ‘novellatores’ godevano fra il pubblico di una pessima fama, del tutto meritata. Allora il popolo, a differenza di oggi, non si faceva infinocchiare facilmente. Non so se questo disprezzo per i giornalisti appartenesse anche a De Michelis. Non direi perché, con la misura che gli era consueta, in quel libretto cerca anche di salvarci. Ma racconto questo per dire, senza false modestie, che fra me ‘gazzettiere’ di professione e un uomo come De Michelis correva culturalmente un abisso.

Una sera Cesare invitò me e mio figlio a casa sua, a Venezia. La sua seconda moglie, che credo sia stata determinante per la sua vita e anche per la sua salute proibendogli in modo drastico di continuare a fumare, non c’era. Fece tutto lui e assecondò anche mio figlio che per una qualche sua bizza voleva un succo di pomodoro diverso da quello che lui aveva preparato. Insomma era un uomo dai modi semplici, anche se non semplice.

Ci mancherai, mi mancherai, Cesare.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2018