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Allora è ufficiale. E’ stato certificato dalla Società di gerontologia e geriatria: la vecchiaia comincia solo a 75 anni esatti. Evviva. Io ho compiuto questa età lo scorso novembre, ciò vuol dire che a ottobre ero ancora giovane.

Di questa decisiva certificazione ci informa sul Corriere del 2/12 Edoardo Boncinelli che oltre ad essere un genetista è un importante commentatore delle questioni che girano intorno alla vecchiaia e alla morte. Scrive Boncinelli: “Io vado proclamando che ho avuto una fortuna sfacciata a vivere in questa epoca. Per aver testimoniato di persona l’incredibile allungamento della nostra vita e, spesso, della nostra vita attiva. E combattiva”.

Innanzitutto bisogna spazzar via un equivoco in cui cade volutamente, e non innocentemente, la società scientifica che ci fa credere che in passato, diciamo prima della Rivoluzione industriale, la vita fosse cortissima, trenta o quarant’anni di meno di oggi. Questo è vero se ci si riferisce alla vita media che sconta l’alta mortalità natale e perinatale. Ma se si superava questo primo scoglio, che lasciava in vita i più robusti, la realtà era ben diversa. Noi non possiamo pensare che gli uomini del passato vivessero in media poco più di trent’anni quando, in genere, gli uomini si sposavano a 28 anni e le donne a 24. Non avrebbero avuto nemmeno il tempo di badare ai primi figli e tantomeno di farne altri. Invece ne figliavano moltissimi. Non c’è bisogno di tornare ad un lontano passato per ricordare che i nostri nonni facevano sei, otto, dodici figli. Il confronto non va quindi fatto con la vita media ma con l’aspettativa di vita dell’adulto. E qui la differenza è molto meno clamorosa: in termini di aspettativa di vita abbiamo guadagnato circa dieci anni per gli uomini e dodici per le donne. Bisogna poi vedere come si vive questa dozzina d’anni di esistenza in più. Tutto l’articolo di Boncinelli gira intorno a uno dei totem dell’epoca: “vecchio è bello”. I Latini più pragmatici, meno retorici e disposti a mentirsi addosso, sapevano bene che la vecchiaia, a qualsiasi età la si voglia far cominciare, è un periodo estremamente doloroso della vita. La chiamavano atra senectus, Terenzio scrive Senectus ipsa est morvus e Seneca che morì a 69 anni e quindi ne sapeva qualcosa aggiunge “e per soprammercato inguaribile”. Vita attiva e combattiva. Non scherziamo. Il dramma della vecchiaia non sta solo, e non è davvero poco, nell’inevitabile logoramento fisico. Sta nell’impossibilità di un progetto di vita, esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Manca qualcosa da aspettare se non la morte. I vecchi fanno di tutto per riempire questo vuoto che li separa dalla nobile signora con ogni sorta di attività di cui da giovani gli importava poco o nulla. Si estenuano in visite a mostre, a musei, a collezioni d’arte contemporanea oppure in viaggi improbabili su pullman a loro dedicati durante i quali qualcuno ci resta secco provocando il terrore generale.

Oltre ai problemi esistenziali dei vecchi, ci sono quelli dei loro figli. Conosco molte persone che hanno poco meno della mia età e che hanno genitori ovviamente anzianissimi raramente in grado di badare a se stessi. Praticamente non vivono più costretti fra l’accudimento dei vecchi e la loro vita personale.

Inoltre la vecchiaia portata alle sue estreme conseguenze, grazie anche all’accanimento terapeutico, comporta un grave problema sociale ed economico che già oggi è all’ordine del giorno e ancor più lo sarà in futuro: un numero sempre più ristretto di giovani deve accollarsi il mantenimento di anziani sempre più numerosi. La nostra, in Occidente, è una società di vecchi. Diceva lo psicoanalista Cesare Musatti quando aveva novant’anni e quindi era al di sopra di ogni sospetto: “Una società popolata in maggioranza da vecchi mi farebbe orrore”.

L’allungamento a dismisura della vita che suscita in molti tante speranze, nello stesso Boncinelli che agogna di arrivare a cento anni, è un problema, o meglio un dramma, che era già stato avvertito da Max Weber. In una delle lezioni raccolte nel Il lavoro intellettuale come professione scrive: “Il presupposto della medicina moderna è che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vita…Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini”.

Questa fondamentale domanda noi moderni continuiamo a lasciarla in sospeso. E ci attorcigliamo disperatamente, senza arrivare ad alcuna conclusione, intorno a quelli che i filosofi, quando esistevano ancora, hanno chiamato “i nuclei tragici dell’esistenza”: la vecchiaia, il dolore, la morte.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2018