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J’accuse.

Chi sono i più pericolosi terroristi del mondo? I guerriglieri dello Stato islamico che si sono battuti, con grande coraggio, a Mosul e Raqqa? Quelli che con altrettanto coraggio si stanno difendendo quasi fino all’ultimo uomo nella ridotta siriana di Baghuz contro forze preponderanti, esercito di Assad, russi, turchi, i formidabili combattenti curdi appoggiati dall’aviazione Usa? I ‘lupi solitari’, soggetti che stanno fra una radicalizzazione estrema e paranoia, che hanno colpito in Francia, in Germania, in Turchia? No, i più pericolosi terroristi del mondo sono i gloriosi United States of America. Mi auguro che i lettori del Fatto, e coloro che ne sono venuti a conoscenza grazie a Rai3, abbiano dato un’occhiata non distratta all’accurato reportage di Pino Arlacchi, pubblicato dal nostro giornale mercoledì scorso, supportato da un report dell’esperto Onu Alfred De Zayas che l’ultimo Venezuela lo conosce e lo ha percorso in lungo e in largo. Arlacchi fa risalire, dati alla mano (forniti dal Fmi e dalla Banca Mondiale), la drammatica situazione in cui si trova oggi il Paese sudamericano alle “barbare sanzioni americane contro il Venezuela decise da Obama nel 2015 e inasprite da Trump nel 2017 e nel 2018”. Sotto le presidenze di Chavez e Maduro le spese sociali avevano raggiunto il 70% del bilancio dello Stato, il Pil pro capite è più che triplicato in poco più di 10 anni, la povertà era passata dal 40 al 7%, la mortalità infantile è dimezzata, la malnutrizione era diminuita dal 21 al 5%, l’analfabetismo è stato azzerato e il coefficiente Gini di disuguaglianza è sceso al livello più basso dell’America Latina. Quando le televisioni nostrane vi fanno vedere i macilenti bambini venezuelani ridotti alla fame o gli ospedali privi di medicinali essenziali dovete quindi sapere che queste non sono responsabilità di Maduro ma del cappio economico sempre più stretto dagli Usa al collo del popolo venezuelano. Tanto che lo stesso De Zayas ha proposto un utopico deferimento degli Stati Uniti alla Corte Penale Internazionale per “i crimini contro l’umanità perpetrati in Venezuela dal 2015”.

Ma questa non è che l’ultima delle infamie commesse dagli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Siamo qui costretti a ripercorrere una filiera che abbiamo già ricordato molte altre volte: 1999, aggressione alla Serbia per il Kosovo, 5.500 morti fra cui molti serbo-albanesi le cui ragioni si intendeva difendere; 2001, aggressione e occupazione dell’Afghanistan che dura da 18 anni (numero delle vittime civili incalcolabile perché mai calcolato); 2003, aggressione e occupazione dell’Iraq di Saddam Hussein (vittime civili stimate fra 650 mila e 750 mila); 2006/2007, aggressione, attraverso l’interposta Etiopia, alla Somalia dove gli Shabaab avevano riportato l’ordine e la legge dopo anni di incontrollabili scorribande fra i ‘signori della guerra’ locali, un duro ordine e una dura legge ma pur sempre un ordine e una legge (oggi la Somalia è in preda a una sanguinosa guerra civile fra gli Shabaab e il governo fantoccio di Mogadiscio); 2011, aggressione, insieme ai francesi, alla Libia del colonnello Gheddafi le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti; 2011, intromissione nella ribellione ad Assad, trasformando un conflitto locale in una guerra generalizzata sulla quale si sono avventate, oltre alla Russia, tutte le Potenze dell’area, dalla Turchia all’Iran a Israele. Tali sono i risultati ottenuti da questi vessiliferi della Democrazia, da questi indefessi riparatori di torti, da questi protettori dell’ordine e della pace mondiali.

Io credo che la vittoria nella Seconda guerra mondiale non abbia fatto bene agli americani. Li avevamo conosciuti come un popolo semplice, un po’ naif, generoso, animato da reali buone intenzioni e non possiamo dimenticare l’omaggio che Curzio Malaparte, ritornato proprio in questi giorni in auge con la pubblicazione dei suoi reportage africani, rende ne La pelle a “tutti i bravi, i buoni, gli onesti soldati americani…morti inutilmente per la libertà dell’Europa”. Né, naturalmente, noi italiani, possiamo dimenticare il piano Marshall che permise la ricostruzione del nostro Paese distrutto. Ma quella vittoria è stata a doppio taglio. Nel suo bellissimo libro, Piedi, Laura De Luca, che lavora a Radio Vaticana e non può essere certo considerata un’estremista, ricorda l’epopea degli Sciuscià, i ragazzi napoletani, costretti dalla povertà a lustrare le scarpe ai vincitori. E scrive: “La sottomissione ai nuovi dominatori del mondo. L‘epopea degli Sciuscià, shoes-shining for ever, li voleva inginocchiati ai piedi di chi lanciava loro sigarette e cioccolata e indossava la maschera buona del liberatore capace di saziare la fame della guerra. Di fronte a chi riscattava il mondo da un potere mortifero era giusto riconoscere un altro potere, solo in apparenza meno duro, quello di umiliare disinvoltamente i più deboli”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2019