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A metà degli anni Settanta frequentavo Susanna Agnelli ed ero spesso suo ospite, per qualche giorno, d’estate ma anche in alcuni weekend d’inverno, nella villa che aveva all’Argentario, un po’ riparata, equidistante da Porto Santo Stefano e Port Ercole dove impazzava il vippume di allora.

Susanna Agnelli, detta familiarmente Suni, l’avevo conosciuta grazie a un’intervista per L’Europeo che le avevo fatto nel 1975 quando, dopo essere stata eletta sindaco del Monte Argentario, aveva pubblicato Vestivamo alla marinara (“Il profilo ha da rapace” così iniziava il pezzo). In realtà la mia subdola intenzione non era tanto di conoscer lei, ma di farla parlare del fratello, il mitico Avvocato cui era legatissima da adorante sorella minore (li separava solo un anno) e al quale era disposta a perdonare tutto. Suni, simpatica, divertente, era incredibilmente naif per gli standard della politica italiana, non si trincerava dietro le consuete fumisterie (si sarebbe fatta più accorta quando diventò sottosegretario agli Esteri sotto Andreotti, un maestro nel genere). Era ritornata da non molti anni dall’Argentina dove aveva vissuto col marito Urbano Rattazzi e non si era ancora abituata al politically correct di casa nostra. Le sparava quindi grosse, in tutta innocenza. Le chiesi: “Se non fosse presidente della Fiat che cosa sarebbe stato politicamente suo fratello?”. “Ah, sarebbe stato certamente comunista, mio fratello”. Il giorno dopo in Fiat scoppiò il finimondo. Mi raccontò anche che Agnelli si divertiva a sfottere Spadolini, allora ministro della Cultura, perché per andare da Roma a Urbino aveva sentito il bisogno di prendere un elicottero (ad Agnelli piaceva molto guidare, anche in modo sconsiderato, tanto che in gioventù ci aveva lasciato una gamba). Spadolini si infuriò, telefonò al mio direttore chiedendo di rettificare, di dire che il giornalista aveva riferito male. Ma Tommaso Giglio non era tipo da stare a simili imposizioni.

La Agnelli aveva una sola guardia del corpo, un certo Calimero, ex uditore giudiziario, molto simpatico, che però non sarebbe stato in grado di affrontare nemmeno un gatto, in realtà fungeva da segretario. In una villa vicina, molto più vistosa di quella della Agnelli, soggiornava Mario Genghini, un potente palazzinaro romano, diciamo il Caltagirone di quei tempi. Genghini girava con nove guardie del corpo, il che voleva dire averne almeno una trentina. Il personaggio ci incuriosiva e insieme al conte Alvise di Robilant, che era anch’egli ospite con la sua giovanissima fidanzata venezuelana, decidemmo di invitarlo per un aperitivo serale. Arrivò vestito da yachtman e una moglie cotonata altrettanto assurda. Fu un’ora di imbarazzo generale. Prima di andarsene Genghini tirò fuori dal taschino interno della giacca un assegno e lo diede alla Agnelli borbottando qualcosa tipo “per il Comune”. Suni lo intascò. La sera ci fu una sorta di consiglio di famiglia. Io consigliai alla Agnelli di restituire immediatamente quell’assegno. Di Robilant soggiunse: “Fai quello che ti dice Fini che è un uomo di mondo”. Io avevo 32 anni e sentirmi dare dell’”uomo di mondo” dal conte di Robilant mi fece una certa impressione. Il giorno dopo il solerte Calimero andò a restituire l’assegno. Ma Suni si rifiutò di dirmi a quanto ammontava, con la scusa che non aveva avuto il tempo di leggerlo. Invece aveva avuto tutta la notte per farlo. A me interessava sapere quanto un Genghini valutasse la corruzione di un Agnelli. Ma non ci fu niente da fare. Ancora molti anni dopo, quando la incontrai per caso a Linate, le chiesi: “Allora adesso mi può dire di quant’era quell’assegno?”. Rien à faire.

La Agnelli faceva una vita piuttosto appartata, ma capitava che nella sua villa, che non era per nulla un porto di mare, vi arrivavano solo parenti stretti come il principe Caracciolo, accadessero cose molto divertenti. Uno dei sei figli della Agnelli, Lupo Rattazzi, filava allora con Imelda Marcos, figlia del dittatore filippino. La villa fu invasa da 007 filippini che si appollaiavano persino sugli alberi e qualcuno, che non doveva essere poi tanto più abile di Calimero, ogni tanto precipitava a terra. Noi sorridevamo di quell’esibizione di potere. Facevamo una vita molto normale, bagni nello splendido mare sottostante, prendevamo il sole, lei a seno nudo (“ma questo non lo scriva”) e gite in bici alla Feniglia, dove la Agnelli, come sindaco, aveva libero accesso, per vedere i daini e i cerbiatti. Facevamo anche delle gare di bici. Io, che ero il più giovane della compagnia, le vincevo ma Suni, molto competitiva, mi arrivava a ruota. Una volta, tutta ansimante, disse: “Un giorno o l’altro ci verrà un infarto”. Aveva 52 anni, sarebbe vissuta, sempre in gran forma grazie al suo fisico da spilungona ma per nulla sgraziato, fino a 87 anni. Una volta le chiesi cosa pensasse di Andreotti che era in quel momento ministro degli Esteri e quale lingua straniera parlasse memore del fatto che uno dei suoi predecessori, Arnaldo Forlani, per tentare di dire grazie in francese diceva “graz”. “Non so, forse sa un po’ di francese. Ma ha poca importanza. E’ di una categoria assolutamente superiore a tutti gli uomini politici che ho conosciuto”. Aveva anche una grande ammirazione per Fidel Castro che aveva incontrato a Cuba: “Un uomo dal fascino straordinario”.

Quando divenne a sua volta ministro degli Esteri il suo atteggiamento cambiò, non era più così alla mano come prima, teneva le distanze, si dava un po’ di arie. Scoprii, con una certa sorpresa, che il successo poteva dare alla testa anche a un Agnelli.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2020