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Sono di madre russa e più invecchio più mi sento russo e sempre meno italiano. Sono, oserei dire, un Karamazov. Ho tutte le diverse e contraddittorie anime dei tre protagonisti del capolavoro di Dostoevskij: l’istintualità e la violenza di Dimitri, nel cui sottofondo, oltre all’ingenuità, c’è il masochismo che è una delle caratteristiche fondanti dell’intero popolo russo, la disperata razionalità di Ivan (“Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”), la spiritualità di Alioscia portata all’estremo, perché tutto è estremo nelle passioni del popolo russo che si autocolpevolizza e si autoassolve in continuazione. Dimitri, Ivan, Alioscia non sono che tre aspetti dell’anima di Dostoevskij e dei contrapposti sentimenti che la compongono.

Il popolo russo è mistico. E nemmeno il comunismo era riuscito a cambiarlo. Bastava solo grattare un po’ la superfice e subito saltava fuori il russo di Dostoevskij. Quando ero in Unione Sovietica nell’autunno del 1985, quella del primo Gorbaciov, a Mosca erano aperte solo tre chiese ortodosse. Se vi entravi eri preso dall’emozione, l’emozione della loro emozione. La religione ortodossa è presa sul serio da quelle parti, come del resto, poniamo, in Romania, e ha poco a che fare con lo stanco rito cattolico della messa domenicale, mentre al pomeriggio le chiese sono deserte o quasi, frequentate solo da tre o quattro vecchie strapenate terrorizzate dalla morte. La stessa emozione che avevo provato nelle chiese di Mosca, la ritrovai molti anni dopo a Teheran alla funzione del Venerdì. Gli islamici, il lettore lo sa, si mettono proni, il capo appoggiato al terreno e il culo all’aria, in una posizione oggettivamente ridicola ad un occhio occidentale. Ma anche lì, io che non sono credente, mi emozionai della loro emozione.

In me ha sempre giocato un ruolo fondamentale la contrapposizione fra l’istintualità di Dimitri e la razionalità di Ivan, purtroppo ha quasi sempre vinto la seconda tranne che in due o tre occasioni in cui, in preda all’ira, avrei potuto tranquillamente uccidere un uomo. Pm fermati: non ho ancora ucciso nessuno, ma nulla esclude che potrei farlo in futuro, avevo una pistola con venti colpi in canna che ora però son diventati 19 perché uno l’ho già usato (“Ma sono un gentiluomo e a nessuno dirò il perché”, Sergio Endrigo, Via Broletto 34) gli altri potrebbero servirmi più in là.

Quello che non è riuscito al comunismo è riuscito, a quanto pare, al capitalismo almeno a giudicare dai turisti russi di oggi che sono griffati dalla testa ai piedi in modo sgangherato, una scarpa e una ciabatta. La volgarità non è mai appartenuta a questo popolo, in ogni russo, per quanto agli stracci, cova un principe Stavrogin. Non ha alcun concetto dell’investimento,  il denaro vale sempre meno di una buona occasione per spenderlo o, meglio ancora, per buttarlo via. Non è un caso che lo stesso Dostoevskij dilapidasse in vari Casinò d’Europa, in particolare in quello di Baden Baden,  il denaro che racimolava faticosamente scrivendo un articolo al mese. I fratelli Karamazov sono un romanzo d’appendice, per quanto a noi oggi possa sembrare incredibile nascono così.

Insomma il russo, almeno finché è rimasto tale, è un passionale, un estremista delle passioni. Che cosa ho io a che fare con quelle “anime morte”, per restare in tema, che formano in gran parte il popolo italiano di oggi? Che cosa ho a che fare con quella madonnina infilzata di Mario Draghi, un banchiere nelle cui vene più che il sangue sembra scorrere il denaro, e che fra poco, Berlusconi permettendo, sarà il Capo dello Stato, cioè il simbolo della Nazione? Ma qui sta il punto. Noi occidentali siamo posseduti dal denaro, da questa concretissima astrazione che informa tutta la nostra vita. Il Dio Quattrino è l’unico idolo, il solo valore unanimamente riconosciuto. Ma a sua volta il denaro non è che la sovrastruttura di un sentimento più profondo che rende possibile e trionfante il capitalismo: l’invidia. Ludwig von Mises, che è uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici del capitalismo, lo ammette in modo esplicito ne La mentalità anticapitalistica: l’operaio invidia il capofficina, il capofficina invidia il dirigente, il dirigente invidia l’amministratore delegato, l’amministratore delegato invidia il proprietario che guadagna un milione di dollari e costui quello che ne guadagna tre. È un processo che non ha mai fine e che ci riguarda tutti. Salito un gradino si deve farne un altro e poi un altro ancora e così via. È il demone della società dinamica in contrapposizione a quella statica. E quella occidentale è la società più dinamica che sia mai apparsa nel corso della Storia. Ma a parte che l’invidia non è un sentimento propriamente nobile e che fa soffrire chi ne è preso, in questo modo l’uomo non può mai raggiungere un momento di tranquillità, di riposo, di equilibrio. È sempre spinto ad andare avanti verso un fine di fatto irraggiungibile, come al cinodromo i cani levrieri, fra gli animali più stupidi del Creato, inseguono la lepre meccanica, coperta di stoffa, che per definizione non possono raggiungere perché è posta davanti al loro muso proprio per farli correre. E così siam noi. Oggi.

Che si sarebbe andati a finire in tal modo lo aveva capito Dostoevskij già nel, 1879 anno in cui pubblicò I Karamazov,  quando fa dire allo stàrez Zòsima: “Concependo la libertà come una moltiplicazione e una rapida soddisfazione dei bisogni, stravolgono la propria natura, giacché ingenerano in loro stessi una moltitudine d’insensati e stupidi desideri, d’insulsissime abitudini e fantasie. Non vivono se non per l’invidia che si portano l’un l’altro”.

Il Fatto Quotidiano, 27 Ottobre 2021