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La guerra all’Ucraina, che già ai deboli stomaci occidentali pare eterna anche se è cominciata solo da poco più di due settimane, non durerà a lungo. Per la semplice ragione che gli ucraini, per quanto coraggiosi, non possono resistere più di tanto. Una resistenza “all’afgana”, che è andata avanti per vent’anni, non è nemmeno immaginabile. Innanzitutto per una ragione orografica. La resistenza si fa in montagna, mentre l’Ucraina ha un territorio pianeggiante. Se i Talebani hanno potuto resistere per vent’anni è anche perché l’Afghanistan ha montagne alte oltre 6.000 metri, con gole profondissime e strette dove non può entrare nemmeno un caccia e dieci uomini decisi bastano per fermare un reggimento. Si potrebbe organizzare, in alternativa, una resistenza nelle città, con una lotta casa per casa? Ne dubitiamo. Gli ucraini sono pur sempre degli europei non adusi da decenni alla guerra, e non nascono, a differenza degli afgani, col kalashnikov in bocca. Certamente ci sono molti ucraini coraggiosi disposti a battersi fino alle estreme conseguenze, a partire dal loro presidente, ma ce ne sono quasi altrettanti che preferiscono abbandonarlo rifugiandosi all’estero. Secondo le stime Onu di qualche giorno fa i profughi ucraini sono circa tre milioni e non possono essere solo donne e bambini ma, nel prosieguo, si prevede un numero di rifugiati molto più alto (otto milioni).

Ma anche se non sarà lunga per l’intanto la guerra c’è e approfittando della “copertura” della guerra ucraina, che distoglie l’attenzione dai nostri problemi interni, l’instancabile fairy band dei politici ladri e trafficoni è al lavoro per delegittimare definitivamente la Giustizia e la Magistratura e affermare un doppio diritto: uno per “lorsignori” che ne garantisca l’impunità, l’altro per i normali cittadini. Di tutti i recenti provvedimenti illiberali ha dato conto Travaglio in un editoriale del 10/03/2022.

Poiché comunque, guerra o no, della giustizia italiana bisognerà presto tornare a parlare, sia perché ce lo chiede l’Europa sia perché è nei programmi del governo sia perché è oggetto di un referendum dei radicali e della Lega, è necessario innanzitutto mettere qualche punto fermo sulla narrazione oggi in voga. Ripartendo proprio da Mani Pulite. Nel giro di trent’anni Mani Pulite è passata da “fiore all’occhiello”, non solo della Giustizia ma anche della società italiana che aveva avuto il coraggio di lavare in pubblico i propri panni sporchi, al suo opposto. Il “manipulitismo” è stato usato in termini spregiativi non solo da Luciano Violante ma da tantissimi altri.

Il presupposto di questa narrazione falsa è che Mani Pulite sia stata una “rivoluzione”. Al contrario fu piuttosto un atto di conservazione, il tentativo di ridare valore a quell’articolo 3 della Costituzione che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzioni “personali e sociali”, mentre  era invalsa la pratica che i ceti politici e imprenditoriali potessero impunemente violare la legge. I magistrati di Mani Pulite, favoriti da alcune circostanze, fra le quali emergeva una corruzione così dilagante che non era più tollerabile non solo dal punto di vista giuridico ed etico ma anche sotto il profilo economico, richiamarono anche “lorsignori” al rispetto della legge.

Poiché, guerra ucraina o no, una riforma della giustizia è ritenuta da tutti necessaria, mi permetterò anch’io di dire qui la mia, per quel che vale.

In via preliminare dirò che non ci sarebbe questo scontro quotidiano fra politici e Magistratura se i primi delinquessero un po’ di meno.

In un recente articolo sul Fatto (“I veri guai della Malagiustizia”, 15/02) ho scritto che il primo vero problema della giustizia italiana sta nell’abnorme lunghezza delle sue procedure. Lunghezza che ha origini storiche e quasi paradossali perché noi italiani abbiamo abbracciato il modello di Gaio e Giustiniano, cioè bizantino che fa onore al suo nome con una serie di ricorsi e controricorsi, di verifiche e controverifiche, di controlli sui controlli che appesantiscono le procedure, per arrivare a un’impossibile certezza assoluta del giudizio conclusivo, mentre gli anglosassoni hanno preso dal diritto latino, un diritto contadino, pragmatico, che prevede un processo svelto scontandone la possibilità di errore. Anche perché il processo ha la funzione di mettere dei punti fermi nei rapporti fra i cittadini. A questo retaggio storico si è aggiunto negli ultimi anni il diritto, chiamiamolo così, “berlusconiano” che con leggi garantiste, ipergarantiste, pseudogarantiste ha come principale obiettivo che il colpevole, se appartiene alla cricca di “lorsignori”, non venga mai raggiunto.

Depurare il nostro Codice di procedura penale di tutti questi intralci, tenendo ben fermo nello stesso tempo il principio fondamentale della “presunzione di non colpevolezza”, è un “vasto programma” che richiederà, se mai ci si volesse incamminare su questa strada, degli anni. Nel frattempo però ci sono anche altri problemi, alcuni legati proprio alla lunghezza delle procedure, altri no. Fra i primi c’è quello del segreto istruttorio. Si potrebbe riprendere dal codice Rocco rimasto in vigore, su questo tema, fino alla riforma del 1989. Secondo questo schema l’istruttoria deve essere segreta, il dibattimento naturalmente pubblico. La segretezza dell’istruttoria è necessaria perché nelle indagini preliminari dei Pm e della polizia giudiziaria, che vanno ovviamente a tentoni, possono rimanere impigliate persone che nulla hanno a che fare con i fatti criminosi. Il Gup vaglia gli elementi presentati dal Pm e manda al dibattimento solo quelli che ritiene necessari al processo. In assenza del segreto dei semplici indagati vanno incontro all’inevitabile massacro massmediatico.

Un tema su cui si dibatte molto oggi è quello della composizione del Csm. Lasciando qui perdere le modalità con cui devono essere eletti i suoi membri, ritengo che vadano tolti di mezzo i cosiddetti “laici”, cioè giudici designati dal Parlamento. Poiché uscivamo dalla dittatura fascista i nostri Padri costituenti vollero una Magistratura assolutamente indipendente dagli altri poteri dello Stato. Ma perché il Csm non fosse una torre eburnea totalmente avulsa dalla società stabilirono che, oltre ai membri di diritto e a quelli eletti dai magistrati (i “togati”), cioè eletti da altri magistrati, un terzo dei componenti del Csm fosse scelto dal Parlamento fra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni d’anzianità.  Com’erano ingenui i nostri Padri fondatori, è bastato poco perché i partiti gabellassero come magistrati da mandare al Csm dei politici.

Un altro tema su cui si sta ragionando e questa volta, mi pare, bene, è quello delle cosiddette “porte girevoli”: un magistrato che sia entrato in politica non può tornare a fare il magistrato. Per la semplice ragione che quand’anche abbia svolto la sua funzione in modo ineccepibile, viene naturale il sospetto che non abbia giudicato “in scienza e coscienza”, ma a supporto dell’ideologia del partito cui ha successivamente aderito. Io vieterei anche che i magistrati, una volta lasciata la toga, possano entrare in politica. Si dirà: è una violazione dei loro diritti civili. Ma quello del magistrato non è un mestiere come un altro, da lui può dipendere la vita, fino alla rovina, di un cittadino. E quindi ritengo plausibile questa limitazione dei loro diritti civili così come la Presidenza della Repubblica comporta limiti alla libertà di espressione.

Per lo stesso motivo andrebbero abolite le correnti all’interno della Magistratura. Perché evidenziano che ci sono magistrati di sinistra, di centro, di destra. Anche per un magistrato che appartenga a una corrente nasce naturale, e a volte giustificato, il sospetto che non abbia svolto la sua funzione in modo equanime. E, come si diceva una volta, il magistrato è come la moglie di Cesare che “non solo dev’essere onesta, ma anche apparire tale”.

Il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2022