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“Vecchio è bello”. Questo slogan è stato molto in voga negli ultimi anni sui media. Poi è arrivato il Covid e si è visto che esser vecchi non è proprio così bello e gli anziani sono diventati “i fragili”. “Vecchio è bello”, questa ipocrisia è stata un’invenzione del marketing, vero padrone dell’economia, che si era accorto che l’Italia invecchiava e quindi bisognava stimolare i vecchi, scarsi consumatori, a consumare: a sgambettare impudicamente nelle discoteche e a scopare, anche se non ne avevano più nessuna voglia, con il viagra, eccetera. Il fenomeno è analogo a quello del boom degli anni Sessanta quando il marketing capì che i giovani adesso avevano dei soldi in tasca e quindi ci fu l’apologia della gioventù. In realtà quei soldi i giovani li avevano dai propri genitori, perché gli italiani sono dei forti risparmiatori, cioè degli sprovveduti perché il risparmio anno dopo anno viene demolito dall’inflazione o da altre magie finanziarie fino ad azzerarlo o quasi. Il risparmio è un credito erga omnes e quindi ad esso corrisponde un debito equivalente e, come scrive Vittorio Mathieu in Filosofia del denaro, “i debiti alla lunga non vengono pagati”. I ricchi, che su queste cose sono più avvertiti del cittadino comune, hanno più debiti che crediti. Comunque il denaro, se si vuole che non sia impallinato, deve essere spostato continuamente da un investimento a un altro, cosa che il piccolo risparmiatore non può fare costretto com’è a tenerselo per affrontare eventuali emergenze.

“Vecchio è bello”. I latini, che erano meno retorici di noi, chiamavano la vecchiaia atra senectus. Terenzio la considera una malattia e Seneca aggiunge etiam insanabilis, cioè inguaribile.

Tuttavia l’aspetto più drammatico della vecchiaia non è la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita, esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Sorella Morte ha già alzato la sua falce. È vero che si può morire a qualsiasi età, anche a vent’anni, e che la morte è certa. Ma una cosa è immaginarla in un futuro indefinito, altra è quando ti cammina a fianco. Una cosa è se si tratta di una certezza lontana, remota, altra è se sai che sei al finale di partita. E che non ci saranno supplementari. “Non puoi più nemmeno piantare un albero, perché sai che non lo vedrai crescere” mi diceva il mio caro amico Giorgio Bocca quando andava verso i novanta. Cominci anche a guardare con sospetto certi oggetti che sai che ti sopravvivranno. Quando ero sulla settantina una bella ragazza di trent’anni, che mi piaceva, mi disse: “Perché non possiamo metterci insieme?”. “Perché tu stai entrando nella vita e io ne sto uscendo. Il Tempo conta, non possiamo ignorarlo”.

Tutti i vecchi pensano alla morte, ci pensano sempre. E ne hanno paura. E meglio stanno fisicamente, in quel momento, e più ne hanno paura. E non potrebbe essere diversamente. Non si tratta di una paura fisica, ma metafisica. È l’orrore del Nulla, lo spaventoso Nulla. L’inesistenza. Tutto ciò che hai vissuto, amato, conosciuto, visto, ascoltato, letto, pensato, è cancellato di colpo, immerso in un buio senza tempo e senza risveglio.

I vecchi finiscono per assomigliarsi tutti, con gli stessi problemi, la stessa stanchezza, le stesse angosce, le stesse ansie, le stesse paure e alla fine anche gli stessi tratti che la vecchiaia appiattisce. Siamo tutti – ora lo sai con molta più consapevolezza di quando ti sei affacciato alla vita – nella stessa barca. E, come nella Vergogna di Bergman, cadremo uno ad uno in mare mentre gli altri faranno finta di non vedere, quasi la cosa non li riguardasse.

Il mondo dei vecchi è un mondo di ombre, le ombre degli amici morti e del passato. Anche il mondo che hai conosciuto e a volte, con l’energia e l’incoscienza della giovinezza, dominato è scomparso: il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Sei un sopravvissuto.

“Vecchio è bello”. Ma andate a dar via i ciapp.

Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2022