0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

“Caro amico ti scrivo” (Lucio Dalla).

Caro Antonio, prima a piccoli passi poi con una progressività sempre crescente stanno distruggendo il nostro grande giocattolo: il calcio che è diventato sempre più un fatto economico che ha prevalso su tutti gli elementi rituali, mitici, simbolici, sentimentali, emotivi che avevano fatto la fortuna di questo gioco per un secolo e mezzo. Il punto di partenza è stata la “legge Bosman” che ha mortificato i vivai. Dopo Superga il Toro dovette necessariamente ricorrere al vivaio perché nel dopoguerra non c’erano i soldi per comprare giocatori e sotto la guida sapiente di Vatta sfornò giovani che sarebbero diventati dei campioni, Rosato, Cella, Ferrini, Pulici, Graziani. Oggi chi rischierebbe di puntare su un giovane dal futuro inevitabilmente incerto, quando può acquistarne uno, già formato, prelevato dalle grandi squadre nazionali e internazionali? Oggi i giocatori cambiano squadra ogni anno e all’interno dello stesso campionato, con tanti saluti alla regolarità del torneo, e per esigenze pubblicitarie in trasferta cambiano le maglie tradizionali. Una ventina di anni fa assistevo ad una partita con il mio amico Giagi, interista. Mi disse: “solo quando ho visto i baffi dello ‘zio’, Bergomi, mi sono reso conto che in campo c’erano i nerazzurri”.

Fu la “grande Olanda” dei Neeskens, Cruijff, Rensenbrink, Krol a inventare il “calcio totale”. Si dice che anche quello di oggi è un calcio totale perché tutti i giocatori, compreso il portiere, sono di movimento. Ma sono due cose molto diverse. Cruijff e gli altri giocavano in ogni parte del campo dove l’estro e l’istinto li portavano, il portiere, Jongbloed, un pazzo, stava stabilmente sul cerchio del centrocampo. Il calcio di oggi invece è monotono. Tu sai che gli ‘esterni’ devono andare su e giù lungo la linea laterale per poi crossare, che anche un calciatore di centrocampo deve stare li e non là, altrimenti si becca un cazziatone dall’allenatore. Insomma è un calcio molto tattico dove il vero frontman è l’allenatore, aiutato in questo anche dal fatto che può fare cinque cambi (si pensava che il passaggio dai tre ai cinque cambi fosse temporaneo a causa del covid, invece è rimasto). Come può una squadra media affrontarne un’altra dove in panchina c’è una squadra equivalente alla prima? Inoltre l’allenatore deve cedere il campo ai procuratori, che guadagnano spesso più dei calciatori, perché dominano il calciomercato e sono quindi indispensabili per assicurarsi ‘i meglio fichi del bigoncio’.

In questo marasma senile del calcio non è più possibile immedesimarsi in un giocatore simbolo, il Bulgarelli o il Riva d’antan. Solo Totti, romano de Roma, ha avuto il coraggio di rimanere nella sua città, rinunciando a ingaggi favolosi.

Il calcio è diventato un gioco da educande, basta una spinta un po’ robusta che ti becchi non solo il fallo, ma il giallo e anche il rosso. Se poi il giocatore perde un po’ di sangue è la fine del mondo. In altri tempi io ho visto Butcher, centrale dell’Inghilterra, giocare un tempo con la maglia e i calzoncini insanguinati. Questo politically correct lo si vorrebbe applicare anche alle tifoserie, adesso oltre la ‘discriminazione razziale’ esiste la ‘discriminazione territoriale’. Se sei del Verona non puoi dire “forza Vesuvio” e i napoletani rispondere con “Giulietta era una troia”. Si è dimenticato che dare sfogo a questa aggressività sostanzialmente innocua evita “i delitti delle villette a schiera” come li ha chiamati Ceronetti.

Poi ci sono altre cose che avvengono fuori dal rettangolo di gioco. Il Var per cui tu prima di esultare dopo una rete devi aspettare cinque minuti la decisione del Var i cui componenti stanno in qualche catacomba dentro lo stadio e anche, a volte, lontani dallo stadio. Col Var, a differenza dell’arbitro, anch’esso esautorato, non puoi sentire la durezza dei colpi. Inoltre il Var, che pretende un’esattezza assoluta, non evita le polemiche del dopopartita, come le cronache ci raccontano. Insomma, per dirla in senso lato, la tecnologia e il denaro hanno finito per prevalere su tutto (tanto varrebbe giocare qualche titolo in Borsa). Infine c’è la musica assordante, prima dopo e a volte anche durante la partita. Lo stadio non è una discoteca.

Perché, caro Antonio, ci ostiniamo a seguire questo gioco che ha perso quasi tutti i suoi elementi fondanti? Perché tutti, naturalmente ognuno al suo livello, lo abbiamo giocato. All’epoca nostra, per noi ragazzi, c’era solo il calcio, il tennis era uno sport da ricchi, il basket e il baseball erano troppo americani (“tu vuo’ fa’ mericano…tu abball' o' rock'n'roll, tu gioch' a baseball” cantava con grande anticipo, che riguarda non solo il mondo del calcio, Renato Carosone, 1956).

Tutti quindi, nella nostra generazione, abbiamo giocato a calcio. Tranne Giampiero Mughini che faceva le parallele e in seguito è diventato cantore del nostro giocattolo. E questo dice tutto.

Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2023

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

“In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,
Dove regna il capitale, oggi più spietatamente”

(Don Chisciotte, Francesco Guccini)

La parola “capitalismo” sembra essere uscita dal vocabolario. La usa ancora solo il Manifesto, ma in un marxese cosi stretto, da Gründrisse, che di fatto diventa incomprensibile. Esiste sui media il termine capitale ma usato in senso statico, non dinamico come nella celeberrima opera di Marx, cioè con tutte le sue conseguenze, ma nel senso di capitale di questa o quella impresa, di questa o di quell’azienda, di questo o quell’individuo.   

Come mai? Elementare. Il capitalismo ha ormai occupato il mondo intero, tranne alcune, rare, sempre più rare, comunità ai margini del mondo: le società statiche che stanno all’opposto del dinamismo del capitale. Se si tratti di capitalismo di mercato o di capitalismo di Stato, come in Cina, la solfa non cambia, sempre capitalismo è, con lo  “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” per dirla ancora con Marx.

Inoltre da qualche decina d’anni al capitalismo industriale, che perlomeno produceva cose, oggetti, soddisfacendo bisogni di cui peraltro l’uomo non aveva mai sentito il bisogno, inventandoseli (tutta la pubblicità è diretta in questo senso), dava lavoro agli ‘schiavi salariati’, si è sostituito il capitalismo finanziario che produce denaro con cui fare altro denaro, cioè un’astrazione su un’altra astrazione, che invece di dare lavoro, sia pur un lavoro da schiavi, lo toglie in combutta con la mitica “digitalizzazione”. Infatti per fare capitale finanziario sono sufficienti pochissimi adepti, alle volte anche uno solo. Attualmente sto cercando di assumere un assistente, mi sorprende che a rispondere al mio annuncio siano giovani o anche molto meno giovani che non solo hanno una laurea, ma, spesso, un master ottenuto in qualche università italiana o europea. Evidentemente non sanno manovrare il denaro che è la cosa astratta più concreta che ci sia.

“Che fare”, per usare le parole del famoso filosofo russo Černyševski, poi saccheggiato, nel titolo, da Lenin? Niente. Non possiamo farci niente. Non possiamo far altro che aspettare il collasso del “modello paranoico”. Nel frattempo possiamo solo contare su estremismi religiosi, in totale antitesi col sistema del denaro preferendo all’astrazione di quello che Martin Lutero ha chiamato “sterco del demonio”, la spiritualità e la concretezza della vita e della morte, propria e altrui, tipo Isis per dirla in termini molto chiari.

Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2023

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Gabriella Caramore, 78 anni, scrittrice raffinata, ha pubblicato un libro sulla vecchiaia che ha intitolato “L’età grande” e non si capisce se questa età grande sia un ulteriore passo semantico che va oltre la già ipocritissima “quarta età”.

Anche Caramore non sfugge al tentativo di edulcorare la vecchiaia, di riempirla di significati profondi e inaspettati come han fatto tutti gli autori che si sono occupati di questo tema.

I Latini, meno retorici e ipocriti di noi, chiamavano la vecchiaia atra, cioè cupa, funesta, triste, fosca, oscura, nera, buia. Scrive Terenzio senectus ipsa morbus est, la vecchiaia è in sé una malattia e Seneca, dicendo una volta tanto una cosa intelligente non attinta dal suo ‘stoicismo de noantri’, rincara la dose: enim insanabilis morbus est, e per soprammercato, a differenza di una malattia da cui si può sempre sperare di uscire, è inguaribile.

Guardo sul mio tavolino la foto di mio figlio. Ha 3 anni. La carne è florida e in piena crescita. Oggi di anni ne ha 45, è probabilmente all’apice della “salute” intesa in senso dantesco. Ma quella carne com’è cresciuta è destinata fatalmente a decomporsi a meno che qualche incidente violento non faccia piazza pulita. Solo la morte può salvare dalla vecchiaia, non per nulla Menandro scrive: “caro agli Dei è chi muore giovane”. In più, per colmo di sfortuna, in genere il corpo invecchia prima della mente che può guardare ancora, con lucidità, tutti gli stadi della decomposizione.

E tuttavia l’aspetto più drammatico della vecchiaia non sta nel decadimento fisico con i suoi inevitabili acciacchi, ma nell’impossibilità di un progetto di vita, esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il futuro, manca la speranza, manca il tempo. Sorella Morte ha già alzato la sua falce e sai che non ci saranno supplementari. Tutto ciò che hai vissuto, amato, visto, letto, precipita nel Nulla, lo spaventoso Nulla.

Ci sono i ricordi, dicono. Una volta che andai a visitare Paola Borboni “allettata”, come si dice adesso in un gergo sinistro, medico, scientifico (“costretta a letto” mi parrebbe più umano), ebbi l’imprudenza di dirle: “lei conserva comunque dei bei ricordi”. Lei con una specie di ruggito fece un balzo, era pur sempre una grande attrice, e disse: “i bei ricordi? Sono la cosa più tormentosa per un vecchio, meglio quelli brutti che almeno si possono dimenticare”.

Anche il mondo che hai conosciuto e a volte, con l’energia e l’incoscienza della giovinezza, dominato è scomparso. Il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Tutto appare sfocato, lontano, lontano. Sei un sopravvissuto.

Il solo modo per vivere un po’ meno peggio la vecchiaia è accettarla. Magari aiutandosi con la fede in “una vita oltre la vita”, col mito di Dio o di altre cosmogonie o con l’esoterismo. Tutte cose che non mi riguardano.

Ora sto per compiere 80 anni, cosa che mi pare oltremodo ingiusta, li compiano gli altri 80 anni (“ho visto allo specchio il volto di un vecchio/devo essere pazzo io son solo un ragazzo”). Ho fatto di tutto per evitarli con un vita sregolata, notti furiose (per molti anni l’alba l’ho vista non perché mi stavo alzando, ma perché andavo a dormire), alcol, whisky, vodka, fumo (non stupefacenti, quelli non li ho mai toccati, faccio parte della generazione del vino oggi sostituito spesso dai ragazzi con la birra).

Sono un’obiezione vivente,  per ora, di quella sciocchezza che ho chiamato “terrorismo diagnostico”. Per premonirci da un rischio (altra parola sinistra) futuro rinunciamo a vivere. È così semplice: è vivere che ci fa morire.

La mia fidanzata, ancora giovane, per consolarmi, ma forse anche credendoci, mi dice amorosamente che gli anni non contano, sono solo numeri, che ho “una sconfinata giovinezza” e che sono “un figo pazzesco”. È una mitomane.

 

Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2023