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Giovanni Trapattoni, per tutti “il Trap”, le cose migliori le ha fatte da calciatore (“una vita da mediano”) annullando i più grandi ‘numeri 10’ del mondo, a cominciare dal mitico Pelé. Ma le cose più divertenti le ha fatte nella sua lunga carriera di allenatore. Essere di Cusano Milanino ha un’importanza decisiva nel carattere del Trapattoni uomo. Cusano Milanino è oggi un paese dell’hinterland, curato e grazioso, non un semplice nome sulla carta come quasi tutti gli altri centri dello stesso tipo, da Cormano a Canegrate a Carugate, ma affonda le sue radici nella campagna e, come dice il nome stesso, nella milanesità. Come tecnico Trapattoni era moderno, capace di inventare schemi tattici, come mettere insieme zona mista e ‘catenaccio’, peraltro da lui prediletto, ma era ed è un uomo antico e all’antica. Le sue origini campagnole e d’una milanesità d’antan ne spiegano la semplicità, la genuinità, la schiettezza, la modestia e anche l’innocente furbizia. Quel suo fischiare a due dita agli angoli della bocca, quando questa pratica rimaneva solo, e comunque in declino, fra la gente del popolo, per non parlare del mondo degli allenatori ricchi e famosi di oggi, tanto a modino almeno fuori dal campo, ne è il simbolo più evidente. Così fischiavano i popolani della mia generazione, soprattutto gli operai, quando passava una bella donna.

Trapattoni aveva girato tutto il mondo, dalla Germania all’Irlanda, ma il suo inglese era maccheronico. Qualcuno ricorderà, forse, come in una conferenza stampa cercò di spiegare in inglese il detto italico “non dire gatto se non l’hai nel sacco” per dire che una vittoria non è mai scontata. Ne venne fuori una cosa esilarante che, a mio ricordo, suonava più o meno così: “No say cat if it is not in the box”. In un’altra conferenza stampa se la prese con alcuni giocatori del Bayern in particolare col centrocampista Strunz. “Strunz! Strunz! Strunz!” era il suo intercalare. Ma l’ignoranza in questo caso non era sua ma dei giornalisti italiani. Il buon Maurizio Mosca pensava che in tedesco “strunz” significasse “stronzo” e ci fece sopra dei ghirigori interminabili. Poiché abitava due piani sotto casa mia cercai di spiegargli, invano, che Strunz era un nome e che mettere in croce Trapattoni per quel intercalare era come se un tedesco avesse giudicato “Mosca” un insulto. Ma non ci fu niente da fare e così anche “Strunz” è rimasto nella mitologia trapattoniana. Tra l’altro che Trapattoni se la prendesse con un giocatore in particolare era una rarità, perché la sua specialità era il cosiddetto “trapattonese” cioè la capacità, quando era intervistato dai fastidiosi giornalisti, di fare lunghi discorsi senza dir nulla. Specialità presa poi praticamente da tutti i suoi colleghi. E anche dai calciatori. Uno può anche aver fatto quattro gol ma se il giornalista gli chiede se è contento della sua prestazione risponde regolarmente “è tutto merito del gruppo”. E così fanno anche gli allenatori e fan bene, perché se osassero dire che tizio ha giocato bene il giorno dopo i giornali titolerebbero che gli altri dieci hanno giocato male. Insomma anche il trapattonese era una furbizia trapattoniana.

Incontrai Trapattoni, con mio figlio che aveva allora dodici anni, a Linate perché stavamo partendo per andare a vedere la finale di Coppa dei Campioni (allora si chiamava ancora così) fra Olympique Marsiglia e Stella Rossa che si disputava a Bari. Fra la gente in attesa dell’imbarco c’era anche Trapattoni. Mio figlio con l’acquolina alla bocca si diresse verso Trapattoni per avere il classico autografo. Ma l’astuto Trap, che non voleva essere seccato ma neanche scortese, gli disse: “Vai da quello lì che è più importante di me” e gli indicò Michel Platini. E così l’ingenuo Matteo non ebbe l’autografo né di Platini né di Trapattoni.

Giovanni Trapattoni l’ho poi incrociato molte volte a Talamone dove ho passato per molti anni le vacanze estive e lui vi ha una casa. Non una casa sesquipedale sul mare, come l’hanno i ricchi, ma una più modesta e più discreta, come è nel suo carattere, al di là dell’Aurelia. Talamone, a differenza dell’Argentario o di Capalbio, non è un posto frequentato e tantomeno abitato da persone dello star system. Ci arrivavano qualche volta con i loro yacht Giuliano Ferrara e Achille Occhetto. Ma il Trap si guardava bene dal frequentarli. Se ne stava per i fatti suoi e i turisti di Talamone, benché allora fosse ancora nel pieno della sua carriera di allenatore, siamo nei primi anni Duemila, rispettavano questa sua riservatezza. Che non aveva niente a che fare con la superbia, era solo un desiderio, in una vita necessariamente convulsa, di starsene tranquillo con i suoi e la sua famiglia, così come fa ora che, ottantenne, si è definitivamente ritirato. Ma se qualcuno si avvicinava non si sottraeva, non se la dava, stava alla chiacchiera senza dare segni di insofferenza. Qualche volta veniva al bar, all’aperto, del mio albergo, il Capo d’Uomo, a bere qualcosa, rigorosamente analcolica, con qualche suo amico. Era in calzoncini corti. Notai la possanza delle sue cosce. Anche uno che non avesse saputo nulla di calcio avrebbe capito che era stato un atleta e un grande atleta. A nuotare, giù al mare, non l’ho visto mai. E’ probabile che da milanese dei vecchi tempi in acqua si trovi molto meno a suo agio che sul campo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2019

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C’è molta confusione sotto i cieli del governo italiano sulla posizione, economica, strategica, geopolitica, da prendere nella guerra in corso fra Stati Uniti e Cina, le due superpotenze attualmente dominanti, una in fase calante, l’altra emergente. Il ‘sovranista’ Salvini, in coerenza con se stesso, sembra preoccupato per la penetrazione economica della Cina in Italia, peraltro già in atto da tempo, dall’altra, in perfetta incoerenza con se stesso, si sottomette ai voleri, o per meglio dire ai diktat, degli americani. I 5Stelle sembrano molto più morbidi, soprattutto per esigenze economiche, nei confronti della Cina e della sua ‘Via della Seta’ e più ostili  agli Stati Uniti che dell’Italia hanno fatto colonia a partire dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale, come dimostrano anche i forti dubbi che il nostro ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha espresso sul noto acquisto degli F-35 in cui l’Italia è impegnata, ma in subordine agli americani. Nessuno comunque, né il premier Conte, né il vicepresidente 5Stelle Di Maio, né il presidente della Repubblica Mattarella, mette in dubbio la fedeltà transatlantica dell’Italia di cui la Nato, sotto il profilo della difesa, è insieme il simbolo e il concreto strumento.

Molto più netta è la posizione della Germania. Innanzitutto Berlino una sua ‘Via della Seta’ l’ha già realizzata sia pur in termini ferroviari. Come ha detto Giuseppe Conte in una intervista al Corriere: “Il terminale ferroviario della Belt and Road è già individuato in Germania, a Duisburg, a riprova di una collaborazione tra Berlino e Pechino ben più avanzata della nostra”.

Durissima è stata la reazione tedesca al diktat americano che minaccia pesanti ritorsioni se Berlino, e con essa l’Europa, dovesse favorire una qualche penetrazione cinese nel campo dell’intelligence, vale a dire i 5G, il network superveloce della telefonia mobile. L’ambasciatore americano a Berlino, Richard Grenell, aveva inviato nei giorni scorsi una lettera al ministro dell’Economia tedesco in cui diceva che “le società controllate da Pechino come Huawei o Zte potrebbero compromettere gli scambi di informazioni segrete e confidenziali tra i Paesi alleati e quindi gli Usa prenderebbero contromisure per limitare la cooperazione con la Germania nel campo della difesa e dell’intelligence, compresa quella all’interno della Nato”. Curiosa affermazione visto che non più di un anno fa si è scoperto quello che tutti sapevano: che gli Stati Uniti spiano da tempo, da sempre, le informazioni di intelligence fra i Paesi europei loro alleati. Comunque la risposta di Angela Merkel non si è fatta attendere: “Per il governo federale la sicurezza è un bene supremo, anche nella costruzione del 5G. Ecco perché definiamo da soli i nostri standard”. Ancora più esplicita la replica del segretario del gruppo parlamentare Cdu-Csu, Michael Grosse-Broemer: “Non abbiamo bisogno di suggerimenti o minacce da parte dell’ambasciatore americano per decidere passi sensati in tema di sicurezza nazionale”. Del resto sui reali rapporti con gli Stati Uniti Angela Merkel aveva, come sempre, anticipato tutti. Nel maggio 2017 aveva affermato: “I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono finiti. Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani. Naturalmente dobbiamo avere relazioni amichevoli con gli Stati Uniti e il Regno Unito e con altri vicini, inclusa la Russia. Dobbiamo essere noi stessi a combattere per il nostro futuro”. Era una chiara presa di distanza dagli Usa, dal Patto Atlantico e da quella Nato che è stato uno dei principali strumenti, se non addirittura il principale, con cui gli americani hanno tenuto, e ancora tengono, in stato di minorità l’Europa, dal punto di vista militare, politico, economico, culturale (in quest’ultimo caso anche attraverso la predominante diffusione della lingua anglosassone). Ma questa presa di distanza era cominciata già molto tempo prima. La Germania non ha partecipato all’aggressione all’Iraq del 2003, non ha partecipato all’aggressione alla Libia, è assente sul quadrante siriano.

Il nocciolo della questione posto da Merkel è quindi quello di una reale autonomia militare europea e, in prospettiva, di una uscita dalla Nato, questa alleanza sperequata che è sotto il totale controllo degli Stati Uniti e che ha trascinato l’Europa in avventure militari che si sono rivolte regolarmente contro di essa (la Libia è un esempio che dovrebbe essere chiaro a tutti). Senza un’autonomia militare non c’è né autonomia politica, né autonomia economica.

L’attuale conflitto economico fra Stati Uniti e Cina potrebbe essere per l’Europa l’occasione favorevole per sciogliere l’alleanza con un Paese, gli Stati Uniti, che sta a 10mila chilometri di distanza da noi, che è un competitor economico sleale, oltre che minaccioso, e per prendere una posizione di equidistanza fra Stati Uniti, Russia e Cina. Occidente è oggi un termine che non ha più alcun senso. Noi siamo europei e, se si esclude la Gran Bretagna che fortunatamente si è data, abbiamo una tradizione culturale che affonda le sue radici molto più lontano nel tempo e che con quella americana ha poco o nulla a che vedere. Sta quindi finalmente a noi, come dice Merkel, “prendere in mano il nostro destino”.  

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2019

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Qualcuno ci sta arrivando. Probabilmente fuori tempo massimo. Dove? A comprendere che il modello di sviluppo che abbiamo imboccato a partire dalla Rivoluzione industriale e che poi abbiamo cavalcato sempre più velocemente è sbagliato da ogni punto di vista, non solo ecologico, che è quello più intuitivo, ma economico e umano. Una direttiva Ue vuole obbligare le aziende ad “allungare la vita dei loro prodotti”. Questa misura, se davvero fosse applicata ed estesa (per ora riguarda solo gli elettrodomestici bianchi) è devastante. Va contro uno dei totem su cui si regge il nostro modello di sviluppo: “l’obsolescenza programmata del prodotto”, cioè un prodotto deve avere una vita breve, la più breve possibile, per non interrompere, ma anzi accelerare, il ritmo del consumo su cui si regge tutto il sistema. Ma il provvedimento va concettualmente molto più in là. Come nota sul Giorno Gabriele Canè “il mercato sforna sempre una serie nuova di qualunque cosa, pochi mesi dopo aver messo in vendita la precedente novità”. La cosa è particolarmente evidente nell’economia digitale dove uno smartphone di nuova generazione viene immesso sul mercato con varianti trascurabili rispetto a quello precedente per attirare l’uomo-consumatore che pressato da una pubblicità altrettanto incalzante ci casca regolarmente. Ma il concetto può essere tendenzialmente valido quasi per qualsiasi altro prodotto. Si tornerebbe così all’economia del ‘riciclo’ su cui ha vissuto, per secoli, il Medioevo europeo. Dice: questa è la legge del mercato. Certo, ma questo è proprio il meccanismo, basato sul mito delle crescite esponenziali, che ci porterà necessariamente al collasso, non tanto ecologico, perché l’uomo è un animale molto adattabile, ma economico. Inoltre sta inquinando e deteriorando da tempo la nostra esistenza. Da questo punto la prende l’autorevole opinionista del Corriere, Galli della Loggia, in un editoriale del 7.3 “Lo sviluppo crea insicurezza”. Della Loggia la prende alla larga e con prudenza, ma in sostanza sostiene che l’uomo, nella sua ricerca affannosa di uno sviluppo sempre maggiore, si è troppo subordinato all’Economia e alla Tecnologia. Che è la mia tesi, sempre irrisa, almeno da quando pubblicai La Ragione aveva Torto? nel 1985. Abbiamo la possibilità di ricorrere a un esperimento ‘in vitro’. La Cina, che per ragioni culturali profonde che risalgono alla teoria dell’inazione cioè detto in termini molto semplicistici della non azione di Lao-Tse (Il libro della norma) si era fino a pochi decenni fa sottratta al modello di sviluppo occidentale, oggi vi è entrata con prepotenza. Ebbene, nell’odierna Cina il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza fra gli adulti. La ‘ricchezza delle Nazioni’, per dirla con Adam Smith, non ha niente a che fare con il benessere e la qualità della vita dei suoi abitanti. Nell’Africa subsahariana, prendiamo la Nigeria, i Paesi più ricchi sono quelli che hanno il maggior numero di poveri o per meglio dire di miserabili.

Agli albori della Rivoluzione industriale Alexis de Tocqueville nel suo libro Il pauperismo nota, con stupore, come in Europa i Paesi che avevano imboccato per primi questa strada avessero un numero molto maggiore di poveri di quelli che erano rimasti fermi. Scrive Tocqueville: “Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa, si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano, e all’apparenza inesplicabile. I paesi reputati i più miserabili sono quelli dove si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza, una parte della popolazione è costretta, per vivere, a ricorrere all’elemosina dell’altra”.

Sono cose che dovrebbero far riflettere se avessimo ancora capacità di riflessione. Ma poiché l’abbiamo perduta si continua imperterriti sulla strada di sempre: costruzione di infrastrutture sempre più pesanti e complesse, superstrade, superponti, supertrafori, il tutto per aumentare la produttività ed essere all’altezza della competizione globale. Noi dobbiamo produrre compulsivamente per poter, altrettanto compulsivamente, consumare. Peggio, le cose si sono ormai invertite: consumiamo per poter produrre. Siamo noi al servizio del meccanismo, non il contrario.

Come si esce da questo automatismo infernale? Con un “ritorno graduale, limitato e ragionato, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano per il recupero della terra e un ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario”. E’ la mia tesi, inascoltata in Italia e in Europa, ma non negli Stati Uniti i quali, essendo la punta di lancia dell’attuale modello, stanno proponendo i primi anticorpi, sia pur ancora molto di nicchia, nelle correnti di pensiero che si richiamano al bioregionalismo e al neocomunitarismo.

Ma dubito molto che le nostre classi dirigenti abbiano letto non dico Lao-Tse ma almeno Alexis de Tocqueville che al pensiero occidentale appartiene.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2019