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“Squadre come il Frosinone non dovrebbero giocare in serie A perché non attirano fan, né interessi, né emittenti nel campionato. La promozione e la retrocessione sono la più grande idiozia nel calcio”. Also sprach Aurelio De Laurentiis, produttore cinematografico e patron del Napoli, una squadra che ha nove stranieri su undici, battuta solo dall’Inter (10 su 11) con un solo giocatore italiano, il terzino destro D’Ambrosio, ex Toro. Quella di De Laurentiis mi sembra una dichiarazione d’un razzismo sociale ributtante. Secondo costui solo le città grandi e ricche avrebbero il diritto a giocare in Serie A.

Nel primo dopoguerra, quando il calcio non era ancora diventato un fenomeno prettamente economico e televisivo (le due cose sono strettamente legate), e conservava i valori identitari, simbolici, rituali che per più d’un secolo hanno fatto la fortuna di questo gioco, la Pro Vercelli vinse sette scudetti, il Casale uno e uno la Novese di Novi Ligure. Nel secondo dopoguerra la Pro Patria di Busto Arsizio ha militato per parecchi anni in A, il Lecco c’è rimasto un anno, e tuttora il Sassuolo, che non ha nemmeno un proprio campo, è in Serie A e ha offerto, in alcuni anni, un ottimo calcio così come il Chievo che è la squadra di un quartiere di Verona (certo che se poi ogni anno le cosiddette ‘grandi’ gli portano via i migliori giocatori è difficile mantenersi a certi livelli).

L’ottimo De Laurentiis più che al calcio dovrebbe darsi all’ippica, se esistesse ancora, perché, come gli ha fatto notare il presidente del Frosinone, giustamente piccato, pur avendo una squadra zeppa di talenti pagati milioni di euro, dal 2007 non ha ancora vinto nulla di significativo. E dovrebbe sapere che per molte tifoserie lottare per non retrocedere è più emozionante che vivacchiare a metà classifica con la sola ambizione, oltretutto piuttosto chimerica, di inserirsi in quella comica competizione che è l’Europa League, altra invenzione, con le ‘terze’ che scendono dalla Champions e il sistema a gironi, per fare business, ancora business e sempre più business.

Pietrificare la serie maggiore di uno sport con le squadre che possono garantire più pubblico e quindi maggiori introiti, senza promozioni e retrocessioni, è tipico della cultura yankee costantemente orientata al business. Così van le cose per esempio nel loro basket che io guardo all’una di notte per conciliarmi il sonno perché è troppo tecnico e non si dà che una grande squadra possa perdere da una inferiore –che è poi quello che vorrebbe De Laurentiis- mentre la cosa meravigliosa e magica del calcio è che anche una ‘piccola’ può sempre battere una ‘grande’ o metterla in seria difficoltà come è avvenuto sabato scorso dove la Super Juve, in casa, ha strappato un sofferto pareggio (3 a 3) col Parma, dodicesimo in classifica. Noi siamo europei, non americani e dovremmo cercare di conservare la nostra cultura almeno negli sport. Gli inglesi, che sebbene fuori dalla Ue sono pur sempre europei, lo fanno: Wimbledon, il più importante torneo del Grande Slam, si gioca ancora sull’erba, non sul cemento, non sul sintetico, e tennisti e tenniste devono essere rigorosamente vestiti di bianco.

La “grande idiozia” non è nel meccanismo delle promozioni e delle retrocessioni, la “grande idiozia” è proprio la proposta di Aurelio De Laurentiis. La Serie A si alimenta dalle squadre delle categorie inferiori, dalle quali acquista i giocatori che ritiene migliori. Se i tifosi del Frosinone o del Lecce o del Benevento o del Cittadella, solo per fare i primi nomi che ci vengono in mente, sanno già che non potranno mai ambire, nemmeno in teoria, alla Serie A, finiranno per perdere passione e interesse per il calcio, sia quello da stadio che quello in tv. La Serie A si troverà così come sospesa nell’aria e nel vuoto e cadrà a vite con l’intero sistema. E la ‘gallina dalle uova d’oro’, spremuta in tutti i modi, verrà alla fine uccisa dagli inesausti adoratori del denaro.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2019

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Storie di ordinaria follia. Burocratica. Della Tim. Vicenda che è capitata a me, ma pure a molti altri utenti anche se non nelle forme kafkiane della mia.

Ho due linee di telefono fisso, una collegata al fax, una risalente a quando era ancora vivo mio padre prima sotto Stipel poi diventata Sip poi Telecom infine l’attuale Tim. Insomma un numero che sta in casa mia da oltre 70 anni. Naturalmente gli apparecchi sono cambiati e modernizzati. Anche se il vecchio modello, tipo ‘telefoni bianchi’, che io tengo in un’altra stanza, fa il suo porco dovere. Tant’è che quando lascio la cornetta del telefono principale attaccata male, quello invece squilla.

Il secondo numero, collegato al fax, non mi serviva più. A settembre ho chiesto alla Tim, con una certa fatica perché non si riusciva mai ad arrivare ad un umano, di toglierlo di mezzo. Finalmente la Tim mi informò che il giorno 30 novembre sarebbe arrivato il tecnico, senza peraltro dirmi a che ora. Sono quindi rimasto in casa tutto il giorno. Ma quello non si è fatto vedere. Allora con la solita difficoltà delle nuove tecniche (devi schiacciare un’infinità di numeri, come il lettore sa bene) sono riuscito a fissare un nuovo appuntamento. Il tecnico non è arrivato. Alla Tim avevo fatto ben presente che volevo togliere il numero suppletivo ma lasciando ovviamente l’altro, quello di sempre. Il 15 gennaio, circa cinque mesi dopo la mia prima richiesta, si è alla fine presentato un tecnico in carne e ossa. Un vecchio operaio che aveva cominciato con la Sip e la cosa mi ha rassicurato. Anni prima infatti avevo avuto un incrocchio per cui se funzionava la segreteria telefonica non funzionavano il fax e il fisso. E viceversa. Era venuto un giovane tecnico, di ultima generazione, che quando, un po’ preoccupato, gli spiegai il problema si mise a ridere: “E’ cosa da nulla”. Non riuscì a combinare un picchio. Ne chiamai un altro, sempre giovane, col quale si ripeté la stessa scena. Ne chiamai un terzo e nulla cambiò. Mi rivolsi allora a un vecchissimo tecnico che risaliva addirittura alla Stipel. Risolse tutto.

L’ultimo tecnico, quello ex Sip, operò molto bene. Sembrava tutto risolto. Il telefono principale funzionava, il numero collegato al fax era stato tolto di mezzo. Chiesi al tecnico una certificazione che documentasse la nuova situazione. Mi disse che ormai tutto avveniva per vie interne alla Tim, che quindi non ce n’era bisogno. Qualche giorno dopo ricevetti una telefonata della Tim. Una donna mi disse: “Lei ha lasciato Tim. Vorremmo quindi…”. “Io non ho mai lasciato Tim. Ho solo chiesto di togliere un numero suppletivo”. “Mi lasci controllare”. Poi mi richiamò confermando che le cose stavano come le avevo detto. Ricevetti però una seconda telefonata Tim che mi poneva la stessa questione. Diedi la stessa risposta. Ce ne fu poi anche una terza dello stesso tenore, stessa domanda, stessa risposta. A questo punto pensai che questa logorante interlocuzione con la Tim fosse finalmente chiusa.

Bene. Domenica mattina, verso le undici, alzo il telefono, faccio un numero e una voce registrata mi dice: “Per ragioni amministrative il suo telefono è disattivato”. Aggiunge poi, la voce, di chiamare il numero di emergenza. Per un colpo di sfiga avevo rotto il cellulare. Ero quindi completamente isolato. Il cellulare però non è obbligatorio. Uno può non avercelo per ragioni sue. Per smaltire il nervosismo sono andato in piscina. Sono ritornato alle quattro e il telefono continuava a non funzionare, c’era sempre la stessa voce registrata che cominciava: “Per ragioni amministrative…”.

Ritengo che in una società come questa, basata tutta sulle telecomunicazioni, e in una città come Milano, modernizzatissima ma dove uno non conosce nemmeno il suo vicino di pianerottolo, lasciare una persona per quattro o più ore senza la possibilità di comunicare sia un tantino criminale. Un vecchio, un single, può sentirsi male e non può nemmeno chiamare il 118. In ogni caso, anche se era la Tim che aveva sbagliato tutto, aveva almeno il dovere di informarmi qualche giorno prima che mi avrebbe disattivato il telefono.

Verso le quattro e mezza del pomeriggio il telefono ha ripreso, misteriosamente, a funzionare. Erano passati cinque mesi dalla mia prima richiesta. Tim mi ha spiegato che c’erano stati dei difetti e degli equivoci nelle loro comunicazioni interne (che non è affatto detto che non si possano ripetere, e infatti l’altro giorno il telefono è rimasto disattivato per mezzora). Insomma la più importante società di telecomunicazioni, che è la proprietaria delle linee telefoniche, non sa comunicare al proprio interno. E il dottor Gubitosi che ieri ha rilasciato un’intervista trionfalistica al Corriere, dove è prospettata una serie di agganci internazionali con altri operatori, farebbe bene, prima, a sistemare un po’ meglio la propria organizzazione interna.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2019

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Considero un successo personale la dichiarazione del ministro Trenta di aver dato disposizione al Coi di “valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan”. Sono stato l’unico giornalista, non solo italiano ma occidentale, ad aver contestato fin dal 2001, anno dell’invasione degli americani in Afghanistan, questa aggressione che darà poi la stura a una serie di altre, dall’Iraq alla Somalia alla Libia alla Siria. L’invasione fu pretestuosa. I Talebani non c’entravano nulla con l’attacco alle Torri Gemelle. Non un solo afgano era presente sugli aerei che colpirono le Torri e il Pentagono, non un solo afgano fu in seguito trovato nelle cellule, vere o presunte, di al Qaeda. Bin Laden i Talebani se lo erano trovato in casa quando presero il potere nel 1996. Ce lo aveva portato, dal Sudan, Massud per combattere un altro ‘signore della guerra’, Heckmatyar. E quando nell’inverno del 1998 Clinton propose al Mullah Omar di far fuori Bin Laden, Omar accettò la proposta perché nel frattempo gli americani, cercando di colpire Bin Laden, stavano facendo strage di civili afgani. Ma all’ultimo momento Clinton si ritirò (documenti del Dipartimento di Stato). Tra l’altro nei giorni seguenti all’attentato del 2001, mentre tutte le folle arabe scendevano in piazza esultanti, il governo talebano mandò un telegramma di condoglianze agli Stati Uniti e al popolo americano.

Per anni mi sono beccato accuse di favoreggiamento dei ‘terroristi’, che terroristi non erano ma indipendentisti che si battevano per la libertà del loro Paese contro l’invasione straniera. Della mia biografia sul Mullah Omar fu chiesto il sequestro. Nel 2015 il Corriere rifiutò un mio necrologio che rendeva onore al Mullah Omar, questo straordinario uomo e combattente, che si era battuto giovanissimo contro gli invasori sovietici, perdendo un occhio in battaglia, che aveva sconfitto i ‘signori della guerra’ che avevano fatto dell’Afghanistan terra di assassinii, di stupri e di violenze di ogni genere sulla popolazione, che aveva dato gli unici sei anni di pace alla sua terra, e che era stato il leader prestigioso della resistenza agli occupanti occidentali.

Gli italiani non hanno mai veramente combattuto in Afghanistan. Le nostre perdite si limitano a 53 uomini infinitamente inferiori non solo a quelle degli americani, ma a quelle degli inglesi, che quando fan le cose le fan sul serio, e persino degli olandesi. Noi fin da subito ci siamo accordati con i Talebani. Perché ci lasciassero in pace li pagavamo. Fedeli come cani, come sempre, sleali come sempre. Questo accordo fu denunciato nel 2004 dal colonnello dei marines Tim Grattan che affermò: “Ora tocca agli italiani fare la loro parte. Stringere patti con i comandanti talebani è perdente. I nemici si combattono e basta”. Gli olandesi si sono ritirati nel 2010, i canadesi un anno dopo.

Che gli italiani si ritirassero dall’Afghanistan lo avevo chiesto alla Versiliana di due anni fa a Di Battista, che però allora era solo un parlamentare. Questa richiesta l’ho ripetuta quest’anno, sempre alla Versiliana, a Di Maio che era già vicepresidente del Consiglio. E Di Maio si era pubblicamente impegnato. L’affermazione di Elisabetta Trenta segue evidentemente questo impegno ed è stata anche avvallata dal premier Conte. Questo ritiro era dovuto, non solo e non tanto per i 7 miliardi spesi in questa guerra vergognosa, ma per una ragione etica: non si aggredisce e non si occupa un Paese senza una ragione che non sia quella di servire gli americani.

Naturalmente il preannuncio di Trump di ritirare 7 mila soldati dall’Afghanistan e di conseguenza quello della Trenta non significano che in Afghanistan si arrivi a una vera pace, cioè che l’Afghanistan sia restituito agli afgani. Gli americani hanno posto alcune condizioni. 1. Che i Talebani combattano l’Isis. 2. Garantire il cessate il fuoco. 3. Colloqui diretti col governo di Kabul. La prima condizione è ridicola. I Talebani combattono l’Isis dal giorno in cui gli islamisti radicali, con la nostra compiacenza per non dire complicità, sono penetrati in Afghanistan. 2. Il fuoco lo devono innanzitutto cessare gli americani, inoltre devono ritirare dall’Afghanistan non solo i loro contingenti a terra ma le basi che hanno in territorio afgano, perché questa è la volontà dell’intera popolazione afgana, talebana, non talebana, antitalebana. 3. I Talebani non accetteranno mai questa condizione perché considerano Ashraf Ghani un fantoccio al servizio degli americani come in precedenza il più criminale Karzai.

Siamo quindi ancora lontani da una vera pace. Se finalmente ci sarà, sarà un trionfo postumo del Mullah Omar e io voglio concludere questo articolo come concludevo il mio necrologio: “Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2019