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Je suis Catherine Deneuve. Perché con la sua autorevolezza che le deriva dall’appartenenza di genere (il sesso forte, altro che debole), dalla sua bellezza, dalla sua raffinatezza e bravura di attrice (Belle de jour di Bunuel su tutto) mi ha salvato dalla serqua di insulti, massmediatici e no, che mi sono piovuti addosso per quattro articoli che ho scritto sul Fatto post ‘caso Weinstein’ (“Il caso Weinstein: le ricattate e il ricattatore”, 17/10/2017; “Dalle molestie alla caccia alle streghe: difendiamoci”, 7/11/2017; “Risposta a Claudia Mori”, 9/11/2017; “La caccia alle streghe”, 9/12/ 2017). La cupa Dacia Maraini afferma che “la caccia alle streghe”, maschili, non riguarda “la mano sul ginocchio o una pacca sul sedere”. Non è così. Il ministro della difesa britannico Fallon si è dimesso perché accusato di aver messo la mano sul ginocchio di una giornalista che gli sedeva accanto e anche il vecchio Bush che di ben altro dovrebbe essere ritenuto responsabile è stato messo sotto schiaffo perché dalla sua carrozzina ha messo la mano su un sedere che gli stava davanti e alla giusta altezza. Ma chi mai, se è un uomo, può resistere a un bel culo?

Non a caso Venere è Callipigia e nasce in Grecia, nella prima metà del II secolo avanti Cristo, insieme alla grande filosofia e alle matematiche. E “pour cause”. Perché il culo è innanzitutto una categoria metafisica. Possiede la perfezione geometrica delle figure astratte. E infatti, come forma, si apparenta alla sfera che è la figura geometrica perfetta. Ma la supera perché ha una simmetricità che manca alla sfera. Come la sfera è un corpo finito e infinito allo stesso tempo e, poiché è curvo, il culo è vicinissimo all’essenza stessa della verità (“Ogni verità è curva” scrive Nietzsche). C’è, racchiuso nel culo, l’enigma del rapporto finito/infinito, spazio/tempo, che è l’enigma dell’Universo. Non a caso Salvador Dalì a qualcuno che gli chiedeva come immaginasse l’universo rispose: “Un continuum a quattro natiche”.

Come questo inquietante apotema, così carico di significati simbolici, sia finito in fondo alla schiena dell’uomo e, quel che è peggio, della donna, è un mistero. Ma qui ritorna la grande ambiguità del culo, la sua finita infinitezza. Disumano per l’esattezza e la perfezione delle sue proporzioni, il culo è anche molto umano. Mentre la perfezione è, per ciò stesso, inespressiva, il culo è la parte più eloquente del corpo. Quando Moravia ne La vita interiore ha scritto che “il sedere manca di espressione” non sapeva quel che si diceva. Il culo segnala non solo il carattere ma, spesso, l’appartenenza di classe di una persona, maschio o femmina che sia. C’è il culo diffidente e avaro (che è a mele strette come hanno, in genere, i toscani), il culo fiducioso e pieno di speranza (tondo, grasso e a natiche leggermente dischiuse), il culo aggressivo (sodo e massiccio come una catena montuosa), il culo volitivo (piccolo e muscoloso), il culo colloquiale (elastico e malleabile), il culo nobile (alto, lungo e appena rilevato), il culo popolare (basso e largo), il culo burocratico (grasso e uniforme), il culo proletario (largo ma alto), il culo militare (stretto e muscoloso), il culo meschino e timoroso (che è quello magro ma senza essere ossuto), il culo indifferente (piccolo e raccolto), il culo ridanciano (largo e piatto), il culo impertinente (tondo, a scalino e sussultorio). Infine c’è il culo remissivo, che è quello che ha due tenere pieghe fra la natica e l’attaccatura della gamba ed è tondo senza essere eccessivo. Questo è il vero culo. Il culo dei culi. Perché possiede, al massimo grado, le due caratteristiche che, pur variamente mascherate, sono proprie di ogni culo: l’essere indifeso e ridicolo (“L’ilare impotenza del deretano” la chiama Sartre, che se ne intende). Il culo infatti è impotente. Perché, come           Polifemo, è cieco nonostante possegga un occhio. E’ in condizione di palese inferiorità: non può guardare ma solo essere guardato. E’ inoffensivo perché non ha spigoli. Poco o punto muscoloso non si può difendere e chiunque può oltraggiarlo. E’ nudo ed esposto poiché non ha peli. Ed infine è ridicolo come tutti gli esseri grandi e grossi ma imbelli.

Per questo connubio di impotenza e di ridicolo, il culo è la parte preferita dal sadico. Nessuno le busca come il culo. C’è da dire che, quasi sempre, il culo fa di tutto per meritarsele. Provoca. A volte infatti si presenta con un’aria di falsa innocenza, altre con impertinenza, altre ancora con arroganza. In altri casi si isola, fa finta di niente, come se ignorasse di essere un culo. Atteggiamenti, tutti, che attirano una adeguata punizione. Che del resto il culo, dopo una prima resistenza di pura parata e, diciamo così, di bandiera, accetta volentieri, arcuandosi, protendendosi, aprendosi, offrendosi. Perché il culo è profondamente, intimamente, masochista.

Ma c’è un altro elemento, nel culo, che attira il sadico: la perfezione. E’ la perfezione ad accendere il desiderio della profanazione. Solo ciò che è perfetto merita di essere sconciato, sciupato, oltraggiato, vilipeso e quindi, alla fine, reso imperfetto. E anche questa è una dimostrazione dell’enorme superiorità del culo sul seno. Il seno si accarezza, si vezzeggia, si mordicchia affettuosamente. Per consolarlo della sua pochezza, di essere solo un seno. Nella perfezione del culo c’è un orgoglio luciferino che va abbattuto e degradato.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2018

 

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L’unico modo per restare in Italia è andarsene. Perché non c’è salvezza. Il nostro è un Paese intrinsecamente e ormai anche antropologicamente mafioso. Quando si afferma, con toni trionfalistici o di grande sollievo, che la corruzione recentemente scoperchiata a Roma e chiamata ‘mafia capitale’ non è un fenomeno mafioso perché la magistratura non ha accertato infiltrazioni della Mafia propriamente detta, non ci si rende conto che, così, la cosa è ancora più grave. Perché la mafia, la camorra, la ’ndrangheta, la Santa Corona Unita (in questa specializzazione deteniamo il record del mondo) sono delle organizzazioni strutturate e quindi, almeno teoricamente, individuabili, mentre la corruzione capillare e diffusa è irriconoscibile e non percepibile.

Dopo l’articolo di martedì di Marco Travaglio pubblicato dal Fatto (“La strage dei capaci”) che si può dire di più? Nulla. Nondimeno l’articolo di Travaglio non servirà a nulla. Come a nulla sono serviti gli elzeviri di Indro Montanelli o le inchieste di Giorgio Bocca. Nonostante qualche lodevole sforzo l’Italia è andata irrimediabilmente peggiorando, da ogni punto di vista: etico, culturale, umano. E nulla sembra poter fermare questa deriva. Mani Pulite poteva essere l’ultima occasione della nostra classe dirigente per emendarsi. Invece nel giro di pochissimi anni, con i testimoni del tempo ancora in vita, la situazione è stata capovolta: i giudici sono diventati i veri colpevoli e i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici. Come si poteva pensare che la nostra classe dirigente, politica, imprenditoriale, finanziaria, non ne ricavasse un senso di impunità per corrompersi e corrompere ancora di più? Impunità che è confermata dai fatti: solo lo 0,25% della popolazione carceraria è composta da ‘colletti bianchi’, mentre in Germania, dove la corruzione è infinitamente minore, la percentuale è del 15%. Come si poteva pensare che con un simile esempio la corruzione non discendesse giù per li rami arrivando a tutti i cittadini, di basso e alto ceto, per cui oggi non puoi andare nemmeno in una piscina frequentata da gente benestante senza che dagli armadietti non ti rubino anche le mutande sporche?

In Italia qualsiasi tentativo per migliorare le cose non fa che peggiorarle. In Università si è cercato di tagliare le unghie al sistema delle ‘baronie’. Cosa succedeva prima? Il ‘Barone’ cooptava pressoché automaticamente l’assistente che aveva lavorato per lui alcuni anni, sostituendolo nelle lezioni, nei colloqui con gli studenti, inventandosi format utili al Dipartimento ed escludendo così altri pretendenti che avevano eventualmente più titoli per occupare quel posto. Come ha reagito la mafia dei prof? Elementare Watson: aggirando l’ostacolo. Ora il professore Caio non coopta più direttamente il suo protetto ma quello del professor Sempronio che al primo giro utile gli restituirà il favore. Ciò comporta la complicità degli altri professori che compongono la Commissione d’esame (la composizione della Commissione è il vero momento decisionale che prescinde da ogni valutazione di merito) e degli stessi studenti che devono partecipare al raggiro, o fingere di non vederlo, altrimenti sono tagliati fuori. Così se prima il posto di assegnista, di ricercatore, di associato lo occupava un soggetto che comunque una qualche competenza ce l’aveva, ora può esservi catapultato qualcuno che, in quella materia specifica, non ha competenza alcuna. Non è escluso, naturalmente, che da questo sistema di raggiri esca un candidato scientificamente all’altezza, nelle nostre università ce ne sono, ma è più facile il contrario e che molti candidati, che non si sono adeguati al sistema, rinuncino e dopo anni spesi inutilmente si cerchino un altro lavoro. E comunque che insegnamento etico potranno dare questi nuovi prof, selezionati in tal modo, che si sono adeguati al sistema, ai loro discepoli? Un insegnamento, che di adeguamento in adeguamento, crea una classe di professori anche peggiori, dal punto di vista morale, di coloro che li hanno preceduti e scelti, in un avvitamento vizioso che non ha fine. Il sistema è talmente collaudato e la mafia dei professori, come quella dei politici, così sicura della propria impunità che nessuno ha mai osato reagire. Per la verità uno c’è stato, recentemente. Il ricercatore di 49 anni, Philip Laroma Jezzi, non a caso di origine inglese, stufo di essere preso in giro da anni e minacciato dalla congrega dei prof di essere definitivamente estromesso se si fosse permesso di presentarsi a un concorso che aveva i titoli per vincere (“smetti di fare l’inglese e fai l’italiano”) ha denunciato questo sistema mafioso in voga, nel caso, all’Università di Firenze ma in pratica in tutti gli Atenei italiani. Sette professori sono finiti abbottegati, 22 sono stati interdetti dall’insegnamento per un anno. Che fine faranno l’inchiesta e Laroma Jezzi lo vedremo, forse. Il Laroma Jezzi mi ricorda un altro italoinglese, il Pubblico ministero Henry John Woodcock, uno dei nostri magistrati più irreprensibili, che sta passando l’anima dei guai proprio perché è uno che non si adegua. Quel che è certo è che comunque vada a finire l’inchiesta, fra qualche migliaio d’anni dati i tempi della nostra giustizia, il sistema resterà ‘tel quel’. L’Università dovrebbe essere “rivoltata come un calzino” per usare un’espressione di Davigo. Invece cosa propone quel nuovo fulmine di guerra di Pietro Grasso, leader di “Liberi e uguali”, che non ha avuto nemmeno la decenza di dimettersi da presidente del Senato dopo aver lasciato il partito che lì ce lo aveva messo? Propone, demagogicamente, a soli fini elettorali, non diversamente da quanto stanno facendo Berlusconi, Renzi, Salvini e tutti gli altri, l’abolizione delle tasse universitarie come se questo servisse a qualcosa.

La Rai è l’emblema di questa “mafiosità che non osa dire il suo nome”. Anche in Rai ci sono ovviamente alcuni ottimi professionisti. Lucia Annunziata è una di questi. In una bella intervista concessa al Fatto anche l’Annunziata è però costretta ad ammettere di essersi dovuta adeguare al macrosistema mafioso vigente in Rai come in ogni altro settore pubblico e anche privato. Se non l’avesse fatto sarebbe finita fuori come Milena Gabanelli.

In Italia c’è una dittatura mascherata da democrazia. Che è ancora più insidiosa di una dittatura propriamente detta. Perché soft, impalpabile, in un certo senso collettiva, perché coinvolge quasi tutti e non sai nemmeno a chi sparare col tuo fuciletto a tappo.

E allora che cosa si può fare per rimanere italiani senza vergognarsi di esserlo? Guardare l’ex Bel Paese da lontano. Da molto lontano.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2017

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Lo scontro fra il Pd e il ministro Calenda sul canone televisivo è grottesco. Ma solo in via minore perché era stato il governo Renzi ad abbinare il canone alla bolletta elettrica, per costringere a pagare anche i riottosi e ora invece propone di abolirlo. Perché la questione della Rai è tutt’altra. Una Rete Tv pubblica controllata dal governo, com’è la Bbc inglese, considerata una delle migliori del mondo, non solo è utile ma necessaria. Per due motivi. Perché solo una Tv pubblica può fornire servizi appunto di pubblica utilità ai quali le Tv private non sono interessate. E perché anche il governo, che rappresenta comunque il Paese, ha il diritto e il dovere di dare un suo indirizzo culturale e in senso lato anche politico alla cittadinanza. Ma il fatto è che la Rai non è pubblica ma è in mano ai partiti che se la suddividono a seconda della loro consistenza o di chi in quel momento è al governo.

Nella Prima Repubblica la situazione era più evidente. La prima Rete andava alla Dc, la seconda al Psi, la terza al Pci. Che la situazione fosse questa lo disse ‘apertis verbis’, all’inizio di Mani Pulite, Bruno Vespa, allora direttore del Tg1: “Il mio editore di riferimento è la Democrazia Cristiana”. E fu, forse, l’unica volta che in vita sua disse la verità. Naturalmente fu mazzolato da tutti quelli che avevano la coda di paglia. Mi ricordo, in particolare, l’indignazione di Sandro Curzi che, come direttore del Tg3, faceva ciò che faceva Vespa, per il Pci.

Oggi con lo spappolamento dei partiti tradizionali la situazione è più confusa ma nella sostanza è rimasta la stessa. Le varie formazioni politiche si spartiscono la Rai pubblica. Fanno riferimento a questo o a quel partito tutti i direttori di Rete, tutti i direttori e vicedirettori dei Tg, tutti i capi struttura. Nel Consiglio di Amministrazione siedono uomini dei partiti, magari mascherati da giornalisti di quart’ordine o da sindacalisti. Idem, e anche peggio, nella Commissione di Vigilanza i cui membri sono nominati direttamente dai partiti con un rigoroso manuale Cencelli. Cioè i controllati sono anche i controllori. Se per avventura entra in Rai, in una posizione apicale, un giornalista indipendente ne viene quasi subito estromesso, perché è un corpo estraneo. Come è stato il caso di Carlo Verdelli.

Come si risolve questa situazione? Non si risolve finché i partiti, questo autentico cancro della democrazia, faranno il bello e il cattivo tempo non solo in Rai ma nell’intero Paese.

Una risposta, almeno parziale, potrebbe venire da quello che in altri tempi si chiamava “disarmo bilaterale”. Cioè alla Rai pubblica rimane una sola Rete, sul modello della Bbc inglese, le altre due vengono messe sul mercato e vendute a privati che non siano possessori di altri network in Italia. Ma contemporaneamente anche Mediaset mette sul mercato, nello stesso modo, due delle sue Reti. Perché una sola Rete pubblica non potrebbe reggere l’urto di un network privato che ne ha tre. E’ vero che oggi ci sono Sky, che però è a pagamento, e La7. Ma anche La7, pur potendo contare su quel genio televisivo che è Mentana, fa una fatica boia a competere in termini di share e raccolta pubblicitaria con i due supercolossi.

Quindi finché i partiti avranno in mano il pallino e Berlusconi, per soprammercato, sarà contemporaneamente imprenditore televisivo e uomo politico in un colossale conflitto d’interessi che non esiste in nessun paese democratico e forse anche non democratico (negli Stati Uniti un uomo politico non può possedere nemmeno una free press) non se ne farà nulla. A meno che i Cinque Stelle, come hanno promesso, non facciano piazza pulita e sempre che, come spesso avviene, una volta arrivati al potere non diventino più tracotanti di coloro che li hanno preceduti.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2017