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Marco Travaglio ha demolito da par suo la baraonda creata ad arte dai giornali e dalle televisioni italiane che prendendo spunto da una frase del tutto neutra dell’Osservatore Romano hanno affermato che anche il Vaticano era contro il sindaco di Roma, Virginia Raggi. Bene. Ma, facendo un cattolico processo alle intenzioni (cominciamo anche noi a utilizzare gli artifizi altrui) è evidente che al Vaticano non è piaciuto il rifiuto, peraltro educatamente preannunciato, di Virginia Raggi a partecipare al festival dell’Azione Cattolica. Probabilmente il sindaco di Roma aveva da lavorare, a differenza di Matteo Renzi che da un paio di mesi sta facendo un tour elettorale e non si nega neppure qualche piacevole distrazione come presenziare al galà del San Carlo (Ma quando lavora costui? O twitta o fa il ‘tour d’Italie’ come i viaggiatori inglesi dell’800 ma non sta quasi mai nel posto in cui dovrebbe stare, Palazzo Chigi). Ha detto monsignor Angelo Becciu della segreteria di Stato Vaticana: “E’ giusto dare al nuovo sindaco Virginia Raggi il tempo di lavorare e affrontare i problemi cronici della città”. Nemmeno questo va bene. La Chiesa non può ficcare il becco, anzi il becciu, né in senso favorevole né sfavorevole negli affari interni dello Stato italiano. “Libera Chiesa in libero Stato” ha detto Cavour che ha fondato la nostra nazione. Come nessun rappresentante delle Istituzioni italiane potrebbe permettersi di mettere in dubbio, poniamo, i dogmi della Chiesa che so l’Immacolata concezione o la resurrezione della carne (A che età, prego, perché se mi fanno resurregere a vent’anni ci posso anche stare, a settanta no) così nessun rappresentante del Vaticano ha il diritto di intromettersi nelle questioni dello Stato italiano. Questa aurea regola cavouriana era stata seguita in modo fermo dai democristiani d’antan che benché cristiani ci avevano sempre tenuto a distinguere le due sfere. La confusione è cominciata con Papa Woytjla (quello da fare ‘subito santo’) che tuonò contro la Lega che intendeva separare il Nord dell’Italia dal resto del Paese. Come se uno Stato uno o trino avesse a che vedere in qualsiasi modo col magistero della Chiesa. Da allora è stata un’orgia di intromissioni da parte della Chiesa attraverso i suoi vari rappresentanti, mentre da parte dei governanti laici, o supposti tali, c’è stata una costante sottomissione a queste inaccettabili intromissioni e un continuo genuflettersi e baciar di babbucce papali.

Lo sappiamo, lo sappiamo tutti, che la presenza del Vaticano è uno dei più gravi problemi per l’Italia, è un cancro incistato nel cuore della nostra Capitale. Invece di battagliar su la Raggi dovremmo sbarazzarcene, incamerare i suoi immensi beni, e spedire il Papa non ad Avignone, perché i francesi laici lo sono davvero anche se a volte in forme eccessive, ma in Sudamerica dove, forse, qualche cristiano si trova ancora.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2016

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Colpisce l’enorme giubilo con cui, oltre ai partiti, tutti i giornali hanno accolto lo scivolone, ammesso che tale sia, della giunta Raggi. La sintesi delle pagine e pagine che da giorni tutti i giornali, e in particolare quelli che Travaglio chiama ‘i giornaloni’, può essere definita così: vedete i grillini sono come gli altri, sono marci come tutti noi. Scriveva su La Repubblica (8/9), che non è un giornale normale ma un giornale di partito però mascherato, quindi il peggio del peggio del peggio, l’indimenticabile Francesco Merlo, sintetizzando efficacemente questo sentimento di giubilo: “Una bugia li ha fatti definitivamente entrare nella Storia d’Italia”. Evviva, e pensare che noi speravamo di uscire da questa infame storia, infame almeno dagli anni in cui il Pci finì di fare opposizione consociandosi al potere e aprendo la strada a ogni sorta di abusi che fino al breve periodo di Mani Pulite rimasero impuniti per poi tornare in grande stile. Scriveva il direttore de Il Giornale (7/9) Alessandro Sallusti: “E quindi addio per sempre verginità, addio purezza, addio diversità, addio a tutte le fregnacce che ci siamo dovuti sorbire in questi anni”. E’ chiaro che questa destra che si fa fatica a chiamar tale perché la Destra è stata una cosa seria, anche se oggi è una categoria politica superata come superata è la Sinistra (forse l’unica che interpreta i sentimenti della vera Destra è Giorgia Meloni) non appena sente la parola ‘onestà’, che sarebbe meglio sostituire con ‘legalità’, fa il ponte isterico, cade in deliquio, si contorce come l’indemoniato davanti all’esorcista. In particolare questa è una assoluta necessità per Sallusti e il suo giornale, il cui proprietario è stato condannato in via definitiva per frode fiscale e definito dal Tribunale di Milano “delinquente naturale” che è qualcosa di più del ‘delinquente abituale’ perché è uno che delinque anche quando non ne ha alcun bisogno. E teniamo questa come sintesi, lasciando da parte tutto il resto che riguarda non solo Berlusconi ma infiniti esponenti della cosiddetta destra.

Tuttavia i Cinque Stelle un errore lo hanno commesso e ha a che fare solo indirettamente col ‘caso Muraro’. In un Paese marcio fino al midollo hanno spinto la loro ansia di moralità troppo oltre (anche se questo è il sentimento di una parte enorme dei cittadini, anche di coloro che non votano Cinque Stelle, basta pensare all’astensionismo che è arrivato vicino al 50 %) schiacciando sull’acceleratore come il primo Vasco Rossi. Mi ha detto una volta Don Giussani “l’errore è una verità impazzita”. Tradotto nella situazione che stiamo vivendo oggi, un principio, anche il più giusto dei princìpi, come quello della richiesta di moralità, spinto alle sue estreme conseguenze diventa un errore. Diceva il vecchio e saggio Nenni: “Anche il più puro dei puri alla fine trova uno più puro di lui che lo epura”. Questi non sono affatto puri, sono anzi marci, ma così hanno avuto buon gioco a mettere sullo stesso piano una leggerezza con i loro crimini decennali, penali e politici. Marco Travaglio che puro, in questo senso, lo è davvero, è un calvinista giansenista di marca torinese, li segue con il suo giornale su questa strada. Io no. Perché mi sono stufato, dopo quarant’anni, di una correttezza e di una coerenza intellettuale portata anch’essa alle sue estreme conseguenze che finisce solo per fare il gioco dei furfanti.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2016

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Bisognava aspettarselo. Dal primo giorno in cui si è insediata in Campidoglio la giunta di Virginia Raggi è entrata nel mirino di tutti i politici, di tutte le Tv, di tutti i giornali, di tutti i pennivendoli che operano in questo Paese a difesa del potere che esercitano da decenni. Da allora non c’è stato giorno in cui tutti i giornali non parlassero della monnezza di Roma e dei topi di Roma come se tutto ciò fosse responsabilità della Raggi e non di chi aveva governato Roma nei decenni precedenti. Eppure, almeno in questo campo, in meno di due mesi la giunta Raggi ha fatto qualcosa. Lo stesso principe del foro degli Azzeccagarbugli, Pier Luigi Battista, sul Corriere del 2/9 descriveva “lo stupore di molti romani che tornando dalle vacanze hanno visto la città più pulita e i cassonetti meno intasati di schifezze”. Bene, direbbe uno. E invece no. Battista, entrando nel cervello dei romani, aggiunge che costoro “si sono chiesti increduli e scettici: durerà?”. Se i romani avessero trovato la situazione di prima Battista avrebbe scritto che la Raggi non aveva fatto niente. Poiché qualcosa ha fatto rilancia che non lo farà in futuro. E’ il classico ‘letto di Procuste’ in cui Battista, come tutti gli innumerevoli Battista di questo Paese, è specializzato.

Bisognava aspettarselo. Sta accadendo quello che è accaduto alla prima Lega di Bossi quando nel 1992 si affacciò alla ribalta politica prendendo un voto quasi plebiscitario al Nord, cioè nella parte economicamente trainante del Paese, e rompendo così, sull’onda delle inchieste di Mani Pulite, il consociativismo (Dc+Psi+Pci+frattaglie repubblicane e liberali) che aveva dominato nei decenni precedenti nella più assoluta impunità per la propria dilagante corruzione. Tutti i politici, tutte le Tv, tutti i giornali, escluso l’Indipendente di Vittorio Feltri, intuendo il pericolo si gettarono a corpo morto contro la Lega con una violenza che non avevano riservato nemmeno alle Brigate rosse. La Lega di Bossi, come oggi i Cinque Stelle, non era né di destra né di sinistra ma avendo preso i voti solo al Nord aveva l’esigenza di allearsi con qualcuno. Bossi scelse Berlusconi che si presentava, almeno all’apparenza, come ‘homo novus’. Ma accortosi di che pasta era fatto realmente il Cavaliere in un memorabile e lucidissimo discorso alla Camera del 21 dicembre del 1994, il suo migliore in assoluto, fece cadere il Governo Berlusconi. Quel discorso si chiudeva così: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. S’illudeva, il povero Umberto. Nel giro di due anni tutti i protagonisti di quella che impropriamente è stata chiamata ‘la rivoluzione italiana’ furono in un modo o nell’altro eliminati. Antonio Di Pietro fu sottoposto a sette inchieste da cui uscirà assolto (ma che importa), lo straordinario pool di Mani Pulite, Borrelli, Boccassini, Colombo, Davigo fu delegittimato, Feltri fu comprato da Berlusconi, Giancarlo Funari, che era stato anch’egli determinante, emarginato e la Lega di Bossi inglobata e innocuizzata. E tutto continuò come prima, addirittura peggio di prima come abbiamo potuto vedere.

E torniamo all’oggi. Al cosiddetto ‘caso Muraro’. La Muraro, allo stato, è stata semplicemente inserita nel registro degli indagati e non ha ricevuto nemmeno un avviso di Garanzia. I Cinque Stelle si trovano oggi in difficoltà non per oscuri conciliabili che avrebbero tenuto al loro interno, ma al contrario per un eccesso di trasparenza. L’unica colpa che si può addebitare, allo stato, alla Muraro - e lo fa anche Marco Travaglio- è di non aver detto la verità in alcune interviste. Eh no, caro Marco, vale qui quello che dissi ad Antonio Di Pietro, che all’epoca delle inchieste di Mani Pulite, intuendo il pericolo di una loro personalizzazione, non avevo quasi mai nominato, quando mi chiese l’introduzione al suo monumentale libro di difesa Memoria. Gli chiesi: “Perché non è entrato in politica quando si tolse la toga? In quel momento avrebbe avuto il 90 per cento dei consensi” (gli davo del lei, non mi ero strusciato al pm quando era al massimo della sua popolarità come facevano moltissimi e importanti giornalisti, a cominciare da Paolo Mieli che intitolò un suo editoriale “Dieci domande a Tonino”, come se ci fosse andato a pranzo e cena a Montenegro di Bisaccia). Rispose: “Non sarebbe stato corretto”. Replicai: “Non si può lottare con un braccio legato dietro la schiena contro chi non solo gli usa tutti e due e in più aggiunge anche il bastone”. E lo stesso vale ora. Non si può mettere sullo stesso piano una leggerezza con gli innumerevoli crimini compiuti dalla classe dirigente italiana. E fa schifo, solo schifo, che le accuse ai Cinque Stelle vengano da un partito, il Pd, che ha una pletora di indagati, condannati o prescritti in Parlamento e 102 indagati nei Consigli regionali. Del resto il giochetto di sinistra e destra perennemente alleate contro chi può insidiare il loro potere è di attaccarlo, a seconda delle evenienze, da destra o da sinistra.

Quindi non vale affatto, caro Marco, la frase che tu attribuisci a Talleyrand: “E’ stato peggio di un crimine. E’ stato un errore”. Vale invece qui il verso del Vangelo: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. Questi dovrebbero stare zitti, assolutamente zitti, almeno per un’eternità, se non vogliono che la rabbia dei cittadini, canalizzata democraticamente dai Cinque Stelle, si traduca in una violenza che non farà prigionieri.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2016