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Il Tribunale di Sorveglianza di Milano, concedendo a Silvio Berlusconi l'affidamento in prova ai servizi sociali, fra le limitazioni imposte al detenuto ha accolto una di quelle indicate dal Procuratore generale Antonio Lamanna secondo il quale l'ex Cavaliere non potrà «diffamare o peggio calunniare singoli magistrati», pena la perdita del beneficio. Il Tribunale si è espresso con parole leggermente diverse ma che hanno lo stesso significato: il detenuto, finchè rimarrà tale, non potrà «insultare i magistrati con frasi offensive in spregio dell'ordine giudiziario». Io non credo sia compito della Magistratura stabilire, a priori, ciò che un uomo politico può o non può dire, semmai se costui si rende realmente responsabile di diffamazione o di calunnia nei confronti di chichessia la Magistratura può agire 'dopo' attivando un'ulteriore azione penale.
La questione in realtà sta a monte e risiede nella domanda: può un condannato, che pur sconta la pena ai servizi sociali, continuare a fare, nel periodo in cui è detenuto, il mestriere che faceva prima, nel caso di Berlusconi quello del politico? Poniamo che al posto di Berlusconi ci sia un calciatore condannato per aver truccato qualche gara e che goda anch'esso del beneficio dell'affido ai servizi sociali. Se costui può continuare ad allenarsi, a giocare ogni domenica le partite, anche quelle in trasferta perché il Tribunale gli concede in queste occasioni di uscire dalla regione in cui dovrebbe essere confinato, dov'è la pena?
Non intendo qui infierire su Berlusconi, prendo solo il suo caso come esempio per dire che i benefici ai detenuti, accumulatisi negli anni, fanno acqua da tutte le parti, perché finiscono, di fatto, per annullare la pena. Prendiamo un rapinatore che è stato condannato a quattro anni. Tre gli vengono condonati dall'indulto. Ne rimane uno. Che si riduce a dieci mesi e 15 giorni perché potrà godere, come tutti, di 45 giorni di 'liberazione anticipata'. Poiché ha più di settantanni non va in prigione ma viene ammesso all'affido in prova ai servizi sociali. Per quattro ore alla settimana dovrà adoperarsi in lavori 'socialmente utili'. La limitazione alla libertà personale si riduce a 168 ore. E' una pena adeguata per un reato così grave? Così com'è adeguata per una frode fiscale arcimilionaria?
Ma mi rendo conto di parlare per parametri antichi, vetusti, superati. In Italia non esistono più regole. Il presidente del Consiglio annuncia provvedimenti importanti per il Paese su twitter, qualche ministro lo corregge parlando a uno dei trenta talk show, parlamentari dell'opposizione replicano su facebook. Io credo che un premier dovrebbe prendere le sue decisioni nel Consiglio dei ministri e poi comunicarle al Parlamento e, se approvate, farle pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale. I parlamentari dovrebbero esprimere le proprie opinioni in Parlamento non sui social network. Così si crea solo una gran confusione in cui il cittadino si smarrisce. Eppoi si dice in continuazione che «bisogna riavvicinarlo alla politica», mentre così non si fa altro che allontanarlo, perché la politica, diffusa e confusa in un'immensa, perenne, 'società dello spettacolo', perde ogni credibilità.
Intanto il Presidente della Repubblica presenta un suo libro a 'Che tempo che fa' di Fabio Fazio, come una qualsiasi deb che aspira al successo letterario, e non contento interviene su temi che fan parte della campagna elettorale da cui dovrebbe rigorosamente astenersi per quel dovere di imparzialità che gli impone la Costituzione su cui ha solennemente giurato. Lo slogan del Sessantotto era «Pagherete caro, pagherete tutto». Va riformulato in «rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto». Forse anche Craxi. Forse persino il reo Berlusconi, che perlomeno libri non ne scrive. Caso mai li pubblica.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 18 aprile 2014

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Ferruccio Sansa (Il Fatto, 7/4), che leggo sempre volentieri perché ogni tanto scantona dai temi della legalità e della politica che sono propri del nostro giornale, avendo letto, a Londra, su una grande lavagna la frase «Prima di morire vorrei...», riflette sulla vecchiaia, la morte, il tempo.

Nella mitologia greca Cronos, il padre degli dei, mangia i suoi figli. Cosa vuol dire questa metafora? Che il Tempo ci divora. E' il padrone ineluttabile delle nostre esistenze. («Vola il tempo, vola e va, ma forse più del tempo, che non ha età, siamo noi che ce ne andiamo»- De Andrè). Per rimuovere questo pensiero riempiamo la nostra vita di ogni sorta di cose, di azioni e di sentimenti (i quali, nella mia ottica, non sono che delle, non innocue, malattie psicosomatiche). Cerchiamo in tutti i modi di 'ammazzare il tempo'. Purtroppo è il Tempo che ammazza noi.

«Caro agli Dei è chi muore giovane» scrive Menadro. Quando ero ragazzo pensavo che fosse solo una bella battuta d'autore. Credo invece che contenga una cruda verità. La morte di Ayrton Senna, trentenne -quando, dopo vari preavvertimenti, si infila il casco, come il cavaliere medioevale si cala la celata, sapendo che va a morire, ma il suo orgoglio di campione non gli concede scelta- non è tragica, è epica, è una morte nella pienezza della salute, nello splendore della giovinezza. E' una morte in bellezza. La morte biologica, quella in genere del vecchio, con un corpo che si sta disfaccendo, ci fa orrore.

Ma forse ad essere baciati in fronte dagli Dei sono solo coloro che non sono mai nati. Perché una volta che ci sei entrato, nella vita, non hai più scampo. Non puoi evitare il torturante confronto col Tempo. E finché ci sei te la devi giocare questa partita.

Credo di aver fatto il giornalista nell'illusione di contrastare il Tempo, di allungarlo, di dilatarlo vivendo più vite coll'immergermi in quelle altrui. E ho distillato la mia con la studiata lentezza con cui si spillano le carte da poker, cercando di assaporarne ogni istante. E se ho sempre amato la notte è perché ha la qualità del tempo sospeso. Ma, naturalmente, non c'è stato niente da fare. Non si può contrastare il Tempo. Anzi più ti opponi più vola. E la sua velocità è inversamente proporzionale all'età. Quanti secoli ci abbiamo messo per uscire dall'infanzia? La giovinezza, pur essendo cronologicamente e quindi oggettivamente assai più lunga, passa molto più in fretta. Dopo i quaranta il tempo comincia a correre, passati i cinquanta precipita. E in vecchiaia accade una cosa bizzarra e straziante. La giornata, poiché siamo molto meno impegnati, è lunghissima, immersa in una noia mortale, non finisce mai, ma gli anni passano uno dietro l'altro («E' di nuovo Natale? Ma non è stato ieri?») a una velocità cosmica.

E' l' 'atra senectus', la cupa, buia, vecchiaia come la chiamavano i Latini più pragmatici, meno retorici e disposti a mentirsi addosso. 'Senectus ipsa est morvus', la vecchiaia è una malattia in sè dice Terenzio e Seneca aggiunge «e per giunta insanabile» («Vecchio è bello» è uno slogan moderno per convincerci ad essere ancora dei consumatori sia pur deboli, cui si accoppia l'altra mostruosità, quella della medicina tecnologica che vuole 'salvarci' a tutti i costi, ma lasciateci almeno morire in santa pace, perdio).

Tuttavia l'aspetto più drammatico della vecchiaia non è la decadenza fisica, ma l'impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale (a meno che uno non se ne renda conto, siano elevati inni all'ateriosclerosi). Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. «Basta che non ci debba mai mancare qualcosa da aspettare» canta il menestrello Jannacci. Ecco, ciò che manca alla vecchiaia è proprio «qualcosa da aspettare». Se non la morte.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2014

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E' ripreso dopo sette anni il processo ad Alberto Stasi assolto in primo e secondo grado dall'accusa di aver ucciso la fidanzata, Chiara Poggi, la mattina del 13 agosto 2007. La Cassazione ha infatti rinviato gli atti alla terza Corte d'Assise d'Appello di Milano perché riformuli il giudizio. Quello della Cassazione dovrebbe essere un mero controllo di legittimità, dovrebbe cioè verificare che il processo si è svolto secondo le forme previste dalla legge. Invece la Cassazione è entrata nel merito indicando otto punti in cui gli accertamenti dei giudici di primo e secondo grado non sono stati, a suo dire, convincenti. Il professor Angelo Giarda, difensore di Stasi, ha osservato: «E' stato rifatto il processo invece di parlare delle sole questioni di legittimità». Sono ormai anni che la Cassazione travalica i limiti della propria funzione. L'Italia è quindi l'unico Paese al mondo ad avere tre gradi di giudizio di merito (Gli altri hanno un giudizio di merito e l'altro di mera legalità. Stop). Ma, nel caso di Stasi, come in mille altri casi, la storia non finisce qui. La nuova sentenza della Corte d'Appello di Milano dovrà tornare al vaglio della Cassazione la quale, se non convinta, potrà rispedirla a un'altra Corte d'Appello il cui giudizio passerà sotto il controllo della Cassazione la quale, se non convinta, la rispedirà ad un'altra Corte d'Appello la cui sentenza dovrà essere nuovamente avallata dalla Cassazione e così via in un processo teoricamente all'infinito. Dico 'teoricamente' ma potrei dire praticamente. In Italia ci sono processi che si concludono dopo vent'anni, altri che rimangono aperti 'ad aeternum'. Si sta ancora indagando sulla strage di piazza Fontana del 1969, su quella di piazza della Loggia, a Brescia, del '74, sul delitto Moro del 1978 (Qualche tempo fa mi convocò in Questura, a Milano, un funzionario della Digos, l'ispettore Cacioppo, per interrogarmi sulla strage di Brescia. Quando si fu convinto che non ne ero l'autore nè il mandante e nemmeno un utile informatore gli dissi: «Ma possibile che un bravo ispettore come lei debba essere ancora applicato a delitti di 40 anni fa?»).

Nel nostro Paese bizantino ci si è dimenticati che la giustizia deve essere rapida e le pene certe. E che le due cose sono legate fra di loro. Il diritto non può avere la pretesa di arrivare a una Verità assoluta, che appartiene solo a Domeneddio, se mai esiste («Se c'è si è nascosto molto bene» ha detto Baudelaire), ma ha la funzione di mettere dei punti fermi nei rapporti, civili e penali, fra cittadini. Non si può restare vent'anni senza sapere se, dal punto di vista giudiziario, un cittadino è un criminale o un innocente. Perché se è innocente vuol dire tenere una persona sulla graticola per buona parte della sua vita, rovinandogliela, se è un criminale nel frattempo può commettere ogni sorta di delitti.

La pena non deve essere feroce nè, tantomeno, 'esemplare' com'è stata definita quella comminata a Luca Varani il vetrolieggiatore della sua ex fidanzata, perché nel nostro diritto, a differenza di quello inglese basato sulla 'common law', la magistratura non fa le leggi deve solo giudicare, di volta in volta, su un caso concreto. Le pene, eque, devono essere certe. In Italia non c'è nulla di più incerto della pena. Quante volte abbiamo sentito di pregiudicati che hanno commesso un delitto? Ma non dovrebbero essere al gabbio? Invece grazie a indulti, amnistie, sconti, benefici vari sono a piede libero. Questo per la micro e media criminalità. In quanto ai politici criminali e ai criminali finanziari per loro vige, come per i nobili dell'ancien régime, un diritto particolare. Ce n'è addirittura uno che viene ricevuto in pompa magna al Quirinale.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 11 aprile 2014