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C'è un aneddoto su Indro Montanelli che mi riservavo di raccontare quando il grande vecchio del giornalismo italiano fosse passato, come suol dirsi, a miglior vita. Ma poiché, passando gli anni, m'è sorto il sospetto che il vecchio Indro ci seppellirà tutti, compresi noi che rispetto a lui siamo neanche dei figli ma dei nipoti ( «io sono il vostro nonno» dice con voce cavernosa), mi affretto a farlo ora. Un solare maggio di tre anni fa mi trovai con Montanelli, sua nipote, Letizia Moizzi, che amorevolmente gli fa un po' da chaperon e un po' da balia, e la mia affascinante e bizzosa fidanzata di allora, Mariella Salati, a colazione all'Assassino, nel centro di Milano. Mariella e io eravamo arrivati in anticipo all'appuntamento e sedevamo al tavolo riservato  in attesa di Indro. Quando lo vedemmo entrare, un po'  curvo, col bastone e gli occhiali scuri, ci parve che dimostrasse tutta l'età che ha. Ma bastò che si sedesse a tavola  perché ci dimenticassimo di avere di fronte un uomo di quasi novant'anni. La sua conversazione, ricca di brio, di humour, di aneddoti raccontati modulando la voce e i toni e cambiando l'espressione del viso a seconda dei personaggi che vi faceva di volta in volta intervenire (Indro è un grande attore), era spumeggiante e a tratti irresistibile. Mariella, che lo incontrava per la prima volta, e che in genere detesta i giornalisti, ne era letteralmente sedotta. Io, che pur conosco il mio pollo e certi suoi trucchetti un po' paraculi, pure. Anche se Montanelli, «il nonno», mi intimidisce sempre (a differenza di Biagi, «lo zio», e di Bocca, «il fratello maggiore» di cui anzi, in altri anni, sono stato buon amico) e a malapena riesco a dargli del tu, mi piace sfruculiarlo un poco e inzigarlo. Per esempio parlandogli, con ammirazione, di Curzio Malaparte che Indro detesta con tutta l'anima e che non vorrebbe quasi sentir nominare. Nonostante siano passati più di quarant'anni dalla morte di Curzio fra i due sono rimaste in sospeso vecchie ruggini, non sopiti rancori, antiche rivalità fra «primedonne». Quando Malaparte, malato di tumore, giaceva, ormai moribondo, sul letto della clinica Sanatrix ( dove andarono a trovarlo tutti, da Togliatti, che pur aveva in orrore gli ospedali, a padre Virginio Rotondi, per catturarne, ciascuno a modo suo, l'anima), teneva sul davanzale della finestra gli idoli di tutte le religioni, da Cri- sto al Buddha ai santoni Zen, sperando che facessero il miracolo di tirarlo fuori dal cancro, «lo stramaledetto» come lo chiamava lui. Gli pareva impossibile, come mi raccontò Arturo Tofanelli (altro grande, ingiustamente dimenticato), «che Dio fosse così stupido da far morire Malaparte». Ma una cosa, più di tutte, lo tormentava: «Non posso» gridava «morire prima di Montanelli!» (in questo senso aveva proprio sbagliato avversario). Anche in quella colazione all'Assassino avevo quindi tirato fuori Malaparte. E lndro, come sempre, aveva subito replicato che era una spia del regime, un venduto, un mascalzone, un avventuriero, uno che si era inventato d'esser toscano mentre invece era tedesco, un grande cialtrone. Lo zittii. Poco dopo, proseguendo la conversazione, Indro si vantò di aver intervistato tutti i personaggi importanti della sua epoca. «Mi mancano solo Stalin e Mao». E io, malignamente: «Però Malaparte li ha intervistati». Al che Indro disse immediatamente che non era vero. «Ma io quelle interviste le ho lette» replicai. «Se l'è inventate» troncò lui. Passò qualche minuto, eravamo ormai al caffè, e Indro  dichiarò di aver intervistato Adolf Hitler. E cominciò uno stupefacente racconto. Il giorno, secondo certi calcoli, dell'invasione della Polonia lui, Montanelli, si trovava, unico giornalista italiano in mezzo ad altri colleghi stranieri, su un certo ponte di una certa città dove sarebbe dovuto passare necessariamente il comando tedesco. E infatti arrivano. Hitler è in piedi su un carro armato vestito da soldato semplice, decorato della sola croce di ferro (e questo, credo, è il  solo particolare veritiero del racconto), vede Montanelli,  scende dal blindato e punta dritto proprio su di lui. La ragione di questo singolare comportamento risiederebbe, secondo Montanelli, nel fatto che in quel momento il  Fuhrer sperava ancora in un intervento dell'ltalia a fianco della Germania e quindi gli serviva un giornalista italiano per lanciare un messaggio a Mussolini. «Naturalmente fu un monologo» si schermì con noi Indro, rifacendo la voce abbaiante di Hitler. «lo non riuscii a piazzare nemmeno una parola. Dopo venti minuti di arringa Hitler girò i tacchi e  risalì sul carro armato». Naturalmente restava da spiegare come mai questa eccezionale intervista, sia pur monologante, non fosse mai uscita. Montanelli raccontò che ci fu un intervento del ministero della Propaganda tedesco sul Minculpop -le interviste al supremo Fuhrer del Terzo Reich erano infatti proibitissime -per cui non se ne fece nulla. Come un bambino. Piccato per quella storia di Malaparte, Stalin e Mao, Montanelli aveva sentito il bisogno di inventarsi un'intervista ad Adolf Hitler, il massimo dei massimi, che metteva a tacere definitivamente l'odiato rivale di sempre. Mentre Indro narrava io guardavo di sottecchi Mariella che, beata, si beveva la fiaba (Letizia no, credo che ci sia abituata). Ed ebbi un moto di tenerezza per il vecchio lndro. Uno che a novant'anni sa conservarsi così infantile è un grand'uomo. E forse il segreto della sua  straordinaria vitalità e freschezza sta proprio in questo miscuglio di infantilismo e di narcisismo. Noi siamo dei bambini invecchiati, Montanelli è un vecchio bambino.