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Credo di avere incontrato la prima volta Massimo Pini alla festa per i diciott'anni di Stefania Craxi. Dev' essere stato quindi una quindicina di anni fa. Sedeva al tavolo di Bettino, fra gli amici intimi che allora erano ancora amici veri e non la pletora di parassiti e di arrivisti che sarebbe concresciuta di pari passo con la fortuna del leader socialista. Pini infatti, con Martelli, con Natali, con Tognoli, con lntini, con Finetti, con Gangi e, ovviamente, con lo stesso Craxi, ha fatto parte fin dalla primissima ora di quel nucleo duro di socialisti “autonomisti” milanesi che, dopo anni di minoranza nel Psi dei Mancini e dei De Martino, si sarebbe impadronita del partito e poi di una buona fetta del Paese. Era la famosa “pattuglia di mischie “. Di Craxi Massimo Pini (come del resto la sua prima moglie, Margherita Boniver,  poi elevata dal sistema di potere del Psi fino al rango di ministro ) è stato, oltre che un fedelissimo, un amico autentico e credo lo sia rimasto. Come credo che il suo socialismo si fermasse lì: all' amicizia con Craxi. Perché di ideali politici Pini non ne ha avuti mai. E anche così si spiega, caduta la Prima Repubblica e Craxi con essa, il suo avvicinamento ad Alleanza nazionale, cosa che ad un socialista dovrebbe pur causare qualche turbamento. Ma Pini non era, e non è, tipo da fermarsi a simili dettagli. È sempre stato un uomo di clan. E come tale faziosissimo, forse il più fazioso di quella pur faziosissima “pattuglia di mischie”. Divideva il mondo (viene spontaneo parlarne al passato perché, effettivamente, è un cadavere politico della Prima Repubblica) in amici e nemici. Fra questi c' erano, in primissima fila, i comunisti. In fondo tutto l' autonomismo socialista milanese si è compattato su un valore negativo, per sottrazione: l' anticomunismo viscerale. Che cos' altro infatti poteva unire, poniamo, un Ugo Intini ad un Massimo Pini? Idealista, disinteressato, ingenuo fino al candore, il primo, amorale fino al cinismo conclamato, e assunto come bal1diera, il secondo. Una volta, non mi ricordo più a quale convegno, Pini mi aggredì verbalmente perché sul Lavoro di Genova avevo scritto un pezzo contro Kissinger. Gli feci notare che Kissinger era l' artefice del colpo di Stato americano che aveva abbattuto l' esperienza socialista cilena e costretto al suicidio Salvador Allende. Non fece una piega. Gli ricordai allora una mia intervista, di qualche anno prima, a Bettino Craxi quando, giovane deputato socialista, si era recato con una delegazione di parlamentari italiani nel Cile di Pinochet ed era rimasto sconvolto da ciò che vi aveva visto e da quello che gli avevano raccontato: gli oppositori ammassati come bestie allo stadio di Santiago, il pianista al quale avevano frantumato le mani, come al Paul Newman dello Spaccone. Ma nemmeno questo lo commosse. Stava pubblicando, per SugarCo, la sua casa editrice, le memorie di Kissinger e tanto bastava. Poi si fece più amichevole, più insinuante: «Perche hai preso così di punta noi socialisti? Sbagli. Vieni con noi. È una partita. Se vinciamo ci sarà potere, posti e gloria per tutti. Anche per te». Gli risposi che non era in questo modo che intendevo il socialismo e tantomeno la vita. Nonostante questo non posso dire, onestamente, che Pini mi fosse antipatico e credo che la cosa fosse reciproca. Forse era la consueta attrazione degli opposti: mi incuriosivano il suo amoralismo, il suo cinismo, la sua spregiudicatezza o, forse, più semplicemente, mi piaceva il suo parlar chiaro, la sua arroganza spudorata ma autopericolosa, il suo esporsi. Rompemmo definitivamente sulla vicenda Tobagi. Craxi si era messo in testa, del tutto cervelloticamente, che ci fossero dei mandanti di questo delitto e che andassero ricercati Ira i giornalisti milanesi, comunisti naturalmente. E, per questo, attaccava i giudici di Milano con la stessa virulenza con cui oggi Vittorio Sgarbi aggredisce i magistrati di Mani Pulite, solo che Craxi non era Sgarbi e l'impatto delle sue accuse ed insinuazioni era ben altro. Io, sull'Europeo e sul Giorno, scrivevo che le accuse di Craxi non avevano alcun fondamento e che il leader socialista cercava semplicemente di strumentalizzare una vicenda così tragica e dolorosa a fini politici. Ma persi la calma quando Andrea Pamparana fece per il Tg5, allora completamente sdraiato, via Berlusconi,  ai voleri craxiani, un' inchiesta sul “caso Tobagi” sentendo solo voci socialiste, fra cui Pini. Scrissi sull' Europeo che i socialisti, con un' operazione macabra che era stata fino allora propria solo dei comunisti, si erano appropriati del cadavere di Tobagi, che avevano fatto di Tobagi morto un santino socialista molto più di quanto non lo fosse da vivo. Pini si risentì e scrisse all'Europeo una lettera invelenita e rancorosa. Da allora non l'ho più visto né sentito. Anche se la quasi omonimia con Massimo Pini ha continuato a inseguirmi per molto tempo. Quante volte ho ricevuto lettere di gente che mi diceva: “Sì sì, lei fa tanto il moralista ma intanto è consigliere di amministrazione della Rai” oppure “Che ci fa lei all'lri?”. Adesso apprendo che il mio quasi omonimo è stato arrestato per le solite vicende corruttorie di Tangentopoli. La cosa non mi sorprende, né mi meraviglia. E, devo dire, non provo per Massimo Pini alcun sentimento di pena. La sua filosofia di vita è quella che è stata ben riportata da Filippo Ceccarelli nel bel ritratto che ne ha fatto per la Stampa: “lo sono per l' assalto, amo il rischio, cerco la lotta”. Bene, se lui è davvero per queste cose deve anche accettare la sconfitta. E del resto Massimo Pini quando era in auge e in sella al potere, non ha mai avuto alcuna pietà per i vinti. Ciò ci consente oggi, che è caduto nell'ignominia e nella vergogna, di non averne alcuna per lui.