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Tutto ha avuto inizio il 3 luglio 2013 quando il generale Abd al-Fattah al-Sisi prese il potere in Egitto con un colpo di Stato militare deponendo e mettendo in galera la dirigenza dei Fratelli Musulmani, a cominciare dal presidente allora in carica, l’avvocato Mohamed Morsi, che avevano vinto, con tutti i crismi della legalità, le prime elezioni democratiche di quel Paese dopo decenni di dittatura. Che colpe avevano i Fratelli, una formazione sostanzialmente moderata che comprendeva tutte le componenti del variegato universo islamico? Avevano governato dispoticamente, incarcerato, torturato e ucciso gli oppositori, varato leggi liberticide? Niente di tutto questo. L’accusa che venne mossa, dopo solo un anno e mezzo di governo, era la loro inefficienza (è la stessa accusa , se non si passasse dalla tragedia alla farsa, che oggi viene mossa in Italia ai ‘grillini’ insieme a quella di essere ‘eversivi’). Tutto quello che non avevano fatto i Fratelli lo ha fatto al-Sisi, incarcerando e condannando a morte o all’ergastolo Morsi e i suoi dirigenti, assassinando 2.500 oppositori e facendone sparire altri 2.500 di cui ci siamo accorti solo quando da questa sanguinaria voragine è stato inghiottito Giulio Regeni. Cifre precise ma abbondantemente in difetto perché al-Sisi, fra un omicidio e l’altro, ha abolito anche tutte le libertà civili a cominciare, ovviamente, da quella di stampa. Eppure tutto il libero e democratico Occidente ha appoggiato il ‘golpe’ di al-Sisi (come fece quando la stessa sorte dei Fratelli era toccata nel 1991al Fis algerino) e continua ad appoggiarlo e persino Papa Francesco, tanto prodigo di parole buone quanto prive di consistenza, è andato a stringere le mani lorde di sangue del generale tagliagole.

Era inevitabile che dopo una simile ‘lezioncina democratica’ una parte dei Fratelli Musulmani, anche di chi in origine non era integralista, si appoggiasse all’Isis visto come l’unico baluardo non solo contro le violenze di al-Sisi ma anche contro l’arroganza e la prepotenza dell’Occidente che lo appoggiava. Diecimila egiziani sono andati a combattere con l’Isis in Libia (Sirte), in Iraq (Mosul e Raqqa), in Siria (Aleppo e dintorni). Altri hanno preso possesso delle aree beduine del Sinai, laiche o sufi, tendenzialmente autonome dal potere centrale. Non tragga in inganno che nell’attacco alla moschea di Al Rawda, portato con modalità tali da far supporre l’esistenza, alle spalle, di una solida organizzazione, buona parte delle 305 vittime fossero sufi. Certamente la scelta dell’obbiettivo fa parte della lotta interreligiosa che si è accesa nel mondo musulmano, ma è dovuta anche al fatto che i sufi, spirituali e docili, si erano allineati al governo di al-Sisi e quindi, indirettamente, all’Occidente.

Adesso al-Sisi promette una terribile “vendetta” (un governo democratico non promette ‘vendetta’ ma giustizia). Frederic Wehrey, esperto del Carnegie Endowment for International Peace, ha ammonito di “non dare carta bianca al regime”. E per la verità solo l’ondivago Donald Trump ha recentemente bloccato gli aiuti, per circa 300 milioni, all’Egitto di al-Sisi.

Il Jihad in Egitto è solo uno spicchio dello jihadismo internazionale che noi occidentali abbiamo in parte creato o favorito con i nostri errori (e orrori): in Somalia dove abbiamo imposto un governo fantoccio al posto degli Shabab che avevano sconfitto i ‘signori della guerra’ locali, e gli Shabab si sono alleati all’Isis; nel nord del Mali dove ai colonialisti francesi è venuta la buona idea di imporsi con la violenza ai beduini, laici, e i beduini, come è avvenuto in Egitto, hanno finito per appoggiarsi e integrarsi con gli jihadisti del posto, sino ad allora marginali; in Afghanistan dove ci ostiniamo a martellare i Talebani, i soli in grado di opporsi all’Isis poiché l’esercito ‘regolare’ è troppo debole e demotivato. In altre aree, Nigeria (Boko Haram), Pakistan, Tunisia, Algeria, Marocco, Cecenia il Jihad è nata spontaneamente ma ha comunque come punto di riferimento lo Stato islamico, anche se apparentemente distrutto, e il suo Califfo.

Ma al fondo di tutto questo c’è la globalizzazione che ha creato una spaventosa frattura fra Paesi poveri e Paesi ricchi e anche all’interno di questi ultimi. Prendiamo, per esempio, il Marocco, ben governato fin dai tempi di Hassan II. Il Marocco non è mai stato un Paese ricco ma la gente non vi è mai morta di fame. Oggi invece in Marocco la fame c’è, e ha notevoli dimensioni, se è vero che il 20 novembre 15 donne sono morte nella calca durante una distribuzione di farina a Sidi Boulaalam, nella regione di Essaouira, nel sudovest del paese.

Da tempo la fame si è affacciata anche in molti paesi occidentali, Italia compresa. E il Jihad potrebbe fare da collante fra gli ultimi del Terzo Mondo e quelli del Primo. E allora non sarà più una questione di polizia.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2017