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“Caro Massimo,

ho cercato tra i volti delle tue età e subito ti ho riconosciuto e ricordato in una mattina del ’78, presso la redazione dell’Europeo su cui scrivevi Motivo: il confronto con un Camon arrabbiatissimo che ce l’aveva con l’’Albero degli zoccoli’.

Da quella volta, siamo diventati amici e in tutti questi anni non è mai venuta meno la salda stima delle ‘affinità elettive’.

Grazie dunque di non avermi dimenticato anche in questa occasione: un nuovo libro è un po’ come un nuovo bambino che c’è in noi e vuole essere riconosciuto. Mi terrà buona compagnia.

Specialmente adesso, che per me sono cominciati i tempi della sofferenza senza ritorno. Malattie subdole, diaboliche che cercano le loro vittime ignare e sprovvedute d’ogni difesa.

Così è andata e così sarà per i prossimi giorni.

Ti abbraccio

Ermanno”

(Asiago, 16 febbraio 2015)

Questa è l’ultima lettera che ho ricevuto da Ermanno Olmi. Seguiva un lunghissimo silenzio. Gli avevo mandato la mia autobiografia che in copertina ha le immagini delle varie fasi della mia vita, da me piccolissimo all’atras senectus che lui, ormai più che ottantenne, stava vivendo nelle condizioni più difficili e direi atroci. E’ da quelle fotografie che Olmi mi aveva “riconosciuto”, come scrive nella lettera, non in un senso banalmente fisico, da uomo anche d’immagine, ma spirituale.

Ero andato a vedere Il posto, il suo primo, vero film (in seguito sarebbero arrivati i due grandi capolavori, L’albero degli zoccoli e Il mestiere delle armi) in un cine di ‘terza’ a Milano. Era il 1961. Avevo 17 anni. L’atmosfera del film, ambientato in un grande luogo di lavoro abitato da impiegati, è di una malinconia dolce, delicata (come delicato è il rapporto tra i due ragazzi) e insieme dolorosa che culmina nella festa aziendale “con ricchi premi e cotillon”. Quell’atmosfera l’avrei ritrovata otto anni dopo, nel 1969, quando entrai come impiegato di seconda alla Pirelli. Ma nella realtà l’atmosfera aziendale era molto più vicina alla crudeltà dei film di Paolo Villaggio. Mi ricordo la scena della festa per gli “anziani Pirelli”, gente che aveva lavorato in azienda per quarant’anni e che si faceva docilmente seppellire.

Il primo incontro con Ermanno Olmi, come lui ricorda, avvenne all’Europeo in un confronto con un altro cattolico, sia pur a sua volta molto singolare, Ferdinando Camon. Ma mi riesce difficile definire Olmi ‘cattolico’. Dei cattolici non ha la crudeltà, che è di un altro regista, anch’egli mio amico, Pupi Avati o, per salire ai piani più alti, del Manzoni (il lettore ricorderà forse la lunga agonia di Don Rodrigo da quando esce dalla festa con i suoi pari, premonendo, nella sua mente alterata dall’ubriachezza, i sintomi della peste e finisce nel modo più miserabile al lazzaretto). Olmi lo assimilo molto di più all’Idiota di Dostoevskij o ad Alioscia uno dei fratelli Karamazov. Ermanno non è cattolico e forse nemmeno religioso, è qualcosa di molto di più: è spirituale.

Dopo quell’incontro all’Europeo divenimmo amici. Andavo a trovarlo ad Asiago dove viveva con la moglie Loredana Detto, incontrata sul set de Il posto, e il figlio allora poco più che adolescente. Ma la cosa durò pochi anni. Nel 1981 Olmi fu colpito da una malattia cui oggi si saprebbe probabilmente dare un nome ma che allora appariva misteriosa: la pellicola che ricopre i nervi si ritirava gradualmente scoprendoli e paralizzandolo. Si arrestò, alla fine, prima di attaccare i centri nervosi nevralgici ma lui ne uscì gravemente menomato. La malattia per lui non era un cattolico ‘dono di Dio’ per espiare e riscattare chissà quale colpa o un terreno esistenziale fecondo come per Nietzsche. Era sofferenza e basta, “diabolica” come la chiama nella lettera. Da allora non lo cercai più. Mi pareva una indelicatezza vederlo in quelle condizioni. Ma evidentemente un filo sottile mi legava a lui. Lo seguivo attraverso i suoi film. Olmi aveva sicuramente nostalgia del mondo contadino o, per essere più precisi, di un mondo più semplice. Lo conferma una cartolina che mi inviò pochi giorni dopo quella lettera. Dice: “Giuseppe Verdi raccomandava: ‘torniamo all’antico sarà un vero progresso’”. Ma Olmi non era nel suo essere un radicale e tantomeno un intellettuale, nulla di più lontano da lui. Conosceva o riconosceva le durezze del mondo contadino. Nell’Albero degli zoccoli c’è una scena estremamente significativa quando si ammala la mucca e il contadino entra in uno stato di disperazione, come e forse più se si trattasse di un figlio, perché la morte della mucca vuol dire la rovina.

Nel Mestiere delle armi la scena cruciale, almeno secondo me, è quando Giovanni delle Bande Nere, un uomo coraggioso, forte, con un grande senso della propria dignità, si cala la celata e a cavallo si avventa contro i nemici. Ma è stato inventato il fucile, Giovanni è ferito gravemente, gli si dovrà amputare una gamba. E’ finito. Come finisce in quel momento, simbolicamente e concretamente, un’epoca, l’epoca della cavalleria per avventurarsi in un’altra, la nostra, dove coraggio, forza, fisica e morale, dignità, i valori preideologici, prepolitici, prereligiosi non contano più nulla sostituiti da droni e, più in generale nella vita civile, dalle macchine.

Io non riesco a considerare Ermanno Olmi semplicemente un regista anche se era quel grande regista di cui oggi tutti van scrivendo. Era qualcosa di più, di molto di più. Era un uomo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2018