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Sulla questione della nave Acquarius Salvini ha ragione nella sostanza, ma un grave torto nella forma e crediamo non innocente. Ha ragione perché è un messaggio forte alla Ue perché vengano finalmente sancite e imposte, con leggi europee, le quote di migranti di cui ogni Paese del Vecchio continente deve farsi carico. Ha torto nella forma perché non si può all’improvviso fermare una nave con più di 600 migranti il cui recupero era stato coordinato dal centro di Roma, come ha obbiettato il governo maltese per giustificare il diniego dell’approdo nei suoi porti. Lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere mandando una nota preventiva a Bruxelles più o meno di questo tenore: d’ora in poi non accoglieremo più le navi o i barconi dei migranti finché l’Unione europea non avrà stabilito, con una legge valida per tutti i Paesi della stessa unione, un’equa ripartizione. In questo modo chiunque avesse voluto approdare con un carico di migranti in un porto italiano sarebbe stato avvertito che non era cosa. Poiché, come diceva quello, “a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre” Salvini ha giocato cinicamente, per motivi propagandistici, sulla pelle di questi disperati. Bastava, ripeto, invertire i tempi: prima l’avvertimento alla Ue e poi la chiusura delle frontiere.

Detto questo due osservazioni. Una di portata interna l’altra più generale e drammatica.

1) I sindaci dem di Palermo e Messina, per fare le ‘anime belle’, si sono dichiarati disponibili ad accogliere l’Acquarius. Non sta né in cielo né in terra che dei sindaci possano andar contro una decisione del Ministro degli Interni, cioè dello Stato italiano di cui fan parte.

2) Purtroppo, se alziamo un po’ lo sguardo, la questione delle migrazioni verso l’Europa in particolare l’Italia sembra irrisolvibile. L’80% di questi migranti non arrivano da guerre, che prima o poi finiranno, ma dall’Africa subsahariana cioè da quella che un tempo chiamavamo Africa Nera. Non cercano approdo in Europa perché attratti dalle bellurie del modello occidentale, come fu per la prima migrazione albanese (gli albanesi vedevano la Tv italiana e immaginavano il nostro come il paese di Bengodi). Vengono per fame. Perché la loro economia, autoproduzione e autoconsumo, oltre che la loro socialità, è stata distrutta dall’introduzione in quelle terre del nostro modello di sviluppo. In genere si crede nell’ignoranza generale che l’Africa Nera sia sempre stata alla fame. Non è così. Agli inizi del Novecento, l’Africa Nera era totalmente autosufficiente dal punto di vista alimentare. Lo era ancora, sostanzialmente, (al 98%) nel 1961. Ma da quando ha cominciato a essere aggredita dall’integrazione economica occidentale –prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante- le cose sono precipitate. L’autosufficienza alimentare è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978 (P.N. Bradley, Produzione e distribuzione degli alimenti: la fame nel mondo in Geografia di un mondo in crisi, Franco Angeli, 1992). Per sapere come stanno le cose oggi, anno 2018, basta osservare, appunto, la fiumana di emigranti che tanto ci preoccupa. Ma quello che vediamo oggi non è che un pallido fantasma di ciò che vedremo domani. L’integrazione globale in Africa non fa che aumentare (adesso ci si sono messi anche i cinesi) e quindi non può che aumentare anche la fame. Per questo la posizione dell’”aiutiamoli a casa loro” è ipocrita e priva di senso. Perché più li “aiutiamo”, più li vincoliamo al nostro modello e li strangoliamo, riducendoli da poveri a miserabili. Ora, gli abitanti dell’Africa subsahariana sono 720 milioni (lasciando da parte il Sudafrica che fa caso a sé). Basta che una quota rilevante di questa gente, spinta dalla fame, cerchi la salvezza presso noi europei e non ci sarà chiusura delle frontiere che tenga. Non basteranno a far guardia le navi da guerra, i cannoni o qualsiasi altra misura. Saremo sommersi.

Chi dice, fra la gente comune e anche fra i politici (per esempio Giorgia Meloni) “via gli africani dall’Europa, ognuno deve restare a casa propria” avrebbe ragione se aggiungesse che anche noi avremmo dovuto restare a casa nostra e non invadere l’Africa Nera e i Paesi che con ipocrisia e drammatica ironia chiamiamo “in via di sviluppo ”, con le nostre industrie, con le nostre aziende, con i nostri “aiuti” pelosi e anche non pelosi, insomma col nostro modello di vita. Chi è causa del suo mal, oltre che di quello altrui, pianga se stesso.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2018