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Il mio amico Franco Nerozzi dirige una onlus, Popoli, che si occupa dei Karen una consistente minoranza, 4.000.000, che vive nel Myanmar, ex Birmania, ed è sempre stata vessata nel modo più brutale dalla dittatura militare birmana. Nerozzi fa la spola fra Verona, dove abita, e il territorio dove vivono i Karen. Poiché è un ragazzo intelligente, che ha viaggiato molto e conosce il mondo, non ha nessuna intenzione di modificare la cultura, la socialità, i costumi dei Karen e tantomeno di educarli alla democrazia. Si limita a proteggere, come può, i Karen dalle prepotenze e le violenze del governo birmano. Pochi mesi dopo che la democratica e Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi assunse di fatto il ruolo di presidente del Myanmar chiesi a Nerozzi: “Allora, come va adesso per i tuoi Karen, è migliorata la situazione?”. “No. E’ peggiorata e di molto” rispose. Naturalmente dei Karen non importa niente a nessuno, ma non poteva sfuggire all’attenzione della comunità internazionale la brutale repressione che la democratica e Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi ha praticato su un’altra minoranza in Myanmar quella dei Rohingya, musulmani, che sono (ma adesso dobbiamo dire erano) un milione. L’altro giorno l’Onu ha certificato con un lungo e documentato rapporto questa repressione: 700.000 Rohingya han dovuto cercare rifugio in Bangladesh e poiché il Bangladesh è uno dei paesi più poveri del mondo si può immaginare quale accoglienza gli abbia potuto riservare . Poi c’è il consueto corollario dei villaggi bruciati, degli assassinii, degli stupri di massa.

Nei suoi cento anni di vita e passa il Nobel per la Pace, che peraltro si trasforma quasi sempre in una dichiarazione di guerra da parte degli stati che non lo condividono (perché questo Nobel non è dato tanto per qualcuno ma soprattutto contro qualcun altro) non ha quasi mai azzeccato un colpo, se si esclude il caso di Anwar El Sadat che però dovette condividerlo con il terrorista sionista Begin (attentato del 1946 all’Hotel King David di Gerusalemme, 91 morti).

Adesso si pensa di trascinare San Suu Kyi e i militari birmani davanti al Tribunale internazionale penale dell’Aja per “crimini di guerra”. Intanto la cosa non è possibile perché il Myanmar o Birmania che dir si voglia non ha firmato il Trattato che lo istituisce. Ma è la stessa concezione di un Tribunale penale “per crimini di guerra” (dal quale tra l’altro gli americani si sono autoesclusi, loro “crimini di guerra” non ne commettono) che è tutt’altro che convincente. Perché, con buona pace di Carla Dal Ponte che ne è stata Procuratore generale, sono i tribunali che i vincitori istituiscono contro i vinti e che hanno il loro precedente nel processo di Norimberga. Dove, per la prima volta nella Storia, i vincitori non si accontentarono di essere più forti dei vinti ma pretesero anche di esserne moralmente migliori. La storia successiva, con quello che hanno combinato americani, russi, inglesi, francesi, si incaricherà di dimostrare che i vincitori non erano poi così migliori dei vinti ma forse, chissà, un tantino peggiori. Chi porterà mai davanti a un tribunale di questo genere Sarkozy, Obama e quel coglione di Berlusconi che, senza giustificazione alcuna, nel 2011 hanno aggredito la Libia, assassinato Gheddafi e, per non farsi mancar nulla anche i suoi nipotini creando la situazione drammatica che oggi è sotto gli occhi si tutti?

Invece di anfanare su improbabili processi il Comitato norvegese farebbe meglio a essere un po’ più cauto nell’assegnazione dei Nobel per la Pace. Nel 2009, appena eletto, è stato dato ‘a prescindere’ a quello pseudonero e pseudodemocratico di Barack Obama e questo insigne Premio Nobel per la Pace è stato complice dei francesi nell’aggredire la Libia e continua a occupare con le sue truppe omicide l’Afghanistan.

Dipendesse da me il Nobel per la Pace lo abolirei o lo ficcherei “su per il bucio del culo” (elegante espressione romagnola) a chi lo dà e a chi lo riceve.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2018