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L'altro giorno un mio amico, tifoso della Beneamata, mi diceva: «Stavo guardando una partita in tivù e c'erano delle maglie nerazzurre, ma non capivo che squadra fosse perché non riconoscevo nemmeno un giocatore, poi in panchina ho visto lo zio, Bergomi, e ho capito che era l'Inter». Milan e Inter hanno, mi pare, 13 stranieri a testa e in tutto ce ne sono circa un centinaio, provenienti da tutte le parti del mondo, anche dalla Sierra Leone e dal Senegal. Nell'immediato, quest'invasione è una conseguenza della nota «sentenza Bosman», ma le radici affondano molto più lontano. È da almeno una quindicina d'anni che il calcio europeo, e quello italiano in particolare, ha imboccato decisamente la strada dello show- business di tipo americano. È una via che lo porterà all'estinzione, anche se ci vorrà qualche tempo. Infatti diversamente dagli sport americani il calcio, nato in Europa, prima di essere business, spettacolo, gioco, prima addirittura di essere sport è un rito, come nella Grecia classica lo erano i Giochi olimpici o delfici o pitici. Poiché è innanzitutto un rito, il calcio è legato a motivi mitici, simbolici, sentimentali, emotivi, irrazionali. Che sono quelli che lo show-business sta spazzando via dai campi di gioco. Non solo non esistono più giocatori-bandiera, non esistono giocatori che possono essere identificati, per più di un anno o due, con una squadra, coinvolti in un tourbillon di trasferimenti e di affari. Restano le maglie, ma da sole, non bastano. Undici giocatori di colore o, perché non ci si accusi di razzismo, 11 tedeschi che indossano le maglie rossonere non sarebbero più il Milan, ma una sorta di Harlem Globetrotters che hanno certamente a che fare con lo spettacolo e gli affari ma non con lo sport e tantomeno con la ritualità, la simbologia, il processo di identificazione che han fatto del calcio la grande passione di alcune generazioni di uomini (maschi). Bisogna dire che Berlusconi, uomo nefasto ovunque metta lo zampino, una specie di Mida alla rovescia, ha dato una grossa spinta a questa razionalizzazione estrema del calcio nel senso dello show-business e della rappresentanza di motivi e di interessi che col calcio non hanno nulla a che vedere. (E non mi si accusi di essere prevenuto, lo scrissi subito, nell'86, in tempi non sospetti: «O il calcio distruggerà Berlusconi o Berlusconi distruggerà il calcio»). È stato Berlusconi a dire: «Il Milan vince perché adotta la filosofia Fininvest». Da anni il Milan non è più una squadra di calcio di Milano, ma il settore pubblicitario trainante della Fininvest. Se lo cercate sull 'elenco telefonico non lo trovate sotto Milan ma alla voce Fininvest (o Mediaset). E il Cavaliere ha completato l'inquinamento mischiando calcio e politica, per cui uno non sa più se sta tifando per il Milan o per le fortune parlamentari dell'onorevole Berlusconi. Naturalmente molte altre società hanno seguito a ruota. Ma quando il tifoso si renderà conto che in campo non ci sono più il Milan, la Juve, il Parma, la Roma, la Lazio ma Mediaset, la Fiat, la Parmalat, la Cirio e i loro interessi aziendali, economici, e financo politici smetterà di andare allo stadio. Perché si entra nel cerchio magico dello stadio (come del casinò o dell'ippodromo o di qualsiasi altro gioco) proprio per lasciarsi alle spalle l'economia, la politica e tutto quanto già funesta il nostro quotidiano. Del resto è dal 1980, anno della riapertura agli stranieri, che il calcio sta perdendo presenze allo stadio, che sono calate del 30 per cento. Perchè il tifoso autentico non va allo stadio per vedere Maradona e Platini o, oggi, Ronaldo e Weah, ma per identificarsi in una maglia, in un colore, in un simbolo, in un sentimento, in una tradizione, in una storia (del resto per tanti anni il calcio è stato molto seguito per radio dove non era certo questione di spettacolo )Il calcio si avvia a diventare uno spettacolo puramente televisivo, deprivato di tutti i suoi elementi rituali, simbolici, sentimentali, irrazionali. Continuerà ancora per un po', proprio in virtù dell'apporto della tivù, a essere un gigantesco business. Ma poi, spogliato dall'apporto del tifoso, sostituito da un telespettatore indifferenziato (donne persino), finirà per confondersi con una qualsiasi Domenica in. A questo punto gli apprendisti stregoni avranno ucciso la gallina dalle uova d'oro. Per intanto il calcio ha già perso la sua fondamentale funzione sociale di sport nazional-popolare, unificante, interclassista, che vedeva insieme allo stadio, gomito a gomito, l'imprenditore e il suo operaio, il borghese e il proletario. Al contrario oggi il calcio, fra politica degli abbonamenti, prezzi altissimi, confinamento del tifoso povero nelle «fosse» dietro le porte, e sua degradazione a teppista, partite decrittate e Pay per view, è diventato uno strumento di discriminazione classista. «Gli Dei fanno impazzire coloro che vogliono perdere». Il calcio era rimasto forse l 'ultimo elemento unificante di quest'Italia, da Nord a Sud. Sono riusciti a rovinare anche quello. Vorrà dire che faremo un campionato padano (Milan e Inter vadano a giocare nello Zimbabwe o in qualche torneo interstellare), certamente più povero, più modesto, meno spettacolare ma tanto più ricco di campanile, di pathos, di comunanza. Qualcosa che sia il più lontano possibile da questo isterico volgare intruglio affaristico-televisivo e ritorni ad essere quella bella festa domenicale, fatta di passione e di bonari sfottò, che il calcio è sempre stato.