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L'incontro che, accompagnato da Henry Kissinger, Renato Ruggiero, ex direttore generale del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), ha avuto con Silvio Berlusconi e quello immediatamente successivo, e sia pur formale, con Carlo Azeglio Ciampi, hanno fatto salire vertiginosamente la quotazione dello stesso Ruggiero come prossimo ministro degli Esteri del governo della Casa delle Libertà. Con grandi malumori fra gli alleati del Cavaliere. Il più Esplicito è stato Bossi con un chiaro e secco «no». Al leader della Lega, che rimane pur sempre un movimento localista e identitario, non può piacere un uomo come Ruggiero che è l'emblema stesso, per la carica che ha ricoperto, della globalizzazione più sfrenata. Più cauti sono stati, come sempre, Fini e Casini. Ma si sa che il leader di Alleanza Nazionale teme un governo con troppi «tecnici» che si caratterizzerebbe ancor più come un «governo del presidente», cioè di Silvio Berlusconi, sbiadendo ulteriormente l'identità di An che al dominio mediatico del Cavaliere ha dovuto già pagare prezzi assai gravosi. In quanto a Casini si vedrebbe sfilare quella poltrona di ministro degli Esteri cui ha posto da tempo la candidatura. Altre perplessità derivano dal fatto che Ruggiero, che attualmente ricopre un incarico in Fiat (vice presidente della Salomon Smith Barbey International), è notoriamente un rappresentante proprio di quei «poteri forti», nazionali e internazionali, per combattere i quali, anche, Silvio Berlusconi disse: riprendendo con ciò una polemica cara ai socialisti di Craxi, di essere sceso in campo. Nessuno però si è azzardato a contestare il prestigio internazionale e le grandi capacità, in campo economico e finanziario, di Renato Ruggiero definito a suo tempo da Arrigo Levi «una delle massime autorità dell'economia mondiale» (Corriere della Sera, 23-10-87). Invece è proprio su questa capacità che, come cittadino e come risparmiatore, mi permetto di nutrire dei dubbi. Sarò fatto in modo sbagliato ma da tempo ho imparato a diffidare tanto delle buone che delle cattive fame. I lettori ricorderanno sicuramente, e alcuni anche dolorosamente, la grande crisi economica e finanziaria del Sud Est asiatico, nell'estate-autunno del 1997, innescata dal crollo delle cosiddette «piccole tigri». Il processo era partito da un Paese che non era nemmeno una «piccola tigre», ma solo un aspirante, quindi economicamente di poco conto, la Thailandia che nel luglio del '97 fu costretta a svalutare la propria moneta, il «bath». Dopo il «bath» toccò al «ringitt» malese, al dollaro di Singapore e, a metà ottobre, al dollaro di Taiwan, la più tigre di tutte le «piccole tigri». La caduta di Taiwan provocò immediatamente il crollo della Borsa di Hong Kong. Quel giorno Renato Ruggiero, direttore del WTO, dichiarò: «La crisi del Sud Est asiatico e gli squilibri finanziari che l'hanno segnata sono ormai parzialmente sotto controllo, nel senso che non c'è più il pericolo di un'amplificazione globale della crisi, i suoi militi sono contenuti a livello regionale» (Corriere della Sera, 23-10-1997). Pochi giorni dopo questa dichiarazione, il 27 ottobre, cadde la Borsa di Tokio e, nel giro di 24 ore o poco più, crollarono Wall Street, le principali Borse europee, con una punta di -19% a Mosca, le Borse latino-americane (Brasile, Argentina, Messico), finché il turbine arrivò in Nuova Zelanda e Australia completando il giro del globo. Quella che Ruggiero aveva sentenziato essere una «crisi regionale» (e, non contentandosi, aveva, con l'autorità della sua carica, sparso ulteriori, pericolosi, ottimismi, affermando: «Abbiamo le potenzialità per raddoppiare il commercio mondiale in un decennio, la produzione mondiale in due decenni», Corriere della Sera, 23-10-97) si rivelò come la più grande crisi finanziaria mondiale dal crollo di Wall Street del '29, pari solo alla bancarotta del Messico del 1995-96, destinata ad avere per lungo tempo ripercussioni sulle economie di tutti i paesi industrializzati e in via di industrializzazione tanto che otto mesi dopo lo stesso Ruggiero, fingendo di dimenticare quanto aveva detto otto mesi prima, affermava: «Non solo non siamo alla fine della crisi asiatica ma si iniziano a percepire i suoi segni negativi sul commercio mondiale» (Corriere della Sera, 15-6-98). Nella crisi del Sud Est asiatico, così come in quella del Messico di due anni prima, i grandi speculatori furono salvati dagli interventi di Alan Greenspan, per la Federal Reserve, e da Michel Cadmessus, per il Fondo Monetario Internazionale, ma i medi e piccoli risparmiatori di tutto il mondo, italiani ovviamente compresi, lasciarono sul campo due milioni di miliardi di lire bastonati due volte, come risparmiatori e come contribuenti (i fondi del FMI e della Banca Mondiale sono finanziati con le tasse dei cittadini dei paesi industrializzati). Questo anche grazie agli irresponsabili ottimismi del prestigioso Renato Ruggiero. Ora, è vero che sperperare i quattrini dei risparmiatori e dei contribuenti non è motivo sufficiente, nella confusione e nella smemoratezza generale in cui viviamo oggi, per impedire l'ascesa alle più alte cariche, come dimostra anche la vicenda di Carlo Azeglio Ciampi che nel 1992, governatore della Banca d'Italia, buttò al vento 50 mila miliardi per difendere la lira, senza riuscirci, dagli attacchi di Soros; ci si chiede però se il governo italiano abbia davvero bisogno di un soggetto come Renato Ruggiero e se per avere questo Maradona del pensiero Berlusconi debba scontentare tutti gli alleati. Proprio Berlusconi ha in casa un uomo come Antonio Martino, uno dei fondatori di Forza Italia, figlio di un grande liberale e ministro degli Esteri, Gaetano Martino, che ha già esperienza del ruolo avendolo ricoperto nel primo governo del Cavaliere, che gode, di suo e di riflesso paterno, di grande considerazione internazionale, che non risulta abbia bucato clamorosamente certe previsioni e che alla Farnesina potrebbe fare altrettanto bene, se non meglio, dell'ambiguo Renato Ruggiero e anche, sia detto con tutto il rispetto, di Pier Ferdinando Casini che è un bel ragazzo, simpatico, si presenta bene ma il cui orizzonte culturale, almeno finora, non è andato oltre l'asse Bologna-Roma-Bologna.