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«Ho fatto il vicepresidente di una Usl, ma mi sono dimesso quando mi hanno messo a capo, come presidente, un tranviere. Io non ho nulla contro i tranvieri ma penso che stiano meglio sui tram invece che a guidare una struttura sanitaria. Oltretutto la UsI II, dove ero io, ha sotto di se un organismo come il laboratorio provinciale d'igiene e profilassi di Milano che ha notevoli attrezzature, gente capace, svolge una funzione delicatissima e non può essere affidato al primo che capita solo perché ha la tessera di un partito». Chi parla così non è un aristocratico con la puzza sotto il naso ma un comunista, il professor Ercole Ferririo che è stato assessore all'ecologia del comune di Milano per il Pci dal '76 all'81, primario di medicina generale al Sacco, uomo universalmente stimato in città da amici e nemici. Sono andato allora a trovare questo tranviere presidente della UsI Il, il cavaliere Luciano Riva Cambrin, 52 anni, democristiano, uomo di Mazzotta. Al colloquio assisteva anche il coordinatore amministrativo della Usl II, dottor Felice Scala, vecchio funzionario di provenienza Inam. «Tel chi il giornalista. Mi spiace che non sia passato prima dal mio capogruppo d c che ci ha un sacco di miei interventi. Ehi, Scala, ce lo diamo quel mio intervento, fatto bene, di quella riunione in via Moretto da Brescia...tenga, lo pubblichi, le faccio fare un figurone della Madonna eh, ma ce ne ho per così di interventi, di articoli... Noi, non per dire, ma qui alla UsI Il diamo una assistenza sul territorio che, mi spiace per i colleghi presidenti, ma le altre UsI se la sognano, noi riceviamo cento persone al giorno, abbiamo anche un servizio di sportello Saub... Se ho trovato delle difficoltà a dirigere una Usl? Ohè, ma siamo matti? Io ci ho un bagaglio nel sociale e poi ci ho l'umiltà, io, caro signore, mi sono messo al servizio della collettività, io lavoro per la gente, che ne ha tanto bisogno, poverina. Piuttosto le par giusto che il presidente di una Usl prenda solo trecentomila lire al mese, che ogni giorno devo perdere ore a venire da via Teodosio, dove c'è l' Atm, a qui che siamo dall'altra parte della città? Perche io sono un mastino e ci ho lo spirito di servizio se no... Ohè; Scala, ma lo lasciamo registrare questo qui? Chiuda, va, chiuda, chiuda...». Confusione, sprechi e disorganizzazione Sarebbe però ingeneroso e sbagliato gettare la croce addosso al cavalier Luciano Riva Cambrin, considerarlo una eccezione fra i 260 membri dei Comitati di gestione delle venti UsI milanesi. «In genere c'è di peggio», assicura Giovanni Antenucci, segretario generale del Coreco, il Comitato regionale di controllo, funzionario d'estrazione prefettizia, «commis» di primissimo ordine. La prima cosa che colpisce chiunque si accinga a fare un'inchiesta sulla riforma sanitaria è l'assoluta inadeguatezza del personale che dovrebbe gestirla, vale a dire i membri di quei Comitati di gestione delle UsI a cui la legge 833 trasmette, in pratica, tutti i poteri e affida la gestione di migliaia di miliardi. Si tratta di politici di terza e di quarta schiera, di trombati alle elezioni cui bisogna trovare collocazione (e sono i casi migliori), di boss del sottogoverno locale il cui compito è quello, attraverso la gestione clientelare delle UsI, di creare gli opportuni serbatoi di voti. Il loro profilo politico è bassissimo, la competenza tecnica è nulla. Sono andato in giro chiedendo un po' a tutti quale sia stata, a suo tempo, la giustificazione logica, almeno formale, in virtù della quale la legge di Riforma decise di affidare la gestione delle Usi non a dei tecnici ma a dei politici. Ma nessuno mi ha saputo dare una risposta. Solo il professor Giulio Morello, comunista, mi ha detto che «si trattava di garantire un maggior controllo democratico dei cittadini sulla Sanità». Il che peraltro, anche volendosi mettere dalla parte del più forsennato democraticismo a scapito dell'efficienza, è falso. Perche i membri dei Comitati di gestione non sono eletti dai cittadini, ma nominati d'imperio dai partiti secondo un manuale Cencelli quasi più rigido e predeterminato di quello parlamentare. I comitati di gestione sono nati nella semiclandestinità, il cittadino non ha mai avuto notizia, se non da qualche giornale, della loro composizione. La ragione vera per cui si decise di affidare i Comitati di gestione a dei politici locali me l'ha detta, con candida brutalità, proprio uno dei «padri» della Riforma, l'onorevole Danilo Morini, democristiano, che ne fu uno dei relatori: «Uno degli obiettivi della Riforma, anzi il primo, era quello di spostare del potere politico in periferia. Gli altri erano: razionalizzare la gestione della Sanità e puntare l'attenzione sulla medicina preventiva più che su quella curativa. Purtroppo I'unico obiettivo raggiunto è quello politico, gli altri due no». Il trasferimento di potere alla periferia si è risolto naturalmente in una duplicazione, anzi in una moltiplicazione delle funzioni. Così a Milano (ma la situazione è, grosso modo, la stessa in tutte le grandi città italiane, a Torino, a Roma, a Napoli) ci sono: 20 Usl, una sorta di super Usl chiamata Comitato di coordinamento che nessuno ha capito che cosa ci stia a fare, un'assemblea sanitaria, una Consulta sociosanitaria cittadina oltre che l'ufficiale sanitario e assessori alla Sanità, all'assistenza, all'ecologia. Ci sono poi ospedali che dipendono direttamente dalle Usl, altri, i cosiddetti «multizonali», i cui consigli di amministrazione sono no- minati in parte dalle Usl e in parte dalle Regioni, e altri ancora a statuto scientifico, come l'Istituto dei tumori, il Desta, il San Raffaele e il Policlinico che (a parte quest'ultimo che fa caso a sé) sono fra i pochi che ancora si salvano proprio perché sono rimasti completamente fuori della riforma sanitaria. Si aggiungano le competenze della Regione e della Provincia. Si aggiunga la rivalità, senza esclusioni di colpi, che anima tutte queste istituzioni e pseudoistituzioni e le varie cricche di partito che, di volta in volta, ne hanno il dominio. La confusione e la disorganizzazione non potrebbero essere più complete. Dice Francesco d' Ambrosio, che è stato il coordinatore di un Piano regionale lombardo cui hanno lavorato per tre anni le migliori «teste d'uovo», che ha prodotto una relazione di cinque volumi ma che non ha mai visto la luce: «Cinisello e Sesto, tanto per fare un esempio, sono divise solo da una strada ma hanno due Usi e due ospedali che stanno uno di fronte all'altro. Che senso ha? Che due Usl significano due Comitati di gestione e gli ospedali possono quindi essere equamente spartiti fra il Pci e il Psi. Non solo, a dieci minuti di strada c'è il Cto (Centro traumatologico italiano), una struttura fatiscente che, a lume di qualsiasi logica, dovrebbe essere trasferito nell'ospedale di Cinisello, il “Nuovo Dassini”, che è faraonico e mezzo vuoto. Ma, naturalmente il Cto resta dov'è, così com'è». Ma dove la polverizzazione delle competenze ha raggiunto dimensioni grottesche è nella divisione delle grandi città in decine di Usl. Milano ne ha venti che non hanno nessun senso, in compenso presentano (come vedremo) moltissimi inconvenienti: perché si sono decentrati solo degli apparati politici burocratici ed amministrativi non dei servizi. Così se uno prima viveva in una zona senza un ambulatorio o un laboratorio d'analisi continua a non avere né l'ambulatorio né il laboratorio; d'altro canto se abita in una zona dove ha l'ambulatorio a due passi ma che dipende territorialmente da una Usl diversa dalla sua non può utilizzarlo e deve attraversare mezza città. Dice Nora Leonardi, responsabile amministrativo del Poliambulatorio di via Don Orione, Usl 10: «Quando si parlava di decentramento io credevo, nella mia santa ingenuità, che si trattasse di un decentramento di servizi ma mi sono accorta che, oltre ai Comitati di gestione, hanno trasferito solo gli uffici amministrativi. Così mentre prima, per esempio, c'era un unico ufficio, con otto persone, che si occupavano del personale adesso ci sono due persone per ogni Usl. E mentre prima, in otto, facevano il lavoro benissimo, adesso lo fanno in quaranta e male. Io provengo dall'Inam, ma non sono una “inamista “ incallita, però bisogna dire che un po' tutto oggi è così. Là dove prima c'era una direzione che funzionava adesso ce ne sono venti che non funzionano». Ai tempi dell'Inam chi sbagliava, pagava La divisione in venti Usl ha avuto quindi il solo, evidente scopo di far proliferare il ceto politico all'interno della ghiotta torta sanitaria. Ma questa proliferazione, da quel tumore che è, ha pro- dotto a sua volta delle metastasi, inquinando anche i ruoli tecnici. Non c'è coordinatore amministrativo o direttore sanitario di Usl che non abbia una tessera di partito o che, comunque, non sia scelto in base a criteri di partito. E la lottizzazione, discendendo giù per i rami, arriva al personale medico, paramedico, amministrativo. Le cose migliorano un poco nelle piccole città del centro-nord (perché c'è un maggior controllo sociale e perché qui la istituzione delle Usl ha avuto il risultato di unificare funzioni prima sparse sul territorio invece di disperderle come è avvenuto nelle metropoli), ma diventa drammatica in tutto il Sud dove non c'è alcuna tradizione «municipale» e dove, con qualche eccezione in Molise e Lucania, le Usl sono totalmente in mano ai boss locali, ai politici e politico-mafiosi. Spiega Danilo Morini: «Un direttore dell'lnam, al Sud, aveva una maggior capacità di difesa dalle influenze dei boss locali perché dipendeva direttamente da Roma. Inoltre doveva stare attento perché se c'erano troppe lamentele poteva essere trasferito, avere degli intoppi di carriera. Un presidente UsI invece è totalmente in balia dei potenti locali, è un loro uomo». Così a Palermo la Usl 58, la più importante di tutta la Sicilia con un bilancio di oltre 300 miliardi, appartiene a Salvo Lima, la “61” è di Luigi Gioia e Ciancimino, prima che gli mettessero le manette, aveva la “60”». Non è, naturalmente, da oggi, né dalla Riforma, che i partiti hanno occupato le strutture sanitarie. È da quando gli ospedali non appartengono più alle «Opere Pie» e sono diventati pubblici che i partiti si sono impadroniti dei relativi Consigli di amministrazione. All'epoca delle «Opere Pie» questi Consigli erano formati da pochi esponenti (al massimo cinque ), nominati dal prefetto e scelti, in genere, fra eminenti personaggi alla fine della carriera e quindi senza grossi interessi personali in ballo. Contavano poco (il potere l'avevano i direttori amministrativi e sanitari oltre che qualche «barone» particolarmente influente), ma un certo controllo ed una certa pressione, perlomeno morali, le esercitavano. Divenuti pubblici, i Consigli di amministrazione sono stati lottizzati fino all'ultimo uomo dai partiti. Nondimeno c'è una qualche differenza fra il personale politico che occupava, ed in molti casi occupa ancora, i Consigli di amministrazione degli ospedali, e il personale politico dei Comitati di gestione delle Usl. «A che serve avere studiato tanto?» Quelli, infatti, a furia di star in ospedale e di viverne, almeno in parte, i problemi dall'interno, una certa esperienza avevano finito per farsela. Il personale dei Comitati di gestione delle Usl invece è del tutto improvvisato, vive fisicamente lontano dalle realtà e dalle strutture sanitarie e, quel che è peggio, ha dimostrato un'arroganza pari alla propria ignoranza. Racconta Ercole Ferrario: «Quando ero nella UsI il mio parere non contava niente rispetto a quello degli altri commissari, tranvieri, bancari, pensionati. Ne sapevano più loro di me con quarant'anni di professione alle spalle. Questa è arroganza ma, soprattutto, è stupidità, è cretineria». Dice Antonio Sportelli, medico, che è vicepresidente della UsI 8 e direttore sanitario della Macedonio MelIoni e quindi vive la doppia parte di politico e di tecnico: «Sono l'unico tecnico fra i tredici membri del Comitato della mia Usl. Per me è difficilissimo farmi comprendere dai colleghi. Come si fa? Di faccende sanitarie ne masticano veramente poco. Del resto se mettessero me ai comandi di un quadrimotore non saprei da che parte cominciare ed invece un ospedale, che è qualcosa di più complesso di un quadrimotore, viene affidato a chiunque, al primo che passa. Il tecnico non viene mai ascoltato, i suoi sforzi sono vanificati, i consigli respinti, è continuamente umiliato, quello che dice vale di meno dell'ultima stupidaggine sentita di corsa dalla propria portinaia. Ma allora, mi chiedo, che cosa serve aver fatto tanti anni di studio se chiunque è autorizzato a saperne più di me? E se un tecnico coraggioso mette il proprio parere negativo su una proposta assurda gli organi di controllo la passano lo stesso senza batter ciglio. E allora lo fai una, due, tre volte, poi ti stufi e ti adegui all'andazzo generale». Del resto anche gli organi di controllo soffrono della stessa malattia delle altre istituzioni della sanità: l'occupazione da parte dei partiti e la lottizzazione. Il Comitato dei revisori dei conti, presente in ogni Usl, è formato da tre membri, ma solo uno è nominato dal Tesoro; gli altri due dalla Regione e dalla stessa Usl. Nel Comitato regionale di controllo (Coreco) ci sono funzionari espressamente partitici nominati dal Consiglio regionale e burocrati veri che però fatalmente, con l'andar del tempo, si stanno a loro volta lottizzando. Spiega Giovanni Antenucci, del Coreco della Lombardia: «Quando è nata la burocrazia regionale, nel 70, c'è stata, all'inizio, una selezione abbastanza accurata di personale che aveva un retroterra autentico di burocrate. In seguito, molto presto peraltro, intorno al '72/'73, i nuovi assunti hanno cominciato ad avere un retroterra di tessera politica». «Il risultato» commenta il professor Francesco D' Ambrosio «è che i controllori delle Usi sono gli stessi controllati, vale a dire i partiti». «Si può anche rubare, basta farlo bene» Si spiegano così i ricorrenti episodi di sfacciate ruberie o di colossali sprechi degli amministratori delle Usi di cui i giornali ci danno quotidianamente notizia: a Pescara, a Salerno, a Palermo, a Pomezia, a Foggia, a Firenze, a Roma (Usl Rm 19, Usl Rm 1), a Bracciano, a Civitavecchia, a Torino, a Catanzaro (in Lombardia non si ha notizia, per ora, di truffe clamorose anche perché, forse qui le Usi sono entrate in funzione più tardi che altrove quando ormai erano circondate da molta diffidenza). Se i controlli sono tali da essere facilmente elusi dagli amministratori imbroglioni, sono però sufficienti ad appesantire la già lentissima ed ingarbugliatissima burocrazia che imprigiona la Riforma sanitaria e che è una delle cause del suo fallimento. «Anche perché da noi» spiega Danilo Morini «s'è diffusa una cultura per la quale mentre gli elementi contabili, e quindi sostanziali, di un atto o di una delibera sono poco importanti, son roba da '800, invece quelli formali, di legittimità dell'atto, sono fondamentali. Tu puoi anche rubare, basta che lo fai al riparo di un atto formalmente legittimo. Così tutti i nostri istituti hanno gli uffici di ragioneria scassati, ma uffici legali di prim'ordine. E la prima cosa di cui si preoccupa un presidente Usi non è di far funzionare la macchina della salute sul suo territorio ma di avere un consulente legale che ci sappia fare». Questo è il quadro, l'asfissiante cappa politico-burocratica sotto il peso della quale deve operare la riforma sanitaria. Nelle prossime puntate di questa inchiesta andremo a vedere in che modo una Riforma che ha tali handicap di partenza e tali condizionamenti ha inciso sull'assistenza sanitaria, sugli ospedali, sui medici e, quindi, sulla nostra salute.