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Valerio Fioravanti, uno dei tre neofascisti (gli altri sono Francesca Mambro e Luigi Ciavardini) condannati per la strade alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, uno dei più efferati eccidi terroristici che abbiano insanguinato il nostro Paese (85 morti e più di duecento feriti), dopo 28 anni di reclusione, di cui 23 passati in carcere e gli ultimi cinque in regime condizionale, è un uomo libero a tutti gli effetti. Potrà richiedere la patria potestà della figlia, riavere il passaporto e, insomma, esercitare tutti i diritti che appartengono a ogni altro cittadino.

La liberazione di Fioravanti ha suscitato l’indignazione dell’Associazione 2 agosto 1980 che ha dichiarato. «In questo Paese la certezza della pena è riservata solo alla vittima e ai loro familiari». L’amarezza dei figli, dei genitori, dei coniugi delle vittime e di coloro che da quella strage uscirono con danni irreversibili è, ovviamente, più che comprensibile, ma se c’è un caso in cui la pena è stata espiata fino in fondo è quello di Fioravanti. Aveva 23 anni, poco più che un adolescente, quando fu arrestato a messo in carcere, ne esce ora che ne ha 51, è un uomo più che maturo che si avvia verso la vecchiaia. Ha passato in galera gli anni migliori della sua esistenza, che nessuno potrà restituirgli, come nessuno potrà restituire la vita alle sue vittime, una punizione equa e sufficiente almeno seguendo i principi della nostra Costituzione. Non essendosi dichiarato né pentito né dissociato dai suoi trascorsi terroristi nei quali ci sono altri omicidi, che ha ammesso (mentre ha sempre affermato la sua innocenza per la strage di Bologna la cui sentenza, in effetti, lascia qualche dubbio anche se ciò è irrilevante perché una sentenza definitiva è una sentenza definitiva e va rispettata e applicata, come tutte le altre) Fioravanti non ha usufruito dei cospicui sconti dell’infame «legislazione premiale» che ha mandato a spasso dopo pochissimi anni di carcere assassini certamente molto peggiori di lui dal punto di vista morale, ma è stato liberato solo in ottemperanza ai principi generali del nostro ordinamento. È stato condannato all’ergastolo, ma la Costituzione stabilisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato e al suo reinserimento nella società. Cosa che evidentemente non è possibile se questo resta in carcere fino alla morte. Ecco perché anche l’ergastolano può uscire di galera se ha scontato 28 anni, ha tenuto buona condotta e «un comportamento tale da farne ritenere sicuro il ravvedimento». Condizioni che si sono realizzate per Valerio Fioravanti come, prima di lui, per altri banditi più ottocenteschi come Graziano Mesina e Luciano Lutring «il solista del mitra».

La certezza della pena non è insidiata, anzi per alcuni reati quasi annullata, da questi principi generali, equi, giusti e umani, ma dalla durata abnorme dei nostri processi che fa ricadere la maggioranza dei reati (soprattutto quelli finanziari, economici e contro la Pubblica amministrazione, insomma i reati di «lorsignori», dei politici, dei cittadini privilegiati) sotto la mannaia della prescrizione. Questa durata già insostenibile è stata aggravata negli ultimi ultimi quindici anni, dopo Mani Pulite, dalla serie di leggi cosiddette «garantiste» con cui è stato inzeppato il Codice di Procedura Penale e che in realtà, assicurando la prescrizione, garantiscono solo l’impunità dei succitati signori (basti pensare alla legge detta Cirielli che mentre i processi si allungano dimessa i tempi della prescrizione per gli imputati non recidivi, per cui non arrivando mai una sentenza definitiva tutti o quasi tutti, soprattutto gli autori di reati complessi come quelli finanziari, possono usufruire presentandosi ogni volta al giudice con la fedina penale immacolata nonostante sia pressoché certo che hanno già commesso dei reati).

La certezza del diritto non è messa in forse dal fatto che Valerio Fioravanti, dopo aver pagato i suoi pesanti debiti con la giustizia, è fuori, ma dalla certezza che un’infinità di altri criminali questi debiti, sia pur meno pesanti, non li pagheranno mai.