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Noi italiani abbiamo una falsa percezione di noi stessi. Viviamo ancora nella retorica del «Bel Paese, del sole, mandolino e ammore», del «latin lover», degli «italiani brava gente». Ma è da tempo, da molto tempo, che questa retorica è solo una retorica. L’Italia è diventata un Paese triste, cupo, fatto, soprattutto nelle grandi città, di solitudini che non riescono a incontrarsi. E la ragione è proprio quella che ci dice questa intelligente, acuta, sensibile signora romena: viviamo pensando unicamente al denaro (basta ascoltare i discorsi in strada, al bar, al cellulare) e viviamo «nel tempo veloce del denaro», che non lascia spazi ai tempi dell’umano. Intendiamoci, questa è una caratteristica di tutto il mondo occidentale basato sull’inesorabile meccanismo produci-consuma-produci.

Ma in Italia c’è un superaddittum di tristezza, di solitudine, di disumanità. E la signora romena, che viene da un’altra cultura, da un altro mondo, e può quindi guardarci con maggiore oggettività, l’ha sentito. Il nostro notorio individualismo, un tempo creativo, allegro, simpatico, guascone, si è trasformato in una monade chiusa agli altri. Del resto anche noi, se appena usciamo dal guscio e andiamo fuori d’Italia, non lontano, ma in Paesi vicini che ci sono sempre stati simili, cugini, poniamo la Francia, ce ne accorgiamo. A Parigi si respira un’aria diversa, i volti delle persone sono più vivaci, più distesi, meno preoccupati. Persino i francesi — ed è tutto dire — sono diventati più cordiali di noi.

Poi c’è Firenze. I fiorentini credono di essere ancora «l’ombelico del mondo» come nel rinascimento, vivono nel passato e del passato, gravati dal passato, e Firenze è diventata una città chiusa e morta. Lo dico a ragion veduta perché la mia fidanzata è fiorentina e sono spesso in quella città, che un tempo amavo, trovando ogni pretesto per andarci e da cui oggi fuggo appena posso, perché Firenze è assassinata dal suo passato e da un turismo cheap, volgare e inconsapevole, che del resto sta uccidendo altre nostre «città d’arte» come Venezia e da qualche anno sta intaccando persino Roma, che nella sua storia millenaria era sempre riuscita a inglobare tutto. Condivido anche pienamente quanto dice la signora a proposito dell’amore per cani, gatti e animali in genere come paura di affrontare «l’altro», di confrontarsi con «l’altro», col diverso da sé. Mi sembra un’osservazione più acuta di quella, pur valida, di Hemingway che scrisse (mi pare in «Festa mobile»): «Ho sempre avuto una certa diffidenza per gli amanti quasi professionali degli animali. Ho l’impressione che questo loro amore mascheri un’indifferenza per gli essere umani».