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Ma che Paese è diventato il Bel Paese? Dove si cerca di liberarsi di un premier non per reati di cui è imputato ma per delle vicende del tutto private; dove si massacra un uomo politico per le sue preferenze sessuali; dove i militari dell’Arma, la Benemerita, "nei secoli fedele", fanno irruzione in una casa senza che ci sia un mandato della magistratura, senza flagranza di reato (che, per definizione, non può essere ipotetica), ne intimidiscono, minacciano e ricattano gli occupanti, li filmano per poi cercare di vendere la refurtiva a giornalisti, editori, imprenditori alcuni dei quali se la tengono nel cassetto per ogni evenienza, dove la presidente del più grande gruppo mediatico, venuta in possesso della refurtiva, la consegna al presidente del Consiglio, affermando poi di non averlo fatto in quanto manager del Gruppo del padre (cosa che andrebbe in palese conflitto di interessi) ma "da figlia", come se i due potessero scindersi schizzofrenicamente in una questione che non ha nulla di familiare; dove questo stesso presidente del Consiglio telefona alla vittima del ricatto assicurandogli ambiguamente che i suoi media non utilizzeranno quei filmati (e svelando così il conflitto di interessi negato dalla figlia) e gli indica anche il luogo dove si trova la refurtiva; dove non si capisce più se i giornalisti fanno ancora i giornalisti o i ricattatori e se il premier fa il premier o l’imprenditore o qualche altra cosa; dove la notorietà criminale non è motivo di bando ma più spesso di ammirazione e i Fabrizio Corona diventano idoli delle folle.

L’Italia è diventata un bordello. Non perché il premier va a escort e qualcun altro a trans, ma perché sono state sovvertite tutte le regole. Un bordello squallido e triste, la cui cupezza si respira nell’aria. Raccontavo qualche giorno fa a una mia giovane amica la Milano dei ’50, di quando ero ragazzino. Eravamo poveri, allegri e spavaldi. I tram erano stipati fino all'inverosimile con la gente sui predellini aperti e qualcuno attaccato al troller. Uscivamo dalla guerra, ci eravamo salvati dai bombardamenti angloamericani e dai rastrellamenti tedeschi, non ci poteva certo spaventare una caduta dal tram. Tutti, uomini e donne, fumavano. Il terrorismo diagnostico era di là da venire. Noi ragazzini uscivamo di casa alle due del pomeriggio e rientravamo con le ginocchia sbucciate, alle otto, senza che i nostri genitori se ne preoccupassero. Perché nel quartiere c’era un controllo sociale e se un bambino si fosse messo nei guai ci avrebbero pensato gli adulti a tirarlo fuori e un pedofilo sarebbe stato avvistato a un chilometro di distanza. Eppoi c’era, "il ghisa", il vigile, autorità sovrana. La "pula" non aveva bisogno di farsi vedere.

La malavita era professionale, conosceva le regole, stava attenta a non spargere una goccia di sangue (il colpo in banca della banda di via Osoppo, senza un ferito, tenne la scena sui giornali per mesi). Eravamo solidali perché eravamo poveri e anche quelli che non lo erano non lo davano a vedere. Il sordido gioco degli "status simbol" non era ancora cominciato. Lealtà e onore erano moneta sonante. Se fra noi ragazzi ci si scontrava a pugni sulla strada - dove ci siamo formati - e un gruppo era di dieci e l’altro, poniamo di otto, due si levavano per far pari.

E l'onestà era un valore assoluto. Per la borghesia, se non altro perché dava credito. Per il proletariato, per il mondo contadino dove la stretta di mano contava più di un contratto. Mentre raccontavo queste e altre cose i begli occhi della mia amica si ingrandivano, si sgranavano. Alla fine mi ha detto "tu mi stai raccontando una favola, questa non è l’Italia". Appunto.