Stampa
0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

pubblicato su Il Gazzettino il 18 marzo 2011

Nonostante le decine di ore che la tv pubblica sta dedicando all’avvenimento, le manifestazioni proposte, o piuttosto imposte, in varie città, l’impegno istituzionale del Presidente della Repubblica, ho la netta impressione che l’Unità d’Italia non importi niente a nessuno, o a pochissimi, non solo ai leghisti.
L’unità fu un’iniziativa elitaria (ai plebisciti votò il 46% della popolazione) che non è mai riuscita ad entrare profondamente nel cuore della gente. Quello italiano non è mai stato un popolo, Mussolini cercò di forgiarlo, dovendo tra l’altro ricorrere a richiami e simboli, quelli dell’antica Roma, che con l’Italia moderna non hanno nulla a che fare, ma nemmeno lui ci riuscì ("Governare gli italiani non è difficile, è inutile"). L’italiano è quello del Guicciardini, attento al suo "particulare" che non va oltre la famiglia e, quando va bene, il campanile. L’Italia migliore, più feconda, credo di aver scritto un’altra volta, è stata quella preunitaria. L’Italia spezzettata in realtà di dimensioni relativamente piccole, i Comuni, le Repubbliche marinare, i Granducati, che ha prodotto la grande letteratura (Dante, Cavalcanti, Boccaccio, Petrarca, l’Ariosto e il Tasso, su su fino ad arrivare a Manzoni e Leopardi). L’Italia della grande arte, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Botticelli in una lista che non finisce più e non ha pari al mondo. L’Italia laboratorio dove nasce, per la prima volta nella storia, a Firenze e nel piacentino, una forte classe di mercanti, preludio alla Modernità. Ma lasciando perdere questi aspetti culturali, anche la nostra storia politica dal 1861 a oggi non è molto gloriosa. Abbiamo fatto due guerre e ogni volta abbiamo cambiato alleato; nella seconda abbiamo sbagliato alleato. Con quell’alleato non bisognava allearsi ma pugnalarlo alla schiena in un momento in cui si lotta per la vita e per la morte è ripugnante. E abbiamo anche la spudoratezza di celebrare l’8 settembre come festa, mentre è, simbolicamente la giornata del tradimento della vergogna della perdita di ogni dignità nazionale. E qui c’è un filo conduttore che lega tutta la storia del’Italia Unita, nelle sue classi dirigenti e nel suo popolo: l’opportunismo. Tutti fascisti quando c’era il fascismo, tutti antifascisti quando il fascismo non c’era più, tutti anticomunisti ora che il comunismo è praticamente scomparso.
Ma ciò che rende difficile, per venire all’oggi, parlare attualmente di un’Italia unita e l’abissale distacco che c’è fra la popolazione e la sua classe dirigente, è il discredito di cui questa si è coperta negli ultimi trent’anni. Il disprezzo che si è meritata. Il 40% degli italiani, che nel bene e nel male una passione politica l’hanno sempre avuta, non vota. E anche l’altra sera a Roma, nella retorica manifestazione di piazza Venezia, quando davanti alla folla che era lì convenuta proprio per celebrare l’Unità ed era quindi animata da sentimenti benevoli, sono comparsi il ministro della Difesa Ignazio La Russa e il sindaco della Capitale Gianni Alemanno, sono stati accolti da una montagna di fischi che nemmeno la bella Manuela Arcuri (ma a simboleggiare l’Italia di oggi sarebbe andata meglio la D’Addario) è riuscita a silenziare. Ma lo stesso sarebbe successo, credo, se si fossero presentati Bersani o Franceschini. E un popolo che disprezza la sua classe dirigente non è più un popolo, ammesso che lo sia mai stato. È solo un’accozzaglia di gente che procede in ordine sparso.

Massimo Fini