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In Svizzera, nel giro di poche settimane, si sono suicidati due top manager: Pierre Wauthier, 53 anni, direttore finanziario di Zurich, colosso delle assicurazioni, e Carsten Schloter, 49 anni, leader di Swisscom Telecomunicazioni. Wauthier era pressato, stressato dal suo capo perché raggiungesse obiettivi sempre più alti, finché, non potendone più, si è tolto la vita. Ancora più indicativo il caso di Schloter che aveva lasciato scritto: "Non puoi stare connesso con il lavoro ventiquattr'ore su ventiquattro, non puoi cancellare la famiglia, non puoi scordarti i figli, non puoi scordarti la vita".

L'attuale modello di sviluppo è riuscito nella mirabile impresa di far star male anche chi sta bene. Figuriamoci gli altri. Alla base sta la competizione economica, concezione pressoché sconosciuta prima della Rivoluzione industriale e le cui conseguenze devastanti sono state enfatizzate dalla globalizzazione, fenomeno che ha anch'esso mosso i primi passi a metà del XVIII secolo ma che oggi è arrivato a piena maturazione con l'acquisizione al modello di sviluppo occidentale di quasi tutti i Paesi del mondo. Competizione fra individui, competizione fra aziende, competizione fra Stati, che passa sul massacro della persona umana. Noi ammiriamo, e temiamo, lo sviluppo cinese, ma da quando nella terra di Confucio è iniziato il boom economico il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza fra gli adulti. Nelle fabbriche cinesi, dove si assemblano le componenti della Apple e gli operai lavorano sedici ore al giorno, hanno dovuto stendere delle reti di salvataggio per impedire ai poveracci di gettarsi giù a capofitto, uccidendosi. Forse stavano meglio quando si accontentavano della loro ciotola di riso.

I classici dell'economia liberista, Adam Smith e David Ricardo, sostenevano che la competizione è cosa buona perché abbassa i prezzi e giova quindi al consumatore (figura sinistra emersa anch'essa nei tempi moderni). Non mi pare che questo sia avvenuto. I prezzi dei beni essenziali, cibo, vestiario, alloggio, non han fatto che lievitare, pur tenendo conto del rapporto con l'aumento dei redditi, a diminuire sono solo i prezzi delle cazzate, di bisogni di cui nessuno prima aveva mai sentito il bisogno. Ma strettamente connessa alla competizione economica c'è un'innovazione psicologica che Ludwig von Mises , capovolgendo venti secoli di pensiero occidentale e orientale, ha sintetizzato così: "Non è bene accontentarsi di ciò che si ha". E con ciò fondando, come se ce ne fosse stato bisogno, l'infelicità umana. Poiché ciò che non si ha non ha limiti raggiunto un obiettivo bisogna inseguirne - costretti dall'ineludibile meccanismo che ci sovrasta e su cui si basa il sistema - un altro e poi un altro ancora finché non si schiatta, sostituiti da un nuovo pezzo di ricambio.

Nella situazione ideale si troverebbero i disoccupati e i cassintegrati, se non fossero morsi dal tarlo di non avere ciò che altri posseggono. Vivere senza lavorare è sempre stato il sogno dell'uomo, finché ha avuto la testa.

Qualche anno fa, in una grigia giornata dei primi di ottobre, mi trovavo in uno dei splendidi Bagni liberty di Agrigento (peccato che a cento metri, sul mare, sgorgasse la fogna). La spiaggia era deserta. C'era solo un ragazzo a qualche sdraio di distanza. Attaccai discorso. Mi raccontò che per quattro mesi d'inverno lavorava come muratore a Torino, il resto lo passava nella sua città natale vivendo di quanto aveva guadagnato e potendo contare su quella rete familiare che al Sud esiste ancora. "Certo" disse "non posso permettermi la Porsche, ma ho a mia disposizione il tempo". "Caro ragazzo" risposi "tu forse non lo sai, ma sei un filosofo". Noi, invece, siamo tutti degli emeriti coglioni.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2013