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Nella ormai famosa intervista alla Tv svizzera Papa Bergoglio ha detto, in termini laici e non religiosi, che negoziare non è peccato. È curioso, bizzarro, ma indicativo, che la presa di posizione più netta sull’attuale crisi russo-ucraina sia stata presa non da un politico ma da un capo spirituale. Naturalmente il Santo Padre è stato sommerso dalle critiche, politiche e mediatiche, del cosiddetto mondo occidentale.

Nell’ultimo articolo dicevo che noi dovremmo imparare dal diritto latino. Ma dovremmo imparare qualcosa anche da quelle che sprezzantemente chiamiamo “culture inferiori”, in particolare da quella africana. L’intera storia dell’Africa Nera, naturalmente prima che noi ne ibridassimo e distruggessimo la cultura, le tradizioni, l’economia, non col colonialismo classico, che era in un certo senso ‘romano’ (noi occupavamo e depredavamo, ma gli indigeni continuassero pure a vivere secondo le loro tradizioni e costumi) ma col più recente e devastante colonialismo economico, è caratterizzata dal negoziato. Scrive l’antropologo John Reader (Africa, 2001) parlando del Delta del Niger: “Il rischio di conflitti era altissimo: in termini antropologici il delta interno del Niger avrebbe dovuto essere un ‘focolaio di ostilità interetnica’. Eppure ciò che distingue la regione durante i 1600 anni di storia documentata non è la frequenza dei conflitti, quanto la stabilità di pacifiche relazioni reciproche”. E questo vale, sempre per Reader, per tutta l’Africa Nera. Ma com’è possibile, dirà il lettore, se attualmente l’Africa è attraversata da conflitti particolarmente feroci come quello in Sudan, mentre è ancora nella memoria di tutti il dramma del conflitto tra Tutsi e Hutu? Ma questo è lo stato delle cose “attualmente”, cioè più o meno dell’ultimo mezzo secolo, in cui è stata distrutta la comunità tribale. In questa non comandava il re, che era un simbolo, il meno libero della tribù, un po’ come il re o la regina d’Inghilterra, ma le decisioni venivano prese dalla collettività. È chiaro che se tu alla realtà tribale sostituisci le strutture di uno Stato moderno questo avrà bisogno di eserciti e di polizia con cui schiacciare i sudditi, non tanto diversamente peraltro da quanto avviene nelle moderne democrazie occidentali.

Ora, per non farci mancar nulla, l’Italia, con l’appoggio esplicito o implicito della cosiddetta comunità internazionale (Ursula von der Leyen, Ocse, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) ha messo in piedi il cosiddetto “Piano Mattei”. È evidente che la Comunità internazionale agisce sotto l’impulso di un senso di colpa: dopo aver distrutto l’Africa Nera abbiamo il dovere morale di ricostruirla, soprattutto economicamente. A parte il fatto che per questo Piano non abbiamo consultato i diretti interessati, cioè gli africani, come ha lamentato Moussa Faki, il presidente dell’Unione Africana, l’Inferno, come si sa, è lastricato di buone intenzioni, anche ammesso e nient’affatto concesso che il Piano Mattei abbia buone intenzioni. Giorgia Meloni ha affermato che il Piano Mattei non ha “un approccio predatorio”. Excusatio non petita, accusatio manifesta. Il sottosuolo africano possiede il 30% delle risorse naturali e minerarie necessarie alla transizione energetica globale. E non è certamente un caso che al Piano Mattei sia molto interessata l’Eni, nota confraternita di anime pie (nel 2006 furono rapiti due tecnici Eni nel Delta del Niger perché lo sfruttamento del petrolio andava a tutto vantaggio della società italiana e non al popolo nigeriano. I capi del Mend, Movimento per la liberazione del Delta del Niger, dissero: “Noi non siamo criminali, ma voi ci costringete ad esserlo”).

Ma l’Africa Nera non è interessante solo per le sue risorse, ma per il numero dei suoi abitanti, circa 700 milioni escludendo il Sudafrica che fa storia a sé. Insomma si vuol fare degli africani dei forti consumatori. Consumatori di che non è molto chiaro visto che, come dicono tutti, l’Africa è alla fame. Lo è oggi, non lo era nell’immediato ieri. Ai primi del Novecento l’Africa era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%) nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dall’integrazione economica - prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante -  le cose sono precipitate. L’autosufficienza è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere che è successo dopo non sono necessarie statistiche: basta guardare le migrazioni dei subsahariani che, passando dalla pericolosissima Libia di oggi (quando c’era Gheddafi la Libia era un paese ordinato e nient’affatto pericoloso) e per la Tunisia, dove sono odiati dalla popolazione locale che tende a ricacciarli in mare. Insomma in Africa Nera non è più questione di povertà ma di fame, della brutale fame. E non sarà certo il blocco navale progettato da Salvini a fermare questa gente.

Ritorniamo ai problemi, ai drammi, dell’agricoltura africana. “In un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato all’alimentazione degli animali dei paesi ricchi. I poveri del Terzo Mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo che potrebbe sfamarli” (Il vizio oscuro dell’Occidente, 2002). È la legge del mercato e del denaro.

L’interesse per l’Africa Nera non è dettato solo da ragioni economiche rapinatorie ma da interessi geopolitici. Si scrive che in Africa sono presenti i russi attraverso la Wagner. I russi non sono mai stati presenti in Africa, non hanno mai avuto interessi coloniali di tipo occidentale (alla Russia interessa ciò che accade nel proprio territorio e in quelli vicini, cioè territori europei o parzialmente asiatici) così come non fu né coloniale né neocoloniale il nazismo, Namibia a parte che, credo non a caso, è oggi il paese più ordinato e tranquillo dell’Africa Nera. La fantomatica Wagner, che si dice che esista ma nessuno sa dire con precisione dove stia, è un pretesto per addebitare a Putin ciò che di Putin non è. Si dice che la Wagner sia presente in Mali. Le cose non stanno proprio così. Il Mali è diviso in due parti, il Mali del Sud sotto la Francia, non nei modi neocoloniali ma nei modi di un colonialismo in senso stretto scomparso da tempo (da quelle parti si batte una moneta francese, il Franco Cfa) e un Mali del Nord abitato da animisti, tuareg, islamici non radicali. Qualche anno fa alla Francia è venuta la bramosia di occupare anche il Mali del Nord. Conseguenze: i tuareg si sono salvati perché nomadi, gli animisti sono stati spazzati via e gli islamici, fino ad allora quieti, sono diventati Isis.

All’epoca di un summit organizzato dal primo G7, i sette paesi africani più poveri con alla testa il Benin organizzarono un contro-summit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Invece di fare le anime belle, con Piani Mattei e simili, dovremmo seguire questa volontà autoctona. “Oh che partenza amara, Meloni cara, Meloni cara”.

Il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2024

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Nei giorni scorsi il direttore del Parco archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, intervistato dal Corriere nella fatidica data dell’8 marzo, alla domanda di quale fosse il ruolo della donna nella società romana, ha affermato che veh, sì, le donne avevano un certo spazio perché partecipavano ai banchetti. Stupisce una risposta così superficiale e banale da parte di un uomo colto quale è certamente Zuchtriegel. Perché nel diritto civile romano c’era un’assoluta parità di genere: la donna poteva divorziare senza dover avere il consenso di nessuno, la terza moglie di Nerone, Messalina, veniva dal quinto divorzio. In Italia per arrivare a legalizzare il divorzio abbiamo dovuto aspettare il 1970 e quella legge, qualcuno lo ricorderà, dovette anche superare un referendum abrogativo. La donna poteva abortire, sia pure col consenso del marito o del convivente (all’”utero è mio me lo gestisco io” i Romani non erano ancora arrivati) e quell’accenno al “convivente” ci dice che in Roma esistevano le coppie di fatto, del resto l’espressione more uxorio deriva proprio dalla lingua latina. La libertà sessuale era assoluta sia per gli uomini che per le donne. Praticamente l’intera società romana era bisessuale, bisessuali erano gli uomini, bisessuali le donne anche se la bisessualità femminile rimaneva più nascosta, non per ragioni di diritto o di costume, ma perché più nascosto è il loro sesso.

Solo una vecchia zia moralista come Tacito, una specie di Enzo Biagi dell’antichità solo che scriveva un po’ meglio, poteva scandalizzarsi perché Nerone, anche in questo un apripista, si faceva inchiappettare (o inchiappettava) da segretari e servi. Si sa che Nerone era un grande appassionato d’arte (si vada a vedere, per tutte, la Domus aurea). Ma per Tacito l’arte che piaceva a Nerone era “arte degenerata”, insomma Hitler non avrebbe potuto dir meglio. L’unico limite, non di diritto ma di costume, era che se il padrone aveva rapporti sessuali con un servo o uno schiavo, doveva avere la parte del pistillo e non della corolla. Di qui le reprimende tacitiane contro Nerone che non faceva differenze, insomma anche nel sesso era più democratico.

Nell’Olimpo tutti scopano con tutti, non aveva una buona reputazione Minerva, troppo rigida, troppo catafratta nella sua intelligenza, però Diana, la casta, era rispettata. Ma la dea che i Romani più veneravano era Venere, la dea dell’Amore. Innamoratosi di una deliziosa fanciulla, Europa, Giove si travestì da toro e rincorrendola la raggiunse dalle nostre parti, da cui il nome del nostro Continente.

Pari nel diritto privato, le donne erano invece discriminate nel diritto pubblico. Non potevano assumere cariche pubbliche, cioè il ruolo di questore, di pretore, di edile, cioè percorrere il cursus honorum che portava alla carica massima, il consolato. Ma manovravano dietro le quinte indirizzando le scelte dei loro mariti o conviventi, un po’ come avviene oggi con la mafia. Insomma quella romana era una società sostanzialmente matriarcale, com’è matriarcale oggi la società americana.

Credo che noi dovremmo studiare un po’ di più il diritto romano, del resto i Latini sono gli inventori del diritto e studiando il diritto romano, così come se si studia il diritto di qualsiasi paese, si penetra a fondo in quelle mentalità. Quello romano è un diritto contadino, pragmatico, che, poniamo nei processi, privilegia la rapidità delle procedure (ha il “giusto processo”) rinunciando a una verità giudiziaria assoluta, che non esiste né nel diritto né in natura. Nel diritto giustinianeo, ma qui siamo ormai fuori dalla latinità, si pretende invece la certezza assoluta delle sentenze, un diritto, è proprio il caso di dirlo, bizantino, che è zeppo di ricorsi, di controricorsi, di appelli, di revisioni, di controrevisioni, che finisce per essere inapplicabile proprio a causa della sua durata, perché nel frattempo i testimoni sono morti o non ricordano, le carte ingiallite, spesso illeggibili o affondate in chissà quale armadio.

Molte altre cose dovremmo imparare dal diritto e dal costume romano, anche e forse soprattutto in politica estera. Il più grande Impero di quei tempi conquistava territori, chiedeva che le nuove province pagassero le tasse in termini di frumento, ma non pretendeva di cambiare i costumi, le tradizioni, le istituzioni dei popoli assoggettati. Questo dovrebbero imparare gli occidentali e soprattutto gli americani che pretendono di imporre i loro valori, in particolare la democrazia con tutto ciò che ne consegue, all’universo mondo. Negli ultimi trent’anni gli americani, e noi dietro come reggicoda, non hanno fatto solo guerre di conquista, e questo si comprende, ma anche guerre puramente ideologiche. Quella all’Afganistan talebano è esemplare: non ci piacevano i costumi di quella gente e poiché non ci piacevano i costumi di quella gente abbiamo occupato per vent’anni quel Paese, uscendone con la più vergognosa e umiliante delle sconfitte. Una lezione che dovrebbe far meditare.

Spero che Eva Cantarella, la più grande latinista vivente, non mi bacchetti perché ho osato parlare di diritto romano, ma soprattutto temo il giudizio di Piercamillo Davigo e di Travaglio che è il più grande esperto di diritto al mondo, tanto che quando parlo di diritto, io che sono pur sempre laureato in Giurisprudenza, per certe situazioni complicate, che proprio nel groviglio di norme fan la gioia degli avvocati, mi rivolgo a lui.

Questa volta non l’ho fatto. Che il Ciel mi assista.

 Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2024

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Clamoroso al Cibali: la Marina militare italiana ha abbattuto un drone. Il protagonista di questa eroica prestazione è il capitano di vascello Andrea Quondamatteo, di San Benedetto del Tronto, comandante della Caio Duilio che opera attualmente nel Mar Rosso. L’azione è parsa così meravigliosa che il Corriere della Sera, non il giornalino di parrocchia di San Benedetto, ha pensato di dedicargli un’intervista a tutta pagina. Qui il capitano Quondamatteo, fingendo modestia, ma trasudando orgoglio (l’ordine dell’abbattimento l’ho dato io, proprio io, solo io, non il contrammiraglio Stefano Costantino, mio superiore diretto) ci informa di tutti i dettagli tecnici dell’operazione, ecoradar, telecamere a infrarossi, ma per esser certi del risultato si è avuto bisogno dell’“apprezzamento ottico”, cioè di vedere con i propri occhi che il micidiale drone era caduto in mare. Il timore del capitano Quondamatteo era di colpire un drone amico, tedesco, francese o degli altri Paesi che partecipano alla “missione Aspides”. Forse c’è qualche difetto di collegamento tra la nostra Marina e le altre che operano nel Mar Rosso. Che il drone non fosse amico lo si poteva dedurre facilmente dalla sua direzione, partito dallo Yemen stava solcando il Mar Rosso proprio, o bella, o orrore, nella nostra direzione.

Il comandante della Caio Duilio è stato sommerso dalle congratulazioni: del governo italiano, dei comandanti delle navi Jolly Rosa e Grande Baltimora, dell’ammiraglio Enrico Credendino, capo di stato maggiore della Marina Militare (il contrammiraglio Stefano Costantino, diretto superiore del Quondamatteo, si è prudentemente e saggiamente astenuto, sembrandogli, probabilmente, che troppo fosse il clamore creato da quell’abbattimento). Sui social il capitano Quondamatteo è stato paragonato a Mosè che divise le acque del Mar Rosso e anche a qualche eroe omerico, tipo Achille. Ora della tipologia dell’eroe il capitano Andrea Quondamatteo non ha proprio le caratteristiche. Ha un fisico che, almeno in fotografia, appare qualunque e più che a Ettore o ad Achille somiglia a Enrico Letta o piuttosto al capitano Rigoletto, protagonista di uno straordinario racconto di Dino Buzzati che fotografa, si per dire, la modestia fisica dei comandanti di una grandissima operazione probabilmente atomica. Buzzati, a me par di capire, aveva intuito che nella guerra moderna, tutta tecnologica, il valore fisico sarebbe andato a scomparire.

Ma se un solo drone ci mette in allarme, vuole complicatissime operazioni di collegamento e di raccordo con gli eserciti nostri alleati e addirittura un “apprezzamento ottico”, che dovrebbero dire i comandanti della difesa ucraina che ne affrontano ogni giorno almeno un centinaio?

Il fatto è che noi italiani non siamo più preparati alla guerra. Quando ci capita, spinti a calci in culo dagli americani, treschiamo subito col nemico come abbiamo fatto in Afganistan stringendo patti leonini con i comandanti talebani o in Libano all’epoca della missione, nel 1983, del generale Angioni. Il tradimento, il passare dall’altra parte, quella del vincitore, sta nei nostri geni, intesi come struttura del Dna, non come intelligenze superiori, vedi la prima e la seconda guerra mondiale (pugnalare l’alleato mentre si combatte per la vita o per la morte, fosse pure tedesco e nazista per soprammercato, non mi è mai parsa un’azione lodevole).

Non essere più preparati alla guerra, perché in Europa dal 1945 in poi non ce ne sono state, fino all’aggressione russa all’Ucraina, sembrerebbe di per sé un bene. Ma è anche un male perché la guerra serve, nella vita pubblica e anche privata, ad avere il senso delle proporzioni. Quello che è mancato al governo italiano, ai vari media che si sono lanciati in elogi turibolanti e allo stesso Rigoletto.

Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2024