E’ scoppiato il caldo. Con un certo anticipo e prevedo che ci sarà un’estate feroce perché, in pratica, non c’è stato inverno. Io la sera sono solito andare al ristorante e per tutto quest’inverno ho mangiato fuori.
E’ venuto quindi il tempo del tè caldo, caldo non freddo, che aiuta a resistere all’afa più dell’acqua, con bollicine e non. L’ho sperimentato nel deserto. Siamo sulla fine degli anni Sessanta. Avevo progettato un viaggio in Marocco (non professionale, fortunatamente non ero ancora giornalista) perché allora, prima della globalizzazione, che tutto ha omologato, viaggiare aveva ancora il sapore dell’avventura e del mistero. Oltretutto il Marocco non era stato ancora assassinato dal turismo di massa. Certo, molti ricchi europei e anche italiani avevano casa a Tangeri, sul mare. Era una cosa per ricchi che non si può nemmeno definire turismo. E Tangeri, nonostante la sua ricchissima e millenaria storia, socialmente era lontana dal Marocco più profondo, cioè Marrakech. Alla ricerca di questo Marocco mi trovavo, con un’amica, non alla periferia di Marrakech perché lì non esistevano, allora, periferie, ma ai bordi del deserto. Vidi un grande cartello con scritto Sahara. Sahara è un nome che non può non colpire un europeo, tanto più un bambino quale io psicologicamente ero e sono rimasto perché è l’ingenuità che ti fa capire e scoprire che “il Re è nudo”. Chiedemmo quindi a dei beduini se potevamo accompagnarli, per un breve tratto, nel loro viaggio, un lungo viaggio a dorso di cammello che li avrebbe portati a Kairouan, in Tunisia, altro luogo mitico dove si incrociano, si incrociavano, carovane provenienti dal Mali, dal Marocco appunto e da altre zone del Nordafrica in un perenne commercio di tessuti, di pietre preziose e altro ancora. I beduini, molto cordiali ma di una cordialità molto diversa, più asciutta, da quella di noi europei, furono lieti di portarci per un po’ con loro. Ci ospitarono in un tendone, prima tappa del loro viaggio, dove ci offrirono del tè caldo e ci spiegarono le sue qualità. Fu quindi nel deserto, sotto un caldo atroce, era piena estate, che seppi delle qualità taumaturgiche del tè caldo.
Fu a Marrakech che conobbi il Marocco più profondo quando misi piede nella piazza di Jemaa el-Fnaa, dove la sera la luna fa da sfondo alla Koutoubia. C’erano solo alcuni hippie, nomadi anche loro, in quella stagione esistenzialista.
Entrai quindi dritto e di filato in una dimensione da “Mille e una notte”. Il Marocco, sotto la guida di Hasan II era allora un Paese tranquillissimo (il Polisario era di là da venire) inoltre Hasan II, un grande regnante, curava molto l’istruzione, a una certa ora del giorno vedevi spuntare dalle sabbie del deserto, come miraggi, bambini con la cartella e sui giornali marocchini, peraltro come su quelli tunisini, c’erano dibattiti sui tempi di attenzione dei ragazzi, a seconda delle età.
Per farci da guida ingaggiammo un ragazzino delizioso, Mbarek, dodici anni. Alla fine del nostro rapporto gli porsi dei dinari. Ma li rifiutò. Non con disprezzo o sdegno, ma perché li riteneva, giustamente, non all’altezza del suo lavoro.
Con Mbarek ci spingemmo un giorno fuori da Marrakech e vidi un grande palazzo. “Che cos’è?” chiesi a Mbarek. “Ma come, non lo sai? E’ la reggia di Hasan II”. Arrivato davanti a un piccolo cancello suonai senza alcuna speranza. Dopo un po’ arrivò una sorta di nana con pantaloni gonfi, harem diciamo così, a cui cercai di spiegare a gesti che avrei voluto entrare. L’araba sparì ma poco dopo, misteriosamente, il cancello si aprì e ci trovammo davanti a una lunga distesa di limoneti e aranceti. Sullo sfondo sentivamo un galoppo, era la cavalleria del Re che si allenava. Incontrammo anche tre operai che facevano la siesta all’ombra di un albero. Una fiaba nella fiaba.
Sulla piazza Jemaa el-Fnaa c’erano due mercati: uno all’aperto, l’altro al chiuso. In quello all’aperto i commercianti, chiamiamoli così, stendevano i loro tappeti con la mercanzia, c’erano tappeti molto grandi e altri ridottissimi. In uno vidi solo uno slip usato e poco altro. Nel mercato al chiuso c’erano invece i commercianti più ricchi. Lì facemmo conoscenza con una famigliola, padre, madre e quattro figli. Il più grande di diciotto anni, il più piccolo, Alì, tre, un batuffolo riccioluto e nerissimo (e quando penso ai tanti Alì che abbiamo assassinato, se non proprio in Marocco nelle vicinanze, mi viene il voltastomaco). La famigliola ci invitò tre o quattro volte a pranzo. Cuscus naturalmente. Il più grande, Mohamed, si era messo in testa di andare a lavorare alla Renault, a Parigi. E io avevo ben voglia di cercare di spiegargli che in fondo la sua felicità era lì, con la sua famiglia, con un discreto benessere, nel suo Paese. Ma lui, duro. Io gli dissi che se fosse andato davvero a Parigi e se fosse passato per Milano avrei volentieri contraccambiato l’ospitalità. E infatti in un giorno di maggio si presentò a casa mia. Non aveva cambiato idea. E a Parigi dovette rendersi conto di che lacrime e di che sangue grondi il nostro modello di sviluppo. Non era una migrazione forzata la sua, come quella degli odierni migranti. Non era per la brutale fame come sono le migrazioni di oggi. Seguiva un’illusione.
Le rivolte delle banlieue parigine si spiegano così. Le banlieue parigine sono di tutto rispetto, non hanno nulla a che fare con Tor Bella Monaca. Ci sono palestre, mediateche, centri sportivi. Non è proprio un caso che nelle banlieue parigine, o vicine a Parigi, i sindaci siano comunisti come, solo per fare un esempio, Patrice Leclerc, sindaco di Gennevilliers o come Charlotte Blandiot-Faride, comunista, che è sindaca di Mitry-Mory.
Insomma a causa di questo tipo di migrazioni siamo riusciti a resuscitare, almeno a Parigi, una sinistra morente in tutto il resto d’Europa tranne il caso di Mélenchon, non per nulla francese anche lui, e nel resto del mondo se si esclude il Sudamerica (Lula, Chávez, Maduro).
Cuba è comunista, vero, ma comunismo e socialismo sono due cose molto diverse. Il comunismo quando ci riesce vuole una parità economica e sociale a scapito dei diritti civili, il socialismo cerca di raggiungere una ragionevole parità senza comprimere i diritti civili (sia detto di passata: ho letto di recente degli articoli, immondi, che descrivono Cuba come un “universo concentrazionario”, ci si è dimenticati di Batista? Inoltre a Cuba sanità ed istruzione sono gratuite proprio come in Italia e negli States).
Insomma è stato proprio grazie ad un’illusione, alla chimera inseguita dal marocchino Mohamed che la sinistra, o quello che ne resta, è tornata ad avere un ruolo, sia pur modesto, in Europa (la socialdemocrazia è un compromesso ragionevole, ma pur sempre un compromesso). Paradossi della Storia.
8 giugno 2025, il Fatto Quotidiano
I giovani si dividono in due categorie. Quelli che si drogano e quelli che si drogano. Quelli che si intossicano della droga propriamente detta il cui uso è in costante espansione (tracce di Fentanyl, la potente droga di moda, sono state trovate nei delfini del Golfo del Messico) e quelli che si intossicano di smartphone il cui uso è anch’esso in aumento, non solo nei giovani naturalmente ma è arrivato a riguardare bambini di cinque anni. A quest’orgia vanno aggiunti gli psicofarmaci, il cui uso non riguarda però specialmente i giovani, ma tutti. In un’inchiesta che feci quando pubblicai La Ragione aveva torto? (1985) risultava che 502 americani su 1000 facevano uso abituale di psicofarmaci. Cioè più di un americano su due non stava bene nella propria pelle. E vedendo ciò che accade oggi in America non c’è ragione di pensare che le cose siano cambiate se non in peggio.
I fenomeni delle droghe quelle propriamente dette e le altre si inserisce in un alveo più grande vale a dire nelle nevrosi e nelle depressioni che sono malattie tipiche della Modernità. Appaiono all’inizio della Rivoluzione industriale per poi dilagare (Freud docet). Non esistevano nei tempi passati. C’era solo il malato psichiatrico, il ‘pazzo’ che però i nostri progenitori medievali erano riusciti a metabolizzare credendo che il pazzo, come il mendico, aveva un suo rapporto privilegiato con Dio.
La droga di massa, che coinvolge tutti i ceti, è un fenomeno abbastanza recente in Europa. E c’è chi, come Walter Veltroni (Corriere, 3.5) che come sociologo a me pare valga molto di più di quando faceva il politico, insinua che l’immissione massiccia della droga in Europa riflette un calcolo politico: distruggere alcune generazioni di cittadini europei.
Prima la droga nella forma della cocaina o dell’oppio era una cosa di artisti (Rimbaud, Baudelaire e compagnia). Mika Waltari poté scrivere il suo bellissimo Sinuhe l’egiziano (1945) perché era sotto l’effetto della droga, solo così poté immaginare il mondo tenebroso, misterioso, inquietante, affascinante di cui stava scrivendo. Oppure era una prerogativa dei grandi ricchi che poi potevano andarsi a disintossicare in qualche clinica specializzata. Gianni Agnelli era soprannominato anche “narice d’oro”, perché aveva sniffato tanto da compromettere l’uso del naso.
Il primo morto per droga, anzi morta, in Italia avviene a Milano, nel 1974. Io facendo l’inchiesta sull’episodio per l’Europeo ne conobbi l’amica più cara, Rosanna C. Era figlia di un famoso avvocato, istruita, colta, curiosa, e sarà questo, forse, a fregarla. Si era ridotta a un punto tale che non poteva più leggere perché le righe le si accavallavano, si doveva accontentare dei fumetti o dei fotoromanzi. Io e mia moglie facemmo l’errore di ospitarla in casa nostra. L’unico limite era che non si drogasse in casa. Io feci l’ulteriore errore di consegnarle la mia macchina, una modesta Simca 1000. Con cui Rosanna si fiondò per la città alla ricerca naturalmente della ‘roba’ ed ebbe un incidente. Per timore della mia reazione non rientrò a casa. A me del danno importava relativamente, avevo l’assicurazione. Denunciai la cosa in Questura e al magistrato di sorveglianza, che mi pare, anche se non sono sicuro, fosse Leonardo Guarnotta e Guarnotta o chi per lui mi disse, giustamente, che potevo andare a processo per ‘incauto affidamento’. Rosanna C morirà ugualmente per droga qualche anno dopo. Questo per dire che è pericoloso improvvisarsi specialisti. Credere di poter fare quello che meritoriamente, e sia pur in mezzo a grandi polemiche, fece Vincenzo Muccioli con la sua comunità di San Patrignano.
Nello stesso periodo incontrai nei pressi della Stazione Centrale una ragazzina giovanissima, avrà avuto sì e no diciotto anni, che chiedeva le elemosina, per drogarsi naturalmente. Era veramente un gioiello, non solo per bellezza ma per grazia e modi. In questi casi non sai mai come comportarti. Darle i soldi per alleviare nell’immediato la sua sofferenza, spingendola però così sempre più a fondo?
La mia generazione, quella del Dopoguerra, non è stata coinvolta in droga. Allora bisognava fare un’iniezione, di eroina, della potentissima eroina, e per noi ragazzini l’iniezione ricordava una dolorosa puntura sul sedere. Adesso che ci sono le pillole calarsi un acido, poniamo un yellow sunshine o similare, è cosa di un momento. C’è la stessa differenza che esiste, per chi abbia tentazioni suicidarie, fra il buttarsi dal quarto piano e tirarsi un colpo di pistola. Non alla tempia perché resti vivo ma cieco, ma in gola dove il risultato è sicuro.
A rendere ancora più difficile il già difficile rapporto tra i sessi è arrivato, per i maschi, MeToo (“L’amore? L’eterno odio tra i sessi”, Nietzsche). L’uomo, per ragioni antropologiche che sarebbe troppo complicato chiarire qui, diventate poi culturali, è dalla parte peggiore: quella della domanda. A rigore oggi non è più possibile fare il filo a una ragazza perché basta un niente per essere accusati di ‘molestie sessuali’ o di ‘comportamenti inopportuni’ (queste storie vengono a galla soprattutto quando ci sono di mezzo personaggi famosi del mondo artistico, Depardieu) e il maschio, il maschio normale intendo, che è sostanzialmente un timido, non osa fare un atto che dimostri il suo interessamento per lei (è il tema de Le passanti, di De André, 1974). Inoltre in un incrocio di paradossi il maschio soffre dell’aggressività di lei che, diventata in buona sostanza libera, è spesso la prima a proporsi. E’ proprio l’aggressività della donna che spaventa il maschio. E qui si entra nel tema, molto attuale, dell’infertilità. L’infertilità come scrive Gismondo (Fatto, 20.5) in Italia colpisce 2 coppie su 5. Molto spesso è dovuta a malformazioni fisiche dell’uno e dell’altra. Ma più spesso ancora si deve a questioni psicologiche. Insomma i giovani non scopano o scopano troppo poco. Uno psichiatra, che faceva la scrematura per i candidati Cinque Stelle, direi con risultati non ottimali, mi ha raccontato che spesso venivano da lui giovani che si consideravano impotenti. Naturalmente li faceva visitare da uno specialista. Fisicamente erano perfetti. Evidentemente era una questione psicologica. Conosco almeno tre o quattro dei miei amici sulla trentina, bei ragazzi, che a quell’età sono ancora più o meno vergini (“Osa” dico loro “vedrai che lei ci sta, e se non ci sta avrai fatto solo una brutta figura per cui valeva la pena tentare”).
I giovani, ragazzi e ragazze, soffrono oggi di anoressia, di bulimia e in genere di disturbi alimentari che, al limite, possono portare al suicidio. Ogni anno, nel mondo occidentale, ci sono 46.000 suicidi. Non ho mai visto un talebano suicidarsi. Cosa vuol dire? Che ai nostri ragazzi mancano valori forti, condivisi, quelli che io chiamo i valori “pre-ideologici, pre-politici” che corrispondono alla dignitas latina (difesa del più debole, lealtà, una morte dignitosa che, allora, era quella che avveniva in battaglia o per mano propria) sostituiti dallo stress cui ci costringe l’attuale modello di sviluppo. Salito un gradino devi salirne immediatamente un altro e poi un altro ancora in una corsa senza fine senza poter mai avere un momento di pausa e di riflessione, privo di ansia. Perché è proprio l’ansia che domina il nostro mondo.
4 giungo 2025, il Fatto Quotidiano
La Danimarca sta aumentando l’età pensionabile, che oggi è di 67 anni come da noi, ma salirà a 68 nel 2030, a 69 nel 2035 e a 70 nel 2040. Provvedimenti che hanno avuto l’apprezzamento di tutti i pensionabili, danesi o italiani che siano.
Io sconsiglierei a chiunque di agognare l’età della pensione. Solo la crudeltà della Modernità poteva inventarsi un istituto del genere. Da un giorno all’altro tu perdi di colpo il posto, per modesto che fosse, che avevi avuto nella vita sociale: “e adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”.
Nei tempi passati le cose andavano diversamente. Il capofamiglia, in genere di una famiglia numerosa come è ancora oggi nel mondo africano e islamico, lasciava gradualmente i lavori più faticosi ai tanti figli ma conservava quell’esperienza che i membri giovani della comunità non potevano avere. Conservava un ruolo e la sua vita un senso. Oggi, a causa della velocità con cui si susseguono le modificazioni tecnologiche, si può essere obsoleti a quarant’anni. Inoltre, in tempi passati, la donna non era costretta ad avere un impiego, privato o pubblico. Il suo lavoro si restringeva all’accudimento della famiglia, del marito, dei figli, e soprattutto a farli i figli. Non c’era la denatalità, tipica in tutti i Paesi occidentali, che oggi tanto preoccupa. In un ambiente circoscritto la donna poteva controllare i figli e se questi si mettevano in un qualche pericolo c’era comunque la comunità a proteggerli.
Il tema della pensione si lega naturalmente, è proprio il caso di dirlo, a quello della vecchiaia. Qualche decennio fa tutti i media sbandieravano lo slogan “vecchio è bello”. Il marketing, che nei tempi moderni ha sostituito l’Onnipotente, perché tutto vede, tutto prevede e di tutto si occupa, si era accorto che i vecchi stavano diventando la maggioranza della popolazione e quindi dei consumatori potenzialmente appetibili anche se non di grande valore (lo stesso vale, ma all’opposto, per il mito della giovinezza che fu fomentato dal marketing che si era accorto che dopo il boom economico i giovani avevano dei soldi da spendere, erano quelli dei padri che li avevano risparmiati e il risparmiatore, lo dico di passata, è il fesso istituzionale del sistema perché come dice Vittorio Mathieu in Filosofia del denaro, 1985, seguendo una legge economica inderogabile “alla lunga i debiti non vengono pagati”. Infatti se voi guardate i bilanci annuali delle grandi aziende vedete che hanno più debiti che crediti, del resto ciò vale più in generale per tutti i ricchi che del denaro hanno una profonda conoscenza molto maggiore di quella degli uomini comuni).
“Vecchio è bello”. Così i vecchi vengono espropriati anche del fatto di essere vecchi. Devono fare i giovani, comportarsi come i giovani, vestirsi come i giovani, fiondarsi nelle discoteche (che non sono più le balere d’antan quelle cantate da Sergio Endrigo) scopare, con Viagra, Cialis o simili, anche se non ne hanno più nessuna voglia.
Vecchio è bello? I Latini che erano meno retorici di noi la pensavano diversamente. Senectus ipsa morbus est scrive Terenzio e Seneca, in un momento di lucidità, quando non era occupato a fare l’usuraio e il cacciatore di testamenti (la sua strabiliante richiesta di dieci milioni di sesterzi fatta ai britannici fu causa di una delle poche guerre che fu costretto a fare Nerone, pacifista convinto che piacerebbe a Travaglio) rincara la dose affermando che è, per soprammercato, “Etiam insanabilis”, cioè inguaribile.
La vecchiaia è un processo lento e, nonostante tutti i prodigi della medicina tecnologica moderna, inesorabile. L’altro giorno ho misurato la mia altezza con quella di mio figlio. Eravamo uguali, in questo senso, ma mi sono accorto che avevo due centimetri di meno. Alzo una tapparella e lo faccio ancora facilmente, ma mi rendo conto che fra non molto non sarà più così. Se stai disteso a terra per fare qualche lavoretto, rialzarsi è un’impresa. Piero Ottone, forse il miglior direttore che abbia avuto il Corriere, notava in un suo libro imprudentemente chiamato Memorie di un vecchio felice, 2005, come i vecchi, e quindi lui stesso, quando si alzano da una poltrona cerchino subito un punto d’appoggio e in un altro passaggio del suo libro, dopo una bella gita in barca col nipotino, si chiede: quante altre volte potrò ripetere questa esperienza? Si insinua quindi in lui il pensiero della morte. I vecchi pensano alla morte, ci pensano sempre. Tuttavia non è la morte in sé che li spaventa tanto che, in linea di massima, quasi tutti, Cicerone a parte, sono in grado di affrontarla degnamente (“Morire è facile, lo hanno fatto tutti”) quanto il fatto che tutto ciò che hai vissuto, amato, letto, sparisce di colpo. E sai che non ci saranno i supplementari. In ogni caso ho scritto che la quarta età, altro eufemismo tutto moderno per cui, a rigor di termini, non ci dovrebbero essere più vecchi in giro, inizia quando hai dei problemi nel metterti le mutande.
Tuttavia l’aspetto più drammatico della vecchiaia non è la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza.
Anche il mondo che hai conosciuto e a volte, con l’energia e l’incoscienza della giovinezza, dominato è scomparso. Morti o dispersi nel mondo sono gli amici di una vita. Il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Sei un sopravvissuto.
30 maggio 2025, il Fatto Quotidiano