0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Le recenti proteste studentesche e giovanili pare preoccupino molto i politici e i media che son poi la stessa cosa perché gli uni sono legati agli altri e inoltre i media hanno maggiore importanza perché quel che conta oggi, nel mondo dell’apparenza, è la comunicazione, non importa quanto vera o quanto falsa. E’ quello che avviene nella guerra russo-ucraina che si svolge soprattutto, anche se non solo, attraverso contrapposte fake.

Di queste rivolte io credo invece che ci sia da esser contenti. Finalmente anche i ragazzi italiani battono un colpo, lo avevano fatto persino i nostri cugini francesi, a noi per molte cose simili, con i gilet jaunes e la rivolta degli agricoltori.

Non succedeva dal Sessantotto anche se bisogna fare una certa chiarezza. Alcune conquiste sul piano dei diritti civili, il femminismo e la libertà sessuale, sono pre-sessantottesche, appartengono agli anni immediatamente precedenti il Sessantotto, all’epoca in cui si affaccia in Europa la cultura hippie (i calciatori della “grande Olanda”, che un po’ sintetizza questi movimenti, andavano in ritiro con le mogli, le fidanzate, le compagne d’occasione). Negli Stati Uniti questi fenomeni libertari risalgono addirittura ai primi anni Cinquanta con la Beat Generation, Kerouac, Corso, Ferlinghetti.

I sessantottini e in seguito il terrorismo rosso (Brigate rosse) cavalcavano un’ideologia, sia pur un’ideologia morente, il marxismo-leninismo che sarebbe morto col collasso, vent’anni dopo, dell’Unione Sovietica. Comunque un’ideologia, sbagliata o meno, c’era. Nel frattempo nel mondo occidentale era morto anche il senso del sacro come aveva preconizzato Nietzsche alla fine dell’Ottocento. Senza ideologie, senza la favola di Dio, cosa resta oggi ai ragazzi e anche agli adulti occidentali? Siamo nella situazione, ragazzi ma anche adulti, descritta dal filosofo tedesco Mainländer, il pensatore più pessimista che abbia mai incrociato, secondo il quale noi non saremmo altro che “il cadavere di Dio il cui corpo si sta decomponendo”. E un Dio morto è impossibile resuscitarlo.

E’ ovvio che una situazione del genere non è sostenibile, esistenzialmente prima ancora che politicamente e socialmente. E i giovani quindi si ribellano, sia pur molto confusamente, c’è chi protesta a favore della Palestina, c’è chi protesta imbrattando i capolavori artistici, c’è chi, non sopportando più la situazione in cui vive, va per una via più diretta sparando all’impazzata sui coetanei. Fenomeno molto diffuso in America ma che si è presentato anche da noi. C’è anche il bullismo, non meno feroce, anzi forse più feroce perché ti ferisce non nel corpo ma nella psiche, bullismo estraneo ai nostri costumi prima che arrivassero gli anni Ottanta della “Milano da bere”. Un’Italia quindi che puntava tutto sul consumo, sull’economia, sul business, sulla ricchezza.  E la ricchezza non ha mai garantito la felicità, anche ammesso che la felicità possa esistere nella vita di un uomo, a nessuno. Basta pensare ai suicidi di Edoardo Agnelli e quelli avvenuti nelle famiglie Niarchos e Onassis. A parte che la “Milano da bere”, e non solo Milano, se la bevevano quasi solo i socialisti, era l’apertura alle forme più scatenate del capitalismo, al turbocapitalismo, a cui una spinta decisiva la darà Silvio Berlusconi, una preforma di Trump e di Elon Musk.

Inoltre il “sogno americano”, dall’ago al milione, era diventato impossibile come è dimostrato dall’allargarsi delle forbice fra i più ricchi e i più poveri di cui abbiamo dato conto di recente sul Fatto nell’articolo intitolato “Classe media: fra ricchi e poveri” (16.11).

Per soprammercato a questi ragazzi manca, per dirla con Battiato, “un centro di gravità permanente” ma perfino istantaneo e quindi si aggrappano dove possono, non c’è un’unica direzione della protesta, ma tante. Una, la più pacifica, è l’astensionismo, sono noti i dati delle recenti elezioni Regionali in Umbria ed Emilia-Romagna. In Emilia ha votato solo il 46,4 per cento, in Umbria è andata un po’ meglio, ha votato il 52,3 per cento ma comunque con una perdita percentuale di 12 punti. Insomma una buona metà della popolazione non va più a votare. Sono decenni che l’astensionismo è in costante crescita e credo che in questo fenomeno i giovani abbiano una buona parte. Chi si astiene non si rivolta solo contro la partitocrazia, forma degenerata della democrazia, le Istituzioni, la politica, ma, più in generale, contro il modello di sviluppo in cui è costretto a vivere.

Che i giovani siano i più colpiti dalla società turbocapitalista ce lo dicono le statistiche dei loro disturbi psicosomatici (aumento dell’anoressia, bulimia, stati d’ansia e via dicendo). Stretti tra la necessità di trovarsi un lavoro, sia pur a livelli miserabili, e l’odio verso il lavoro perché la mobilità sociale non esiste quasi più (se nasci povero quasi sicuramente povero resti) i giovani lo disertano anche quando potrebbero ottenerlo. E’ il fallimento del “Reddito di Cittadinanza”. C’è anche il fatto che questi ragazzi sanno benissimo che non arriveranno mai alla pensione anche quando ne avranno l’età ma questo è un dato minore: un giovane che pensa alla pensione non è un giovane, è nato vecchio. Un Angelo Panebianco.

Negli Stati Uniti, per reagire alla dittatura dello smartphone, un gruppo di ragazzi, molto sparuto per ora, ispirandosi al Luddismo, ha creato il Luddite Club dove l’uso dello smartphone è proibito. Per la verità l’obiettivo di questi moderni luddisti è anche di dare il meno tempo possibile al lavoro (fin che sono in azienda ci sto, sia pur malvolentieri, ma a casa non rompermi i coglioni) riservando le proprie energie al “tempo liberato” come lo ha chiamato Beppe Grillo, che non è il famigerato “tempo libero”, che è sempre un tempo di consumo, ma un tempo dedicato ai propri reali interessi e fors’anche alla riflessione.  

Tutta questa serie di fenomeni possono sfociare in un nuovo terrorismo? Questi giovani, proprio per le ragioni che abbiamo detto, non sono organizzati e non si vede quale gruppo o movimento possa dar loro un’unità. Sono sperduti nel loro isolamento e nel loro individualismo. Sono anarchici insomma e l’anarchismo (che traducendo un po’ alla buona la frase di Lenin secondo il quale l’anarchismo “è la malattia infantile del comunismo”) non ha mai portato da nessuna parte. Solo a farsi stritolare dal sistema che per definizione chiamiamo borghese.

“Che fare?” per dirla con Černyševskij. Non lo so. Sono anch’io sperduto in quest'agonia dell’impotenza. Solo il collasso del sistema potrà salvarci e redimerci, ma a prezzi altissimi. Non saremo noi, vittime impotenti, a scrollarci di dosso il sistema, sarà il sistema a liberarci da se stesso.

 

11 dicembre 2024, il Fatto Quotidiano

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il maestro Riccardo Muti che oggi ha 83 anni ha concesso una splendida intervista al Corriere per la firma di
Aldo Cazzullo che è bravissimo nei ritratti (memorabile quello di Albano) mentre diventa ‘cerchiobottista’
nei commenti com’è peraltro nella tradizione di quel quotidiano sia nella sua storia passata che in quella
più recente, scuola Mieli.


Fra le mille cose interessanti che dice il Maestro c’è che noi italiani siamo abilissimi nel non valorizzarci:
“Seul ha ventidue orchestre sinfoniche, di cui quattro nate negli ultimi anni. Noi ne abbiamo due.” E’ una
cosa che c’è in quasi tutti i campi. Prendiamo il vino. I francesi hanno il Beaujolais, il Bourgogne, noi l’infinità
di vini regionali che sono almeno pari se non migliori. Insomma non sappiamo venderci.
Quello musicale è un universo infinito non solo perché, come dice Muti, tutto è musica “fanno musica gli
uccelli che cantano, il tuono che rimbomba, il mare che si muove, le foglie che vibrano” ma perché la
musica è strettamente legata alla filosofia, è anzi filosofia (La nascita della tragedia: dallo spirito della
musica, Nietzsche).


Io sarei il meno autorizzato a parlar di musica perché come diceva mia madre, tanto per incoraggiarmi, ho
“un orecchio da elefante” e nelle gite scolastiche non osavo nemmeno unirmi ai compagni nei cori. Il mio
canto sarebbe così stridulo (dico sarebbe perché tuttora non oso cantare) da non essere accettato
nemmeno nel vastissimo e generoso universo musicale di Riccardo Muti. Però lo stesso Muti mi autorizza
ad avere un mio particolare universo musicale perché dice che bisogna “stare lontani dal competente”. Da
ragazzo, per imparare un po’, andavo al Conservatorio di Milano ma ne sono fuggito quasi subito: era zeppo
di “melomani” con i capelli lunghi fino al collo, alla Beethoven (cioè lontanissimi dai ‘cappelloni’ dei miei
tempi) melomani che sono più pericolosi dei cinefili e anche dei cinofili.


A me è sempre piaciuta la musica classica, in particolare Beethoven e oso dire che dopo la Nona e il Chiar di
luna si sarebbe potuto anche smettere di far musica. L’anarchico Bakunin, russo, il capofila del mondo
anarchico, diceva: “distruggeremo la borghesia ma salveremo comunque la Nona”. La borghesia non è stata
distrutta ma almeno la Nona ci è rimasta. Di Beethoven mi commuove anche il fatto che diventò sordo
all’età di trent’anni, cioè è l’unico che non ha potuto ascoltare la sua musica (il dio Fato, l’unico dio
esistente, è crudele: Beethoven l’ha fatto sordo, Galileo cieco e il più modesto Fogar che aveva nel suo Dna
il movimento, l’ha paralizzato).


Da ragazzo ascoltavo ovviamente la musica leggera italiana, sono figlio del mio tempo, ma soprattutto
quella americana perché è nei ghetti degli States che è nato il jazz che poi ha partorito il rock e tutta la
musica leggera, chiamiamola così, moderna. Un vantaggio era rappresentato dal fatto che al di là di “Elvis
the pelvis” uno dei più gettonati (era nato il Jukebox, invenzione fondamentale) era il canadese Paul Anka
che cantava un inglese molto elementare: “you are my destiny” lo capisce anche un bambino. Nelle scuole
italiane l’inglese si insegnava in modo canino, lo apprendevamo non da docenti madrelingua ma italiani e
quello che so oggi di inglese l’ho imparato viaggiando anche se l’inglese mi viene facile ascoltarlo se parlo,
poniamo, con un tedesco, ma mi diventa quasi incomprensibile se parlo con un inglese perché gli inglesi,
popolo coloniale da sempre, non si prendono nemmeno la briga di darti una mano. Basta che tu dica station con un
accento non perfetto e quelli non capiscono o fanno finta di non capire. La musica anglosassone di oggi, in
stretto slang digitale, non la capisco proprio.


Beethoven o Mozart? L’eterno dilemma. Appartengono a due mondi diversi. Mozart al Settecento e quindi
rappresenta la leggerezza del Settecento, Beethoven all’Ottocento e quindi alla profondità dell’Ottocento
tedesco che si esprime non solo nei suoi musicisti ma nei suoi pensatori, da Hegel a Kant a Fichte e
compagnia cantante, è il caso di dirlo. Ed è fatale che una grande cultura, una cultura che è arrivata
all’apice, e quindi paralizzata dall’impossibilità di andare oltre, finisca in un qualche orrore. Friedrich
Nietzsche è invece “hors catégorie” come si ci esprime in gergo ciclistico per indicare una montagna che
supera tutte le altre. Nietzsche non è del suo tempo, è nato postumo e a più di un secolo e mezzo dalla sua
morte non è solo tuttora attuale, ma è qualcosa di più perché il suo pensiero si proietta nel futuro.

La musica si connette strettamente alla scrittura. La scrittura è un’espressione musicale. Un buon articolo è
musicale. Non va appesantito con troppa cultura, cosa che inavvertitamente forse sto facendo anch’io
adesso. Mi spingo a dire che per un bel giro di frase, cosa in cui Montanelli era maestro, sono disposto a
cambiare, almeno in parte, l’orientamento del mio articolo.


Anche una musica che non ci piace, poniamo il rap e la trap, va ascoltata con molta attenzione perché
esprime un tempo, una generazione. Anche i cantautori - e noi ne abbiamo di grandissimi, da De André a
Battiato a Guccini a Ivano Fossati, e anche in questo siamo superiori ai francesi, che hanno solo Bécaud e il
pur grandissimo Jacques Brel ma quando è cantato da Battiato (“La canzone dei vecchi amanti”) vanno
ascoltati con altrettale attenzione, non tanto per il contenuto ma per la disposizione delle parole: perché ha
messo quell'aggettivo lì e non sopra o più in là?


Come ho detto in musica classica sono un incompetente e in ciò giustificato da Riccardo Muti. Ma non
tanto da non distinguere i “geni” come li chiama Fabio Capello da altri sia pur grandissimi. Ho avuto la
fortuna di ascoltare al piano, alla Scala, Arthur Rubinstein che suonava Chopin, e certamente era qualcosa
di molto diverso, di molto più alto, di quando Chopin lo faceva un altro. Più recentemente all’auditorium
Mahler, in un concerto dedicato a Mendelssohn, Schumann e Schubert, ho avuto la sorte di assistere alla
prestazione di un genio del violino, lo svedese Daniel Lozakovich. E’ giovanissimo, ha solo 23 anni. Ma ne
sentiremo sicuramente parlare in futuro. Magari dallo stesso Riccardo Muti.

 

8 dicembre 2024, il Fatto Quotidiano

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Siria. E’ stato un grave errore, a mio parere, smantellare lo Stato Islamico che sotto la guida di al-Baghdadi si era costituito nel 2014 a Raqqa (Siria) e Mosul (Iraq), smantellamento dovuto ai bombardieri americani ma con l’aiuto determinante, sul campo, dei curdi che poi, come è sempre stato con i curdi, non furono ringraziati ma, al contrario, messi alla mercé della Turchia e dell’Iraq. Cosa che spiega la loro posizione nel marasma siriano, e non solo siriano, di oggi ma di questo parleremo più avanti.

Lo Stato Islamico costituiva un vantaggio per l’Occidente perché tutti gli Isis erano concentrati in un territorio limitato e avevano un leader riconosciuto e riconoscibile come al-Baghdadi con cui sarebbe stato possibile anche trattare. Vi convergevano inoltre molti foreign fighters europei. Prima dell’insediamento come leader di al-Baghdadi la jihad islamica era dappertutto perfino a Malindi come raccontò, in uno straordinario reportage, una collaboratrice del Fatto.

Lo Stato Islamico aveva un forte appeal sui foreign fighters che vi convergevano, anche sulle donne perché in quello Stato valeva la visione islamica per cui le donne hanno una funzione procreatrice e quindi c’erano regole di sostegno alle puerpere e alle madri. Sembra buffo ricordarlo, ma buffo non è: la compagna di uno di questi foreign fighters chiese se nello Stato Islamico in cui si stavano recando esisteva la lavatrice. C’era.

Oggi l’Isis è dappertutto, in Siria ovviamente, in Iraq, in Somalia dove gli al-Shabaab hanno giurato la loro fedeltà allo Stato Islamico, nei Balcani, cioè a due passi da noi, in molti Paesi del Maghreb, Tunisia, Algeria, Marocco, in Pakistan. La sua presenza è stata invece eliminata in Afghanistan. E bisogna dire che i Talebani sono stati gli unici a combattere realmente l’Isis sul campo. Quando gli Isis si presentarono in Afghanistan i Talebani li affrontarono con durezza, sul campo, ma nello stesso tempo dovevano combattere anche gli occupanti occidentali. Vladimir Putin, in un momento di lucidità, appoggiò i Talebani riconoscendo loro lo status di “gruppo politico e militare non terroristico” mentre per gli States erano dei terroristi perché per gli americani tutto ciò che si oppone all’Occidente è terrorista, mentre come abbiamo visto negli ultimi vent’anni i veri terroristi sono loro insieme a Israele con la guerra all’Afghanistan (2001), per puri motivi ideologici, all’Iraq (2003) e quella alla Libia (2011) del colonnello Mu’ammar Gheddafi, la più devastante visto com’è ridotta ora, dove i “mercanti di morte” per salpare dalle coste libiche devono pagare una taglia all’Isis.

In questo momento gli Isis sono i migliori combattenti sul terreno, prima lo erano i serbi, non solo e non tanto perché non sono alcolisti e in linea generale non si drogano, ma perché hanno la vocazione al martirio, per loro è indifferente farsi saltare in aria e per lo stesso motivo non hanno paura degli scontri corpo a corpo con i nemici, in particolare contro soldati di eserciti regolari privi di ogni motivazione. Insomma hanno il coraggio che agli altri, in genere, manca e in battaglia, secondo Lucio Sergio Catilina, “il pericolo maggiore è per chi maggiormente teme”.

In questa espansione Isis un posto particolare, anche se non determinante, lo meritano i francesi (questi specialisti nel far la parte dei vincitori in guerre che hanno perso e infatti siedono oggi nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, con diritto di veto, insieme a russi, inglesi, americani che i nazisti li hanno combattuti realmente, pur non avendo fatto, grazie al governo Pétain e a De Gaulle, nessuna resistenza, nemmeno quella che fece la Resistenza italiana). I francesi e il Mali. Il Mali era diviso in due parti, il Mali del Sud, con capoluogo Bamako, sotto il pieno controllo dei francesi che vi stampano anche una loro moneta, perché la Francia è rimasta l’ultimo Paese coloniale in senso classico e il Mali del Nord dove convivevano pacificamente i Tuareg, nomadi, i Dogon animisti e islamici non radicali. Ma ai francesi è venuta la smania di prendersi anche il Mali del Nord. Risultato: i Tuareg, nomadi, si sono spostati un po’ più in là, nel deserto, i Dogon sono stati schiacciati ma, soprattutto, gli islamici fin lì pacifici sono diventati degli islamisti radicali, cioè Isis.

L’Isis è il contro specchio dell’Occidente, come l’Occidente vuole imporre a tutto il resto del mondo la sua ideologia e i suoi costumi, l’Isis vuol fare altrettanto imponendo la propria ideologia e i propri valori all’intero universo. Fra i due io sto con gli Isis perché almeno implicano i propri corpi mentre gli occidentali combattono con i droni, con la finanza, con gli strangolamenti economici (vedi, fra i tanti, il Venezuela).

Adesso in Siria e dintorni c’è un “mucchio selvaggio” che è difficilissimo districare. Tutti combattono contro tutti e, nel contempo, sono alleati di tutti. I curdi combattono a fianco degli Isis in funzione anti-turca anche se poi considerano gli Isis degli antagonisti, lo stramaledetto Iran è diventato oggettivamente un nostro alleato perché il governo iraniano farà pure la guerra alle donne che non portano “correttamente” il velo ma certamente non fa entrare nel proprio Paese gruppi armati. Inoltre ha la saggezza di non rispondere seriamente alle continue provocazioni di Israele, altro Paese che ha parecchio da perdere nel marasma siriano.

La Cina, com’è sua abitudine, sta a guardare e forse sarà proprio la Cina, il “terzo incomodo”, a vincere la guerra fra i due opposti totalitarismi, quello occidentale e quello islamico in versione radicale.

 

3 Dicembre 2024, il Fatto Quotidiano