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In uno dei suoi racconti (“Era proibito”) Buzzati immagina che sia bandita la poesia, cascame di un mondo che non c’è più, assolutamente improduttiva. Scrive Buzzati: “produrre, costruire, spingere sempre più in su le curve dei diagrammi, potenziare industrie, commerci, sviluppare indagini scientifiche rivolte all’incremento della efficienza produttiva, convogliare sempre maggiori energie nella progressiva espansione dei traffici… tecnica, calcolo, concretezza merceologica, tonnellate, metri, mercuriali, valori del mercato”.

Il libro è stato pubblicato nel 1958, ma evidentemente Buzzati aveva elaborato questi pensieri già parecchio tempo prima. Anticipa quindi la società dei nostri giorni quella che stiamo vivendo. Allora una controreazione era di là da venire, come erano di là da venire il WWF e simili che però hanno del problema una visione settoriale, direi miope, perché l’unico oggetto del loro interesse è l’ecologia che è solo una parte, e nemmeno la più importante, di una questione gigantesca che ci preme addosso. Del resto tutti gli ecologismi, con la loro pretesa di abbattere l’eccesso di anidride carbonica che ci ammorba sono e saranno sempre inutili fino a quando continueremo a produrre, con progressione suicida, quello che stiamo producendo. Insomma bisognerebbe scaravoltare il paradigma “Produci, consuma, crepa” per dirla con i CCCP. E’ un cambio di modello che si impone e che va capovolto finché siamo ancora in tempo. Oggi siamo al paradosso che non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre. Anomalia che era stata già notata nel 1700 da Adam Smith che pur, insieme a Ricardo, è uno dei padri di questo modello. Scrive Smith: “Il consumo è fine e scopo di ogni produzione e l'interesse del produttore dovrebbe essere considerato solo nella misura in cui esso può essere necessario a promuovere l'interesse del consumatore. Questa massima è così chiaramente evidente di per se stessa che sarebbe assurdo cercare di spiegarla. Ma nel sistema mercantile l'interesse del Commercio è quasi costantemente sacrificato a quello del produttore: e tale sistema sembra considerare la produzione, e non il consumo, come il fine e lo scopo definitivo di ogni attività” (Adam Smith, La ricchezza delle Nazioni).

Per consumare sempre di più l’individuo è costretto a lavorare sempre di più. E a questo proposito c’è un’altra interessante annotazione di Buzzati nel racconto intitolato “Il problema dei posteggi”. Scrive Buzzati osservando la pletora degli uomini e delle donne che si recano al lavoro ogni mattina “con la miserabile ansia degli schiavi, uomini e donne, formicola già per le strade del centro, anelando a entrare il più presto possibile nella sua prigione quotidiana. Seduti ai tavoli e ai deschetti dattilografici, un poco curvi, …migliaia e migliaia, costernante uniformità di vite, che dovevano essere romanzo, azzardo, avventura, sogno”. E’ la stessa sensazione che provo anch’io quando alla mattina sul lunghissimo viale della Liberazione vedo l’interminabile fila di macchine, con a bordo uomini ma anche donne, che vengono dall’estrema periferia o dall’hinterland e si dirigono verso il centro. Per far cosa? Per andare a consegnarsi, come prigionieri, in qualche ufficio. Non c’è niente da fare, siamo, come scrive Nietzsche, degli “schiavi salariati”.

28 Agosto 2024, Il Fatto Quotidiano

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Fra la Shoah e quanto sta avvenendo da alcuni mesi in Palestina c’è una differenza. Della Shoah e della “soluzione finale” (è anche incerto che Hitler abbia usato questa espressione anche se era nei suoi intendimenti nei fatti) mentre erano in corso si aveva una scarsa conoscenza sia negli Stati Uniti, sia in Europa sia nella stessa Germania. Gli americani intervennero in Europa abbastanza obtorto collo trascinati dalla provocazione giapponese di Pearl Harbour ed è certo che gli Stati Uniti temevano più il Giappone che avrebbe potuto portare la guerra sul suolo americano dei i nazisti che non avevano mai manifestato questa intenzione. Intervennero per motivi militari e non certo per salvare la comunità ebraica. Di quello che era successo si resero conto quando messo piede sul suolo tedesco poterono entrare nei campi di concentramento di Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen. Ma gli stessi tedeschi ne sapevano poco. Ci sono migliaia di tedeschi che avevano vissuto quasi a fianco dei campi di concentramento senza sospettare che cosa avvenisse in quei gironi infernali. Certo si poteva sospettare. Sospetti ne aveva Hanna Reitsch che nelle sue memorie racconta di aver espresso ad Himmler le sue perplessità su quanto avveniva in Germania ai danni degli ebrei e che Himmler rispose “credi sul serio a queste cose?”. Quindi era possibile sospettare, ma era anche legittimo non sospettare. Hanna Reitsch era un asso dell’aviazione tedesca, riuscì ad atterrare sotto le bombe americane nell’aeroporto praticamente distrutto che c’era a fianco del Bunker proponendo ad Hitler di salire sul suo aereo e di mettersi in salvo, ma il Fuhrer rifiutò: “non voglio cadere vivo nelle mani degli americani, mi metterebbero in una gabbia, come una bestia da esporre al pubblico ludibrio” (cosa che poi avvenne per personaggi minori e probabilmente colpevoli di nulla come il poeta Ezra Pound messo in queste condizioni a Tombolo). Ora Reitsch non aveva particolari simpatie per il nazismo in quanto tale casomai un’adorazione quasi adolescenziale per il Fuhrer e quindi non c’è motivo per cui mettesse in bocca ad Himmler un’espressione di fatto favorevole al movimento nazista.

Insomma quasi tutto quello che abbiamo saputo della Shoah lo abbiamo saputo dopo, non quando gli eventi erano in corso. Poi bastò leggere il Diario di Anna Frank per capire cosa era successo. Certo chi partiva dal terribile binario 21 della Stazione di Milano sapeva di andare incontro ad un destino tremendo, ma non delle sue circostanze, non aveva una consapevolezza piena delle modalità in cui si sarebbe concretizzato questo destino. Della Shoah, mentre era in corso, noi abbiamo avuto una conoscenza “de relato”, attraverso i racconti delle vittime che dal campo di concentramento riuscivano a far avere qualche notizia ai familiari o agli amici. Ma, insomma, quegli avvenimenti atroci noi, come ho già detto, non li abbiamo visti. Non c’erano le televisioni.

Quello che sta avvenendo in Palestina invece noi lo vediamo ogni giorno, in presa diretta, grazie appunto alle tv, ai social, alle testimonianze dirette dei protagonisti, nel bene e nel male.

La tragedia del popolo palestinese non sta tanto nei 40 mila morti, comunque una trentina di volte di più degli israeliani uccisi dopo l’attentato del 7 Ottobre, ma nel fatto che due milioni di persone sono costrette a vivere senza cibo, senza acqua, senza poter contare su alcuna assistenza sanitaria perché quasi tutti gli ospedali di Gaza sono stati distrutti, facendo strame del personale sanitario, medici, infermieri, volontari. Questi attacchi agli ospedali, che secondo il diritto internazionale non sarebbero comunque ammessi, vengono giustificati dagli israeliani col fatto che vi si nasconderebbero molti dirigenti di Hamas. Quel che è certo è che attualmente ci sono in Palestina più dirigenti di Hamas, veri o presunti, che ospedali.

Questo sterminio, non chiamiamolo Olocausto, avviene sotto gli occhi di tutto il mondo che non è indifferente ma impotente. Biden ha tentato in tutti i modi di convincere Netanyahu a darsi una misura, ma è stato sempre umiliato dagli israeliani con un niet che ricorda quello di Gromyko, il “signor niet” che a suo tempo esasperava gli occidentali.

Pressioni su Netanyahu sono state fatte anche dagli inglesi (recentemente una delegazione britannica è stata respinta) e prima ancora dai tedeschi e dall’Unione Europea, dall’egiziano al-Sisi, dall’emiro del Qatar, ma la risposta è stata sempre “niet”.

Il peggior nemico di Israele, e molti all’interno della comunità ebraica internazionale e locale lo hanno capito, è proprio Bibi Netanyahu che ha scatenato contro il proprio paese l’odio del mondo intero, non solo arabo: fino al Sudafrica che ha preso l’iniziativa di portare Netanyahu e alcuni dei suoi collaboratori davanti al Tribunale internazionale dell’Aia per “crimini di guerra”. Iniziativa di pura parata, pleonastica, perché si sa benissimo che questo Tribunale non ha nessuna autorità ed è anche bene che non ce l’abbia perché sarebbe il “Tribunale dei vincitori” come avvenne, alla fine della Seconda guerra mondiale, con i processi di Norimberga e Tokyo.

Che fare? Solo gli americani hanno la possibilità di fermare Israele togliendogli i rifornimenti militari ed economici. Ma non lo faranno mai, non solo perché considerano Israele il baluardo della democrazia in Medio Oriente ma perché la comunità ebraica americana, cui si aggiunge quella internazionale dei Soros dedita soprattutto a quella speculazione finanziaria che oggi ci sta strangolando tutti ed è più forte degli Stati Uniti, dell’Europa e della Russia messe insieme, è troppo potente perché qualcuno osi mettersi contro.

Si potrebbero creare delle “brigate internazionali” come è stato in passato per esempio nella guerra civile spagnola, dove accorsero franchisti e antifranchisti, comunisti e anarchici (Omaggio alla Catalogna) o nella guerra greco-turca dove Lord Byron ci lasciò la pelle. Ma questa non è più epoca di iniziative romantiche. Lord Byron non è morto solo fisicamente ma anche come idea.

23 Agosto 2024, Il Fatto Quotidiano

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Sul Corriere del dodici Agosto Mauro Magatti fa un’intemerata contro il gioco d’azzardo segnalandone, dati alla mano, i danni sociali ed economici. Ma il gioco d’azzardo non ha nulla a che fare con l’economia. Riguarda piuttosto la psicologia.

Negli anni Sessanta in una Milano più semplice non esisteva quasi un bar che non avesse un retrobottega dove si giocava d’azzardo: ramino pokerato, tressette, tressette ciapa no. A nessun pulotto veniva in mente di ficcare il naso. Sulla strada si giocava a dadi. C’erano poi bische clandestine mascherate da insospettabili circoli culturali. Mi ricordo che al Circolo Napoli, o qualcosa del genere, nel centro di Milano, c’era un retrobottega in cui giocavano il Procuratore generale e famosi giornalisti.

 La media borghesia non giocava nei bar o sulla strada ma in casa. Giocava a poker. Il vecchio poker d’antan dove le qualità del giocatore dovevano essere la psicologia e la “presenza al tavolo” (tu dovevi essere temuto anche quando non avevi in mano nulla) e non l’odioso Texas hold’em basato molto di più sulla matematica.

A casa mia, per moltissimi anni, si sono giocate grandi partite. Mia madre, russa, tollerava. I russi sono attratti dal gioco d’azzardo, non a caso si parla di “roulette russa”, e comunque a testimoniare c’è Dostoevskij non tanto per aver scritto Il giocatore ma perché sperperava i guadagni di ‘scrittore d’appendice’ frequentando tutti i Casinò d’Europa. A cominciare da quello di Baden-Baden dove c’è A tuttora un suo autografo, ben incorniciato.

 Io comunque, più modestamente andavo a Campione d’Italia, l’unico casinò che è riuscito a fallire. Quante volte, all’alba, io e il mio compagno di merende, Diego, abbiamo guardato le luci di Lugano senza nessun interesse perché a Lugano non c’era la roulette, ma una sua parodia. La sorte ha voluto che essendo diventato il compagno di una redattrice della Rsi che abitava appunto a Lugano, io, anni dopo, guardassi dall’altra sponda quell’arco che introduce a Campione, e che sembra dire “lasciate ogni speranza o voi che entrate”.

Le imperscrutabili leggi del Caso vogliono che la prima volta che vai a giocare in un casinò tu vinca. E questo è un amo fatale. Mi ricordo di “monsieur douze”. Questo monsieur douze era un uomo sulla cinquantina, sposato, con due figlie, dirimpettaio di scrivania del mio amico Diego. Quest’uomo guardava con stupore e mal celata disapprovazione Diego vedendolo sperperare la sua vita al gioco. Ma una volta, lo convincemmo, dopo molte insistenze, a seguirci a Campione. Giocavamo alla roulette, il meno predatorio dei giochi da casinò, rispetto per esempio allo chemin de fer perché il banco tiene per sé una percentuale abbastanza bassa. Dopo meno di mezz’ora il nostro amico aveva perso tutto quello che si era portato dietro. Venne a chiederci dei soldi. Glieli demmo. Ma dopo un’altra mezz’ora aveva perso anche questi. Ci chiedeva altri quattrini. Io e Diego, improvvisamente saggi, gli dicemmo di lasciar perdere. Ma venendo via e dirigendoci al vestiario lui alla disperata raccattò una fiche a caso su un tavolo. Fummo raggiunti da un valè che, ignorando me e Diego, si rivolse al nostro amico dicendogli “è lei che ha giocato il numero 12?”. Il nostro amico impallidì temendo che la giocata non fosse valida, invece il valè ci condusse al tavolo della roulette dove sopra il numero 12 c’era una montagna di fiches. La regola infatti vuole che, se non hai dato disposizione contraria, la fiche originaria rimanga sul tavolo. Quindi il nostro amico non recuperò solo i soldi che aveva perso, ma si ritrovò con un bel malloppo. Lasciò la moglie e le “bambine”, lasciò l’azienda e si comprò una residenza lussuosa. Quando andavo a Campione “monsieur douze”, così ormai era chiamato da tutti perché giocava solo il 12 e i suoi ‘vicini’, non mi salutava quasi. Ci furono alcuni mesi in cui per motivi di lavoro non potei andare a Campione. Ci tornai con Diego. In macchina gli chiesi “che ne è di monsieur douze?” “rovinato!”. Aveva perso il lavoro, la casa, la famiglia, tutto.

 Ma sul lago di Lugano si sono avute altre tragedie. C’erano due fratelli, due giovani imprenditori di Bari, che prendendo l’aereo venivano a giocare a Campione quasi ogni weekend. Sembravano solidi, ma una mattina vennero trovati cadaveri nel lago. Cos’era successo? Erano rimasti senza fiches e il croupier si era rifiutato di rifornirli come si fa di solito con i grandi giocatori. Almeno ai tempi miei il casinò sapeva esattamente la situazione finanziaria dei giocatori. Mi ricordo che una notte ad uno di questi, un immobiliarista molto noto, il croupier si rifiutò di far scendere le fiches. Lui se ne andò sacramentando, “lei non sa chi sono io”, lasciando sul tavolo un accendino d’oro. Ma due giorni dopo leggemmo sui giornali che l’imprenditore era fallito. Secondo me il Fisco, invece di inseguire improbabili capitali depositati alle Cayman, dovrebbe piuttosto appoggiarsi al casinò.

Il debito di gioco è un “debito d’onore”. Non onorarlo, come dice la parola stessa, significa perdere l’onore. C’è chi in passato ha perso grandi fortune e pur vendendo ville, appezzamenti e imprese, non è riuscito a “onorare il debito”. Allora ha preferito suicidarsi. Di queste storie sono piene le cronache di Piero Chiara, originario di Luino (sia detto di passata: in provincia si gioca molto di più che nelle grandi città, per reagire alla noia o a un tradimento o per altri mille motivi). Nell’ambiente del gioco un Renzi non avrebbe avuto scampo. Alain Delon, uomo d’onore, sì. 

Il baro. Naturalmente a poker si incontrano un’infinità di bari. Il gioco lo permette. Il baro è l’esatto contrario del gioco del poker perché ne rifiuta l’alea. Ma prima o poi il baro viene sgamato. Una volta fui io a smascherarlo. C’era un certo Di Silvio, soprannominato in seguito il “barone Di Silvio” che utilizzava questo metodo. La tornata prima che fosse lui a dare le carte si asteneva. Poi, mescolava le carte e ravanando fra quelle scartate dagli altri giocatori (cosa che non si potrebbe fare, ma di fatto si fa) si costruiva un punto forte e ne affibbiava uno solo di poco meno forte ad un altro dei giocatori. Una volta dissi: “giù le carte, scommettete che Di Silvio ha in mano un punto forte e un altro di noi uno quasi altrettanto forte ma un po’ meno?”.

C’è una cosa che chi non ha frequentato il gioco d’azzardo non sa. Il giocatore, inconsciamente, vuole perdere. Per movimentarsi la vita. In questo senso pur essendo stato al poker il “numero uno” come possono confermare alcuni testimoni del tempo, io non sono stato un vero giocatore: volevo vincere.

Qualcuno consiglia di giocare “in modo responsabile”. Nel gioco d’azzardo la responsabilità non esiste altrimenti tu non andresti incontro a sicure sconfitte, alla roulette, allo chemin, al black jack, perché è troppo impari la percentuale della cagnotta a favore del casinò.

Infine. Se uno vuole rovinarsi al gioco è un suo diritto. E’ proprio di una cultura cattolica quella di voler salvare chi vuole farsi del male da solo. Rovinarsi con le proprie mani è, oso dire, un diritto civile. Un diritto di libertà. Non siamo nel Medioevo quando si puniva il suicida.

21 Agosto 2024, Il Fatto Quotidiano