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La squadra di calcio delle Isole Fær Øer formate in maggioranza da scogli a sud-est dell’Islanda con una superficie di 1400 km² circa e 54 mila abitanti, che partecipa come l’Italia ai gironi di qualificazione per i prossimi Campionati del mondo, ha battuto 2 a 1 Gibilterra.

Ti sarai bevuto il cervello, dirà il lettore, a parlare di queste sciocchezze mentre il mondo è in subbuglio. Gli avvenimenti sportivi non sono mai sciocchezze perché contengono in sé un valore e un insegnamento etici che possono estendersi a tutto, anche alla politica.

Ti occupi delle Fær mentre a Gaza succede quello che succede? Non sono affatto indifferente a quel genocidio, perché di genocidio, con buona pace del “popolo eletto” che ritiene di averne il monopolio, si tratta. Un genocidio ancora più grave della stessa Shoah perché questa avvenne all’insaputa del mondo (gli americani intervennero nella Seconda guerra mondiale non per salvare gli ebrei da un eccidio, di cui non sapevano nulla, ma per rispondere all’attacco giapponese di Pearl Harbor) e di buona parte degli stessi tedeschi. Quello di Gaza, dei palestinesi, è un genocidio a ‘cielo aperto’ cui tutti assistiamo impotenti senza poter far nulla e dove vengono stracciati anche i ‘Minima moralia’ cioè quei valori etici che oltrepassano la logica della guerra, rispettando le grandi Organizzazioni umanitarie, internazionalmente riconosciute, come la Croce Rossa e, nel caso di Gaza, la Mezzaluna Rossa, valori che sono stati rispettati fino alla Seconda guerra mondiale compresa, anche dai nazisti. E in questo senso va ricordato che persino Adolf Hitler, almeno nell’ambito sportivo, li rispettò, salutando ripetutamente, prima e dopo la sua vittoria, il centometrista nero Jesse Owens che per un razzista antropologico come il Führer doveva rappresentare l’orrore allo stato puro.

E’ inutile commentare i misfatti israeliani a Gaza perché si commentano da soli. Avendo la consapevolezza che finché Israele sarà protetto e armato dagli Stati Uniti non c’è nulla da fare. Si tratta di una partita in cui uno solo, almeno allo stato attuale, può colpire e l’altro solo subire che “non si differenzia sostanzialmente dall’attacco dello strangolatore alla sua vittima” come scrive il polemologo Lewis A. Coser. Per la verità Donald Trump, che per sua natura non è un guerrafondaio, ha cercato di moderare in qualche modo i feroci e bestiali eccessi di Netanyahu e dei suoi. Rendendosi conto che l’odiosità mondiale che monta nei confronti di Israele può coinvolgere anche gli Stati Uniti. Una ‘moral suasion’ che non è servita a nulla perché nemmeno Trump, anche qualora lo volesse, può opporsi alla comunità ebraica americana e, ancor peggio, a quella internazionale.

Ma torniamo alle nostre Fær. I giocatori delle Fær sono tutti dei dilettanti puri. C’è chi fa l’insegnante, c’è il medico, c’è chi è nella Pubblica amministrazione. Cioè finito il lavoro vanno ad allenarsi. Il capitano delle Fær guadagna, al di là del suo lavoro, mille euro l’anno laddove qualsiasi calciatore europeo o sudamericano o, adesso, anche africano o mediorientale, guadagna milioni di euro o di dollari.

Certo quando la partita si svolge nelle Isole quelli delle Fær sono avvantaggiati dal clima che scende spesso sotto zero e di molti gradi. Il 6 settembre del 2021 in una partita giocata nelle Isole l’Under 21 Fær, favorita dal clima, impose la parità, 1 a 1, nella partita per le qualificazioni all’Europeo, alla Francia che in campo calcistico non è proprio l’ultima venuta (il 5 a 0 del Paris appioppato all’Inter nella finale di Champions di quest’anno. Ma pure qui c’è una violazione dell’etica sportiva in particolare calcistica. In passato quando una squadra strabordava, si fermava per non umiliare i colleghi).

Ma non è per questi vantaggi minimi e occasionali che ogni tanto le Fær vincono. Ma per la coesione del gruppo che è fatto di uomini normali, con una vita normale nella cui testa non c’è il guadagno anzi, mi azzardo a dire, negli abitanti delle Fær Øer che pur sono uomini moderni e appartengono a uno Stato moderno, la Danimarca, lo stesso concetto di economia sembra estraneo come per certi abitanti di comunità che noi chiamiamo primitive e, più correttamente, in lingua tedesca, naturvölker.

Ciò che motiva i faroensi è che la loro bandiera, vincente o perdente, sventoli degnamente in quell’estremo e ghiacciato angolo del mondo. Una lezione per tutti. Non solo in campo sportivo.

 

21 giugno 2025, il Fatto Quotidiano

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La drammatica storia di Ana Sergia Alcivar Chenche, 46 anni, morta per un intervento di liposuzione ha riproposto il tema tutto attuale della superiorità dell’apparire sull’essere. Non mi permetto di giudicare questa donna perché si può inventare di tutto, anche che “vecchio è bello”, ma non “grasso è bello”.

La bellezza alla quale quella donna tanto aspirava fino a rischiare e poi perderci la vita non va confusa con la grazia.

La bellezza è un fatto statico, la grazia dinamico e non può essere comprata ai supermarket del beauty. La grazia è un coincidere del nostro essere con il nostro apparire. Nella grazie c’è qualcosa di primigenio, di infantile, di candido, di casto, di spontaneo, di non lezioso, di non manierato, di non artefatto e, insieme, di malizioso. La grazie si esprime in uno sguardo, in un sorriso, in un gesto, in un movimento e talora anche in un’imperfezione birichina che anima il viso. Proprio per questi motivi la grazia non ha nulla a che fare con la perfezione. Quando frequentavo Catherine Spaak che aveva allora trentotto anni e non era più la ‘ninfetta’ di un tempo (La voglia matta, Il sorpasso) lei voleva farsi aggiustare i due dentini accavallati. E io le dicevo: “Tu sei matta Cat, noi ti abbiamo amato proprio per quello”.

Le donne di oggi sono sicuramente più belle, più curate, più levigate, più perfettine di quelle di un tempo, ma raramente hanno grazia. Sono troppo catafratte nei canoni standard della bellezza, troppo rigide. Col lifting si può essere belle ma è impossibile avere grazia. Del resto basta pensare che il prototipo attuale della bellezza femminile è la modella: gambe lunghissime, vita sottile, fianchi ad anfora, seno canonico. I guai arrivano col viso: nessun musetto spiritoso, nessun nasetto impertinente, sguardi senz’anima, sorrisi stereotipati e quelle labbra tumefatte, atroci, tutte uguali. “Sotto il vestito niente” come recitava un fortunato best seller di qualche anno fa.

Nessuna grazia hanno pressoché tutte le donne dello show business televisivo, in loro c’è sempre qualcosa di falso, di costruito, di artefatto, di plastificato, di inverosimile, una forzatura, un’esagerazione, un’enfasi che disturba e infastidisce. Perché una cosa è certa: la grazia non ha niente a che fare con la volgarità, ne è esattamente l’opposto.

Peraltro la grazia è stata sempre rara anche fra le bellissime. La giovane Brigitte Bardot aveva grazia, Marylin Monroe no, era anzi decisamente sgraziata, con quegli sfregi di rossetto, quei tacchi a spillo, quelle tette, quella capigliatura, quell’aria da donna umiliata dalla vita. Ciò che la rendeva sopportabile se non addirittura affascinante era anche qui un difetto: aveva un problema all’anca per cui camminava in modo sbilenco, deliziosamente sbilenco (si diceva infatti, allora, “camminata alla Marylin”).

Ava Gardner, una delle donne più belle di tutti i tempi (mi ricordo una copertina mozzafiato su Tempo illustrato diretto da Arturo Tofanelli) era troppo statuaria per avere grazia. Rita Hayworth troppo aggressiva, Jessica Lange, nei suoi bei dì, troppo sensuale. Julia Roberts è legnosa nei movimenti, può essere inquadrata solo di viso. Nicole Kidman è, a volte, una discreta attrice (Babygirl) ma, a conti fatti, resta pur sempre una bella pupattola americana.

Il fatto è che la grazia non si concilia con la vamp. Va ricercata in ambiti più discreti. Grazia, un’indimenticabile grazia, ha Bibi Anderson quando offre il cesto di fragole all’immalinconito Cavaliere nel Settimo Sigillo di Bergman. Ma altre bellissime del regista svedese, come Ingrid Thulin e Liv Ulmann, sono troppo intense, troppo drammatiche, per avere grazia, che ha a che fare con la leggerezza. Audrey Hepburn aveva il manierismo della grazia, non la grazia, che non va confusa né con l’eleganza né con la classe in cui c’è inevitabilmente qualcosa di ricercato e di voluto. La grazia non è mentale è naturale.

Grazia ha avuto Stefania Sandrelli – donna che ragiona, benissimo, con i cinque sensi, che non ha la razionalità tipica, in genere, del maschile – fino a che non si è imbattuta nei film di Tinto Brass ed è diventata una culona come tante.

Grazia hanno certi monelli dall’aria ribalda (Gavroche). Una grazia canagliesca era del giovane Alain Delon. Grazia e garbo e simpatia aveva, da ragazzo e da vecchio, l’inimitabile Walter Chiari. La grazia di un angelo caduto aveva il divino Laurent Terzieff (Kapò, Peccatori in blue jeans, Il deserto dei Tartari) una sua foto in piedi, a torso nudo, glabro, con l’acqua del mare che gli arriva alle ginocchia dei jeans, mentre porta a cavalcioni, sul collo, come una bimba, una Brigitte Bardot solare, anch’essa in jeans e t-shirt bianca, è l’emblema della grazia, della giovinezza, della bellezza degli anni Sessanta e della loro innocente malizia. Grazia ha, forse, Brad Pitt. Ma la sola donna dei nostri giorni (ahimè non proprio dei nostri giorni) sulla cui grazia mi sentirei di giurare è Pilar Labella (nomen omen) la ventenne, incantevole figlia dell’allora ambasciatore spagnolo in Italia.

E’ difficile trovare grazia anche nelle eroine della letteratura e in pittura, dove pur si può lavorare di fantasia. Nessuna grazia ha la Lucia del Manzoni, incatramata nella sua intollerabile castità. Anna Karenina è troppo signora, ed è troppo tormentata, per avere grazia. Emma Bovary troppo melodrammatica. Non ha grazia Odette de Crecy, eccessivamente concreta. Una sua misteriosa grazia ha invece Rachel o del Signore, la prostituta ed è lo stesso tipo di grazia, legata alla sventatezza, della Bocca di rosa di De André. Una grazia astata ha l’adolescente di Cardarelli (“Non sanno le tue mani bianche il sudore umiliante dei contatti”).

Grazia ha la Venere del Tiziano (ed è proprio quel movimento, pudico e malizioso, del braccio e della mano a coprire il pube a donargliela). Una grazia antica ha La muta di Raffaello, anche perché si ha la garanzia che starà zitta. Grazia suprema, eterna, e quindi modernissima, ha l’eterea e sensuale Venere del Botticelli che, nel genere, è l’Assoluto. Pur appartenendo, di norma, alla scabra e riottosa adolescenza o alla prima giovinezza, la grazia si può trovare anche in certe vecchiezze estreme che l’età ha prosciugato e reso essenziali. Perché, in definitiva, la grazia è fatta della qualità più difficile da ottenere in ogni campo: la semplicità. Che è proprio quanto il mondo contemporaneo ha perduto.

 

18 giugno 2025, il Fatto Quotidiano

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In un mondo in cui tutto ciò che è reale appare irreale e tutto ciò che è irreale appare reale e dove si organizzano a Bologna dei simil Sanremo dove non ci sono autori, non ci sono cantanti, non ci sono musiche ma pur non essendoci ci sono, geniale parodia della nostra società, voglio qui ricordare un uomo vero, non solo nel senso che è realmente esistito, ma che ha vissuto degnamente da uomo e che è morto pochi giorni fa nel dimenticatoio generale come è accaduto per Sergio Endrigo, triestino anche lui, accusato di essere troppo “crepuscolare” (sarà stato anche “crepuscolare” ma Aria di neve è una delle più belle canzoni da quando la musica italiana, supportata da quella americana, dei Platters, dei Paul Anka, dei Champs, dei Little Richard, ma da noi anche da Tony Dallara, il terzinato, il singhiozzo, l’urlo, si lasciò alle spalle le lagne delle Nille Pizzi e dei Claudi Villa).

Nino Benvenuti nasce a Isola d’Istria. Del triestino conserverà sempre, come Sergio Endrigo, la riservatezza, non farà mai il personaggio.

Dopo vari incontri minori e più o meno dilettantistici diventa famoso alle indimenticabili Olimpiadi di Roma (le ultime veramente umane, Berruti che vince i 200 piani contro gli sprinter americani, Kaufmann che sul traguardo dei 400 piani, fianco a fianco con l’americano Otis Davis, sviene sul traguardo, l’etiope Abebe Bikila che vince la maratona nella straordinaria cornice, che nessuno potrà mai toglierci, nemmeno i politici di oggi, della Roma imperiale) conquistando il titolo di campione olimpico nella categoria welter. Ma tutta la sua carriera si svilupperà tra i “medi”. Anche questo non è casuale perché il “medio” è, come dice la parola stessa, un uomo normale, né piccolo né eccessivamente muscolare, tipo Rocky Marciano o Cassius Clay che erano dei massimi. Diciamo che se lo si può assimilare a qualcuno per la classe questi è “Sugar” Ray Robinson, medio anche lui, cinque volte campione del mondo nella categoria, solo che ogni tanto Robinson lasciava il ring per fare il ballerino, poi rientrava e si riprendeva il titolo. A Benvenuti queste sregolatezze, fra il genio e la pazzia, sono sempre state estranee (diciamo di sfriso che boxe e ciclismo sono gli sport in cui si soffre di più. Se sei un ciclista, un campione, ma hai una giornata storta, in una tappa in salita, devi comunque andare su per non essere definitivamente tagliato fuori. Se sei un boxeur saltellare per tre minuti sul ring anche senza prendere un pugno, cercando solo di evitare quelli dell’avversario, è una fatica bestiale. Ci sono stati incontri in cui un boxeur ha perso non perché incassava cazzotti ma perché era sfinito al punto di non avere più la forza di darli).

Vinte le Olimpiadi Nino Benvenuti dovette risolvere la rivalità italiana con Sandro Mazzinghi, un picchiatore. L’incontro decisivo si svolse a San Siro davanti a 40 mila spettatori il 18 giugno 1965. Me lo ricordo nitidamente perché c’ero (allora la boxe mi affascinava, era ancora la “noble art”, oggi, in pratica, non esiste più perché le organizzazioni mondiali si sono divise in cinque e hanno a disposizione personale umano ridottissimo perché oggi nessuno è tanto povero da sentirsela di andare a prendere botte su un ring). Mazzinghi sferra un destro, Nino lo schiva piegandosi leggermente e colpisce l’avversario al mento che è il punto più debole dei pugili perché ti fa ballare il cervello. K.O. secco.

Verranno poi i tre memorabili incontri per il titolo mondiale dei “medi” con Emile Griffith, un nero delle Isole Vergini pari a Benvenuti per classe e sensibilità. Ed è per questi tre incontri che Benvenuti è passato alla storia. Il primo match si svolse il 17 aprile 1967 al Madison Square Garden e vinse Benvenuti ai punti. Vidi anche quello, svenandomi, utilizzando la borsa di studio che mi aveva dato l’Università. La rivincita si svolse, curiosamente, allo Shea Stadium, vinse Griffith di stretta misura. La “bella” fu combattutissima ma prevalse ancora Benvenuti che divenne quindi campione incontrastato dei “medi”.

Nel ’62 ci fu un episodio che segnerà profondamente la vita di Griffith. Incontrava Benny “Kid” Paret, un cubano, con in palio il titolo mondiale dei pesi welter. Griffith era anche un disegnatore di modelli di moda (con quelle mani) e si era quindi fatto la nomea di “finocchio”. Al dodicesimo round Paret, in un corpo a copro, gli sibilò: “Maricón!” che in lingua spagnola vuol dire appunto “culattone”. Griffith perse il lume degli occhi e cominciò a colpire Paret furiosamente finché l’avversario andò a sbattere sfortunatamente contro uno dei quattro pali che tengono insieme il ring. Morirà dieci giorni dopo. Lo shock per Griffith fu tale che per un anno si rifiutò di combattere rinunciando a contratti notevoli perché allora era al massimo della fama. Comunque la carriera di Griffith finì dopo l’ultimo scontro con Benvenuti.

Ma anche Nino non ne uscì indenne. Quei tre incontri avevano sfibrato entrambi. Gli fu imposto o accettò un incontro, nel 1971, a Montecarlo, con Carlos Monzón, un fortissimo medio-massimo, argentino, che per trovare avversari era sceso nella categoria dei “medi”. Quindi nei fatti era un incontro fra un ex welter e un medio-massimo naturale. Ma non è per questo che Benvenuti perse. E’ che non c’era più come pugile. Bastava che Monzón lo colpisse sulle braccia, sulle braccia, e sul volto di Nino si disegnava una smorfia di dolore. Ero presente anche quella volta. Allora avevo appena cominciato a lavorare all’Avanti!, guadagnavo niente e dovetti accontentarmi di una modestissima pensione mentre i miei colleghi della Gazzetta o di altri giornali sportivi alloggiavano in alberghi sontuosi. Ma non fu certo per questo che per me quell’incontro ebbe un sapore molto agro, avrei preferito non vederlo. 

Benvenuti si ritirò in punta di piedi, non amava gli addii che si allungano come elastici, a differenza di un altro mio idolo, nel tennis questa volta, Novak Djokovic. “Nole” a 38 anni non è più in grado di tenere scambi lunghi, deve quindi accorciare il più possibile la partita e abbreviare i colpi. Gli avversari lo sanno e ovviamente ne approfittano. Se sono di una mezza categoria inferiore a Djokovic, Nole ce la fa ancora, ma quando sono suoi pari, adesso, dico adesso, perché negli anni passati non ce n’era per nessuno, come Sinner o Alcaraz, è costretto a soccombere.

Nel frattempo Griffith si era ammalato e aveva gravi problemi economici. Si sa come è la Sanità americana. Nino lo sovvenzionava in segreto e non rese mai la cosa pubblica. Venne fuori in un’intervista di qualche anno fa per iniziativa dell’intervistatore non dell’intervistato che tra l’altro chiamava Griffith affettuosamente “Emilio”. Quelli che erano stati due grandi, favolosi, avversari si rispettavano e si volevano bene anche dopo che tutto si era concluso.

Benvenuti è uscito dalla vita in punta di piedi, dimenticato da tutti, come non avrebbe meritato ma, probabilmente, avrebbe voluto. Era nella sua natura.

 

15 giugno 2025, il Fatto Quotidiano