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Nei dintorni dell’8 marzo, Festa mondiale della donna, sono stati moltissimi gli articoli della stampa internazionale dedicati alla condizione femminile nei vari Stati del pianeta. Molto preso di mira è stato l’Emirato Islamico d’Afghanistan, come lo volle chiamare il Mullah Omar quando lo fondò nel 1996, distinguendolo dal Califfato per esempio quello di al-Baghdadi perché il leader politico e religioso, oggi Akhundzada, non pretende di essere un discendente di Maometto.

Seguo la storia dell’Afghanistan talebano dal 1996 e non ho mai visto scritte tante menzogne o, quel che è peggio, mezze verità sul quel Paese. Così in un recente e confuso articolo sul Corriere (23.4) Gian Antonio Stella sembra adombrare che ci sia un accordo fra Pakistan e Afghanistan a proposito di circa 900 mila afghani che si sono rifugiati in Pakistan e che dal Pakistan sono stati espulsi. Che c’entrano i Talebani, si dirà il lettore? Nulla. E’ una vicenda interna non all’Emirato ma al Pakistan che si vuole liberare di questi rifugiati. Probabilmente si tratta di uomini che hanno collaborato con gli occidentali. Ma, a parte la coscienza sporca, costoro non hanno nulla da temere perché i “new Talibans”, hanno, preso il potere, concesso un’amnistia generale, come fece a suo tempo il Mullah Omar. Inoltre ogni accordo fra Afghanistan e Pakistan è escluso perché l’esercito pachistano è stato il più feroce nel combattere gli afghani, militanti e no, civili e no. Nel 2008 l’esercito pachistano attaccò gli afghani nella valle di Swat provocando la fuga di circa due milioni di afghani. Il Corriere titolerà: “Milioni di profughi in fuga” dando a intendere che fuggivano dai Talebani mentre erano in fuga dall’esercito pachistano.

Quando i talebani presero il potere nel 1996 dopo aver sconfitto i ‘Signori della guerra’, gli americani non furono inizialmente ostili perché contavano che avendo un solo interlocutore, il Mullah Omar appunto, l’accordo per il famoso gasdotto che partendo dal Turkmenistan doveva raggiungere il Pakistan, cioè il mare, sarebbe stato più facile. Ma gli americani non conoscono mai le usanze dei popoli che occupano. Per questo accordo sul gasdotto gli yankee si fermarono a Kabul un solo giorno dando per conclusa la faccenda. Ma agli afghani, talebani e non, piace fare questi accordi intorno ad una tazza di thè e non di droga di cui proprio il Mullah Omar aveva proibito l’uso in modo drastico: facendo bruciare i campi coltivati a papavero e costringendo gli agricoltori a coltivare frumento mettendosi in tal modo contro la sua base elettorale, chiamiamola così, che era di agricoltori e di autotrasportatori, i più danneggiati da quel provvedimento. Un’operazione che si può definire miracolosa se si pensa ai “cartelli” colombiani, di cui però non è rimasta traccia nei media internazionali salvo un breve accenno, quasi di sfuggita, sul Corriere, dell’ambasciatore Sergio Romano. Molto più abile fu l’italiano Carlo Bulgheroni proprietario di una piccola società argentina, la Bridas, molto esperta però nel settore. Ma non fu solo per questi motivi di usanze che Omar preferì la Bridas alla Unocal, potente multinazionale americana dove erano interessati Dick Cheney e Condoleezza Rice. Ma perché si rendeva perfettamente conto che la Unocal non era solo la Unocal ma il pretesto yankee per mettere il cappello sull’Afghanistan.

Ma torniamo all’inizio del movimento talebano. La carriera di leader del Mullah Omar ebbe inizio quando, con pochi enfants du pays, male armati, liberò due donne da dei sotto panza dei Signori della guerra, che se le erano portate nei loro accampamenti per stuprarle a proprio piacimento. Venne quindi preso dalla popolazione afghana come una sorta di Robin Hood. Dirà il giovane Omar: “Come potevamo stare fermi mentre si faceva dell’Afghanistan terra di ogni sorta di abuso e di violenza nei confronti della povera gente?”.

Circolano varie leggende, tutte negative, sui Talebani. Le donne non avrebbero accesso al lavoro. Di recente, dopo un attentato Isis che uccise due poliziotte, non poliziotti, afghane si è scoperto che nel solo comparto giudiziario lavorano, spesso in posizioni apicali, duecento donne.

Più complessa è la questione del diritto allo studio. In linea di principio lo studio non è interdetto alle donne. In un decreto talebano del 1996, cioè del Mullah, è scritto: “Nel caso sia necessario che le donne escano di casa per scopi di istruzione, esigenze sociali o servizi sociali, devono coprirsi concordemente alle norme della sharia islamica” e quel documento vale ancora tutt’oggi perché la parola del Mullah Omar continua a essere legge. Solo che i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, pretendono che gli edifici scolastici dei maschi e delle femmine siano separati e distanziati. Ma pressati fra gli occupanti occidentali, i Signori della guerra e, ultimamente, dall’Isis, non hanno avuto il tempo per costruirli. Avevano altre priorità. E si può capirli.

Fondamentale nella cultura afghana è il concetto di ‘ospite’. Quando nel 1969 feci un viaggio in Afghanistan con degli amici (c’era ancora il Re, Zahir Shah che poi si rifugerà a Roma) fummo ospitati del tutto gratuitamente da dei ragazzi che appartenevano a un clan afghano. Nella fattoria vicino alla nostra c’erano dei ragazzi francesi ospitati anch’essi a titolo gratuito. Non so che cosa avesse combinato uno di questi ragazzi francesi. Arrivò la polizia del re e ne chiese la consegna. Il capo del clan disse: “Il ragazzo è mio ospite e quindi voi non lo toccate, quando esce di qui non sono più affari miei”. Questa concezione dello straniero come ospite permea tutta la cultura afghana, non solo in tempo di pace ma anche di guerra. All’inizio dell’occupazione occidentale dell’Afghanistan, nell’ottobre del 2001, una giornalista inglese, Yvonne Ridley, s’introdusse in territorio afghano convenientemente ‘armata’ di burqa (tra l’altro il burqa, a differenza del velo, non è un’usanza talebana, ma di alcuni popoli mediorientali come lo Yemen). Fu subito sgamata dai talebani che la condussero in una delle loro prigioni. Alla donna, terrorizzata dalla fama dei Talebani, venne un blocco allo stomaco e non riusciva a mangiare. I ragazzi talebani fecero di tutto per confortarla. Appurato che non era una spia, ma una vera giornalista, sia pur di un Paese occupante, armarono otto uomini, di cui avevano certamente bisogno altrove, perché le bombe cadevano su Kabul, e la condussero ai confini del Pakistan. Lei si farà musulmana. Tutti i prigionieri dei Talebani hanno sempre confermato di essere stati trattati con rispetto, in particolare le donne per le loro esigenze femminili. Daniele Mastrogiacomo, il giornalista di Repubblica che fu preso in ostaggio dai Talebani, ha confermato questo rispetto e lo ha attribuito al fatto che quei giovanissimi combattenti lo consideravano un ‘vecchio’ e in Afghanistan, come in tutte le culture tradizionali, c’è un grande rispetto per gli anziani.

I Talebani, anche sul piano del costume, sono più di manica larga di quanto non si pensi. Esemplare è l’aneddoto che riguarda due fotografi belgi, una coppia di fatto, che si trovò intrappolata a Bruxelles. Lei era di origine neozelandese e, per le durissime norme adottate da quel governo in epoca Covid, non poteva rientrare nel suo Paese, lui era bloccato per altri motivi. Telefonarono a dei comandanti talebani che avevano conosciuto quando avevano fatto i fotografi in Afghanistan. Gli dissero: “Venite pure da noi, non fate sapere di essere una coppia di fatto ma se qualcuno se ne accorge richiamateci pure, pensiamo noi a tutto”.

Ma lo si vuol capire, una volta per tutte, che non si può condurre una resistenza durata vent’anni senza l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, compresa quella femminile? Noi italiani, soprattutto in questi giorni, stiamo facendo un grande baccano sulla nostra Resistenza ma è durata solo due anni (lo dico con il massimo rispetto per i veri partigiani) e avendo l’apporto determinante degli Alleati. Gli afghani la resistenza l’hanno fatta da soli. Contro tutti.

 

30 aprile 2025, il Fatto Quotidiano

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Il fischio è un richiamo. E’ una richiesta di attenzione ma è anche un’attenzione.

Il fischio esiste da tempo immemorabile, da quando gli uomini sono apparsi sulla Terra, ma non solo gli uomini perché alcuni animali, per esempio certi uccelli, fischiano. Come ogni suono, lo ricordava Riccardo Muti, è musica che può essere solista, come nel caso di Elena Somarè, la moglie o ex moglie del mio caro amico Claudio Lazzaro che è una professionista nel genere, o inserita in un’orchestra dove vi ha quindi meno importanza.

Ma qui intendo parlare del fischio popolare, del fischio, diciamo così, operaio. Prima che i ceti popolari fossero espulsi dalla città e cacciati nell’hinterland ad abitare paesi che del paese hanno spesso solo il nome, senza una piazza e nemmeno una chiesa (chiedere a Barbacetto) a Milano tutti quelli che pedalavano fischiettavano per tenersi compagnia. Allora la bici, a Milano, era un mezzo di trasporto popolare anche se, con molto ritardo su Amsterdam (dico in ritardo perché Milano come Amsterdam è una città totalmente piatta, per trovare una salitella, brevissima, bisogna andare ai giardini difronte alla Triennale o al Monte Stella nei pressi di San Siro) non era riconosciuto come tale per cui i ciclisti, almeno fino a quando ho pedalato io, erano le vittime designate. Oggi sono i pedoni ad essere le vittime dei ciclisti che pedalano spesso contromano e persino sui marciapiedi. Le bici sono state superate come pericolo solo dai monopattini che possono raggiungere i 30 chilometri all’ora e oltre.

Quindi nella Milano popolare fischiavano più o meno tutti, non però le donne a cui il fischio era interdetto perché ritenuto troppo maschile. Giovanni Trapattoni, milanese doc (è nato a Cusano Milanino) fischiava con quattro dita, due a ogni angolo della bocca. Ma questa è cosa per artisti, per geni come il nostro mitico allenatore. Oggi i coach, in giacca e cravatta, sembrano dei manager. Del resto allo stesso modo fischiava Gioàn Brera, milanese doc anche se di un hinterland all’epoca ancora popolare.

Il fischio, come dicevo all’inizio, è una richiesta di attenzione ma è anche una forma di attenzione. Il fischio alle ragazze, alle giovani donne, aveva questo senso ma adesso è stato dannato dal ‘MeToo’. Un pomeriggio di qualche giorno fa mi trovavo seduto ai tavolini di un bar in viale Tunisia. Accanto c’erano alcuni giovani operai che stavano sistemando delle tubature. Passò una Tipa pistolatissima, vestita in un modo fatto apposta per farsi notare. Uno dei giovani operai fece un fischio, di ammirazione, e lei lo guardò con quegli occhi gelidi, da medusa, che le ragazze hanno incorporato da sempre quando giudicano un’attenzione fastidiosa. Era solo un fischio, ripeto, in nulla assimilabile a un “comportamento inappropriato”. Quando passò davanti e me le dissi: “Un giorno, signora, rimpiangerà questi fischi”.

Il fischio è legato anche al vento perché il vento fischia (“fischia il vento, urla la bufera”).

Oggi il fischio è scomparso. Resiste ancora come forma di disapprovazione. In particolare allo stadio. Però, per una volta, fanno lodevole eccezione gli americani che utilizzano il fischio in segno di approvazione ad un cantante che se l’è cavata bene senza per questo far parte dello star-system o all’orchestra che l’ha supportato.

Un tempo il fischio era utilizzato sui campi di battaglia per avvertire di un pericolo. Non credo però che oggi sui campi di battaglia si fischi perché il fischio viene di fatto sovrastato, e reso inutile, dal frastuono dei bombardieri, dei droni, della contraerea che emettono anch’essi un suono. Ma è un suono di morte.

 

26 aprile 2025, il Fatto Quotidiano

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Novak Djokovic, detto ‘Nole’ dai suoi tifosi. Aldo Cazzullo ha scritto sul Corriere: “Novak Djokovic mi ha dato un’intervista di due ore in italiano, parlando non di smash e volée ma del bombardamento di Belgrado e dell’arresto in Australia” (16.4). Djokovic parla bene cinque lingue, ma se la cava anche in spagnolo e arabo. Una volta, non so in quale occasione l’ho sentito esprimersi in cinese. Del resto gli slavi sono portati per le lingue. Rudi Nureyev ne parlava cinque, capiva anche l’italiano anche se lo spiccicava male. Mia madre, ebrea russa anche se nata misteriosamente in Polonia, Paese che detestava insieme ai polacchi (se volevo farle un dispetto le dicevo che le polacche erano più slanciate e più belle, mentre le russe, di base contadina, erano tracagnotte. Adesso viste quelle sberle di russe che vengono a vendersi in Italia, il gap mi sembra colmato) sosteneva di parlarne sei. Il ruski naturalmente, il francese perché negli anni Trenta aveva vissuto a Parigi, e parlava uno splendido italiano anche se aveva qualche difficoltà con le ‘doppie’ perché in russo non esistono e io stesso, potenza dell’ereditarietà, se ho qualche dubbio sulla mia lingua è proprio sulle doppie. Sulle altre tre che pretendeva di parlare, il lituano, l’estone, il lettone, non potevo verificare e avevo anche motivo di dubitare perché i russi, oltre avere una forte malinconia di fondo, sono strabugiardi, Putin docet. Forse il lituano lo sapeva davvero perché la sua famiglia dopo la Prima guerra mondiale aveva vissuto a Trieste con passaporto lituano. Evidentemente avevano amici in Lituania tanto che quando fuggirono dalla Russia stalinista si rifugiarono proprio in quel Paese. Quanto a me, che pur sono slavo a metà, per le lingue sono negato. So il francese perché da ragazzino i miei genitori quando affrontavano in mia presenza qualche argomento pruriginoso, parlavano in francese. L’inglese lo so male, non l’ho imparato a scuola dove veniva insegnato in modo canino da docenti italiani ma durante i viaggi internazionali. Se parlo, poniamo, con un tedesco me la cavo ma con un londinese pedigree sono in difficoltà perché non si sognano di darti una mano. Sono o non sono stati un Impero coloniale? In compenso avendo viaggiato a lungo in Africa nera so qualche parola di swahili. Ma la cosa che più mi addolora è di non sapere il russo come seconda lingua. Va bene, quando ero piccolo in Italia c’erano i nazisti e non era prudente parlar russo soprattutto con una madre ebrea, ma a partire dall’immediato Dopoguerra mia madre avrebbe potuto insegnarmelo. Fui io a chiederglielo quando avevo otto anni e quindi la possibilità di essere bilingue, com’era mia sorella Anna nata a Parigi negli anni Trenta, era tramontata. I russi sono scialacquatori di tutto, anche di patrimoni linguistici. Però questa conoscenza maldestra della lingua mi fu d’aiuto quando nel 1985 feci un reportage dall’Urss. Quando ne avevo bisogno me la cavavo da solo ma quando interloquivo con dei russi facevo finta di non sapere una sola parola di ruski così quelli parlavano liberamente.

Comunque una lingua la si può sempre imparare. Cosa diversa è conoscere la cultura e la storia di un Paese. Djokovic quando viene intervistato dopo un match massacrante dà a divedere di conoscerle entrambe del Paese in cui è momentaneamente ospite. Importante se non determinante è stata la sua prima coach, Jelena Gencic, che lo avvicinò alla cultura e alla musiche europee (per la musica serba sarebbero bastati Bregovic o Kusturica).

Novak Djokovic è per certi versi un serbo particolare. Si sa che i serbi sono violenti (quando ero in Svizzera per sfuggire alla noia della Confederazione, quando la mia fidanzata lavorava, mi rifugiavo in un bar frequentato da serbi perché una scazzottata ci scappava di sicuro).

Lui invece, Djokovic intendo, è educatissimo e leale in campo e fuori, solo quando ha dei momenti di stizza caccia i coach che gli stanno alle spalle, per poi ripescarli qualche minuto dopo. Se un punto è controverso, la palla ha toccato o no la linea, puoi fidarti della sua parola anche, e soprattutto, quando gli è contro. In questo mi ricorda Stefan Edberg che però era uno svedese e non un trafficone balcanico.

Djokovic è un uomo dolcissimo. Nei vari tornei si porta sempre dietro la famiglia, la moglie Jelena, conosciuta nell’infanzia, e i figli.

Dice ciò che pensa e fa quel che dice, pagandone tutti i prezzi. Era no-vax e per questo nel 2022 fu estromesso, e anche momentaneamente arrestato, dagli Australian Open. Idem per il successivo torneo, lo slam statunitense US Open.

Djokovic ha anche una notevole importanza politica. E’ stato lui ad affermare ripetutamente “il Kosovo è serbo e rimarrà sempre serbo” attirandosi le ire della cosiddetta Comunità internazionale che ha provato in tutti i modi di squalificarlo. Una volta fu duramente attaccato perché fotografato a cena con un ex paramilitare serbo che aveva partecipato alle guerre balcaniche. Ma, dico, uno che per la sua professione, per il suo mestiere, per la sua arte oso dire, sta mesi e mesi lontano dalla sua patria quando vi ritorna chi deve frequentare? I militari della Kfor, forza Nato, fra cui moltissimi italiani, schierati illegalmente a difesa del Kosovo?   Inoltre Djokovic nella sua infanzia a Belgrado ha dovuto subire i bombardamenti ancor più illegittimi della Nato (qualcuno ricorderà, forse, che l’aggressione alla Serbia del 1999 era stata fatta contro la volontà dell’Onu, altro che Putin) e questo Nole non l’ha certamente dimenticato.

Probabilmente sotto alcuni aspetti i suoi grandi avversari Rafa Nadal e Roger Federer erano migliori di lui, Nadal più tecnico, Federer più potente, ma Djokovic li supera per la sua grande capacità di concentrazione sui punti decisivi. Portare Djokovic al quinto set voleva dire sconfitta sicura. Naturalmente oggi che sta per compiere 38 anni qualcosa è cambiato, nonostante la sua vita, durissima da asceta, è vegano. Nella finale di Wimbledon dello scorso anno ha perso in soli tre set con Alcaraz che oggi, insieme a Sinner, peraltro attualmente autosospesosi per una questione di doping, è uno dei migliori tennisti del mondo. Ma alle Olimpiadi di pochi mesi dopo la storia è cambiata. Djokovic non aveva mai vinto un’Olimpiade perché, sacrificandosi per il suo Paese, faceva anche il doppio e il doppio-misto, tutte energie sprecate. Nel 2024 voleva a tutti i costi la vittoria alle Olimpiadi. E l’ha conquistata. Questione di concentrazione, come sempre.

Djokovic non è però, nonostante tutti i suoi record, il tennista più vincente di tutti i tempi. Chi è allora? Metto in palio 50 euri per chi lo individua. Naturalmente può indicare un solo nome, non una rosa. Se ci azzecca gli do i 50 euri, se non ci azzecca me li prendo io. Gioco d’azzardo? Sicuramente e anche pubblico. Potrei andare non i galera perché l’età me lo consente, ma se dovesse accadere preferirei la prigione ai “domiciliari”. In prigione si possono incontrare persone molto interessanti e quindi non i ‘colletti bianchi’ che in un modo o nell’altro la sfangano sempre, diventano anche, per meriti penali, editorialisti di qualche giornale, come Giovanni Toti. In altre epoche tutte culturalmente di sinistra, Adriano Sofri, accusato non di una bagatella ma dell’omicidio del commissario Calabresi, è diventato editorialista della Repubblica, il più importante quotidiano di sinistra italiano, e di Panorama, il più importante, all’epoca, settimanale di destra. Attualmente mi pare collabori col Foglio.

Del resto in galera ci sono da quando scrivo perché mi sono sempre messo di traverso. Come Djokovic.

 

23 aprile 2025, il Fatto Quotidiano