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“C’è da chiedersi se la legittimazione del magistrato non trovi più ragione, o almeno non solo e non tanto nella sua sottoposizione alla legge, quanto nel suo rapporto con i cittadini fondato sulla fiducia”. Di chi è questa frase inaudita, che è passata quasi inosservata sui nostri media? Di un cittadino qualsiasi, di uno Sgarbi qualsiasi che di legge non sa nulla se non, quando faceva “Sgarbi quotidiani”, che bisognava attaccare i magistrati in funzione berlusconiana? No. È del vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, di fatto il capo del Csm avendo il presidente, in questo caso Mattarella, solo una funzione formale. Perché la frase è inaudita? Perché sottopone il magistrato non alla legge ma al consenso popolare. “Giudici guidati da sano sentimento popolare” era la giustizia come la concepiva il nazismo. Pinelli dimentica nientemeno che la fondamentale distinzione di Montesquieu (potere esecutivo, potere legislativo, potere giudiziario) per cui la magistratura è un ordine indipendente sia dall’esecutivo sia dal legislativo.

Com’è possibile che il vicepresidente del Csm dimentichi i fondamentali del diritto? Perché in realtà Fabio Pinelli non è un magistrato togato, in servizio, ma è scelto fra “professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio” (art. 104 Cost.). I nostri Padri costituenti, uscendo noi dal fascismo, vollero una Magistratura totalmente indipendente (per la verità i magistrati - altra mentalità, altra coscienza, altra epoca - riuscirono a essere indipendenti anche durante il Regime, tanto che Mussolini fu costretto a inventarsi i “tribunali speciali”) ma perché non fosse totalmente scollegata, in una sorta di torre eburnea, dalla società, vollero che nel Csm ci fossero anche esponenti del consorzio civile. Fatta la legge, fatto l’inganno. I partiti immisero nel Csm sì esperti di diritto, ma a loro legati e sottoposti. Pinelli è in “quota Lega”, così spudoratamente si dice, e l’avversario da lui sconfitto, Roberto Romboli, era in “quota PD”. Per fare un esempio quasi a tutti noto, Maria Elisabetta Alberti Casellati Serbelloni Mazzanti Viendalmare è stata prima una parlamentare di Forza Italia, poi è entrata nel Csm in quota Forza Italia, dopodiché ne è uscita ministro per le Riforme istituzionali. È il cosiddetto sistema delle “porte girevoli”.

Bisogna però dire che anche i magistrati togati si sono degradati. Intanto si sono divisi in correnti ideologicamente ispirate a questo o a quel partito (il solo Antonio Di Pietro non è mai entrato in nessuna corrente) e quindi anche quando agiscono “in scienza e coscienza” gettano un’ombra sulla loro attività. Poi esternano le loro idee, non solo sulla magistratura ma anche sulla politica. Si dirà che la libertà di espressione è un diritto di tutti, ma quella del magistrato, che ha in mano la sorte dei cittadini, non è una professione qualunque. È, o dovrebbe essere, una vocazione come quella del medico e quindi deve accettare qualche limite. Così come il Presidente della Repubblica non può esporsi a favore o contro questo o quel partito.

I magistrati d’antan, ma qui dobbiamo risalire agli anni Cinquanta, non esternavano nulla, parlavano solo “per atti e documenti”. Ho conosciuto Emilio Alessandrini, il magistrato che sarà assassinato dalle BR, che era di questa pasta, e avevo con lui un buon rapporto, ma mai mi parlò non dico dei processi che aveva in mano ma di nessun altro processo in corso.

La nostra magistratura è stata decente nei primi anni Cinquanta e Sessanta, in seguito, non a caso, la Procura della Repubblica di Roma divenne il “porto delle nebbie”: avocava a sé i processi più spinosi e non se ne sapeva più nulla.

Vennero in seguito, nei primissimi anni Novanta, le inchieste denominate Mani Pulite. Cos’era successo? Era nato un vero movimento di opposizione, la Lega di Umberto Bossi, che rompeva il consociativismo per cui il PCI si era legato al potere. Dopo decenni di sostanziale impunità anche lorsignori, politici e imprenditori, venivano richiamati al rispetto di quella legge cui noi tutti, comuni mortali, dobbiamo sottostare. All’inizio ci fu una vera e propria esaltazione di quei magistrati, sia da parte della gente che non ne poteva più, sia da parte dei grandi giornali che avevano la coda di paglia perché quel sistema corrotto l’avevano assecondato o comunque coperto (ricorderò per tutti, ancora una volta, Paolo Mieli, direttore del Corsera, che intitolò il suo editoriale “Dieci domande a Tonino”, come se ci avesse mangiato insieme a Montenero di Bisaccia, e adesso ci dà lezione di morale). Ma, nel giro di pochi anni, un paio circa, la narrazione cambiò. I veri colpevoli erano i magistrati, i corrotti e i corruttori le vittime che spesso divennero giudici dei loro giudici. A questa narrazione si oppone, pateticamente, in una recente intervista al Fatto Quotidiano, Antonio Di Pietro ora che, cambiata l’aria, si vogliono beatificare Bettino Craxi, condannato a dieci anni di galera per “corruzione e finanziamento illecito” mai scontati perché questo soggetto riparò in Tunisia da cui gettava fango sulle Istituzioni italiane - e quindi anche su sé stesso perché di quelle istituzioni era stato premier - e persino Berlusconi, cui si dedicano famedi, strade e chissà, fra qualche anno, anche città.

Antonio Di Pietro, poiché era il più esposto, fu bersagliato con sette processi da cui uscì regolarmente assolto. Uno di questi processi partiva da una querela di Berlusconi che, com’è stato accertato, pagò due testimoni perché infamassero Di Pietro. I testimoni furono condannati, ma Berlusconi, come sempre, se la cavò. Berlusconi smantellò anche il partito, Italia dei Valori, che Di Pietro aveva messo in piedi quattro anni dopo le sue dimissioni da magistrato, corrompendo con tre milioni uno dei suoi parlamentari, Sergio De Gregorio (che confessò e patteggiò la pena).

Chiesi una volta a Di Pietro, che durante le inchieste di Mani Pulite non avevo mai nominato, consapevole del pericolo insito nel personalizzarle (il magistrato è sempre attaccabile, se non lui personalmente attraverso le mogli, i parenti, gli amici, la funzione no) perché dopo le sue dimissioni non si fosse subito presentato in politica, dove avrebbe avuto un plebiscito. “Perché, disse, non sarebbe stato corretto approfittare della popolarità acquisita come magistrato”. Gli risposi con la frase che poi usai anche al Palavobis, una delle prime manifestazioni dei cosiddetti “girotondi”, organizzata da Paolo Flores D’Arcais (dodicimila persone e forse più): “Non si può combattere con una mano dietro la schiena contro chi non solo le usa tutte e due ma all’occorrenza anche il bastone”. Per questa affermazione il ministro della Giustizia dell’epoca, Roberto Castelli, Lega, ospite del sempiterno Vespa, chiese la mia carcerazione. A parte che una cosa del genere non può essere di iniziativa di un ministro ma semmai di un Pubblico ministero, alla fine non se ne fece nulla.

A furia di rifiutare la violenza, alla fine ne siamo stati violentati.

Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2024

 

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L’attrice Sharon Stone, 66 anni, vincitrice di un Golden Globe e candidata all’Oscar, ha annunciato di essersi iscritta alla piattaforma Tinder che favorisce gli incontri. Fino a non molto tempo fa queste iscrizioni si facevano in forma clandestina non piacendo a nessuno di far sapere la propria solitudine. All’inizio Tinder era nata come piattaforma di incontri più o meno sessuali, ma man mano chi vi si iscrive, e ci sono anche donne giovani e belle, non lo fa per trovare una fuitina sessuale ma cerca se non proprio l’amore un’anima gemella con cui costruire una storia duratura. Ha detto la stessa Stone: “Cerco l’amore”. Insomma sono gli antichi “annunci matrimoniali” che adesso hanno preso forma tecnologica.

Perché il fenomeno è interessante? Perché denuncia il problema, o piuttosto il dramma, della solitudine nel nostro mondo occidentale. Problema/dramma che è percepito in particolare nelle grandi città. Nelle piccole cittadine è molto minore: tu scendi in strada, incontri sempre qualcuno che ti conosce o ti riconosce con cui andarsi a bere un bicchiere insieme o a giocare a tressette ciapanò. In una città come Milano (a Roma va già un po’ meglio) moderna, modernissima, tu sei connesso col  mondo intero ma non conosci non dico chi abita nel tuo condominio ma nemmeno il vicino di pianerottolo.

Non è stata sempre così Milano. Michele Brambilla ha scritto sul Giornale (primo febbraio) un bell’articolo sulla Milano d’antan. Ne ho scritto anch’io qualcosa su un mio libro, Una Vita. Era, quella, una città di quartieri e nel quartiere ci si conosceva tutti. Se una famiglia si trovava in difficoltà le altre erano pronte ad aiutarla. Era insomma la “Milan col coeur in man”. C’era solidarietà. A parte una sottile striscia di ricchi e di ricchissimi che avevano però il buon gusto e il buon senso di non farsi vedere o comunque di non spandere troppo (come fanno tuttora gli svizzeri) eravamo tutti poveri, molto più poveri di quanto lo si sia ora. Avevamo ancora il senso della comunità. E non parliamo solamente della mia Milano pleistocenica, anni Cinquanta, ma anche di una Milano successiva, se la può ricordare con nostalgia anche Michele Brambilla che ha una dozzina d’anni meno di me.

A Milano c’erano poi anche alcune figure fondamentali. Il “ghisa”, il vigile di quartiere, disarmato come il bobby londinese, che era un’autorità assoluta. Se succedeva qualcosa in piazza si diceva “c’è lì il ghisa, dillo al ghisa, decide il ghisa”. C’era poi il Commissario di quartiere che ci conosceva tutti, che sapeva benissimo quali erano i nostri vizi. A me è capitato di essere accusato dalla Procura di Firenze di “contraffazione di marchio industriale”. Se si fossero rivolti al Commissario di quartiere avrebbero risparmiato un bel po’ di tempo perché sapeva che di tutto potevo essere sospettato, di violenze, di molestie sessuali, persino di stupri se non di omicidi, ma non di “contraffazione di marchio industriale” che è la cosa al mondo che mi è più lontana.

La Milano di oggi è diventata moderna, modernissima, e forse questo era inevitabile nella globalizzazione, ma ha perso qualcosa: la sua anima.

Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2024

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Alain Delon. Le ultime vicende di colui che è stato un mito, una sorta di Brigitte Bardot al maschile, sono una dimostrazione per così dire planetaria, data la notorietà del personaggio, di come non sia un bene portare la vita oltre certi limiti. Delon, che ha 88 anni, ha dichiarato: “La mia vita è finita. Voglio morire”.

Il biblista dice “settanta sono gli anni della vita dell’uomo”. Mi sembra ragionevole, se uno a settant’anni non ha vissuto tutto ciò che voleva vivere e pensato tutto ciò che voleva pensare, è bene che torni “alla casa del Padre”, come dicono i cattolici. Comunque grazie, o meglio a causa, della medicina moderna si possono sgraffignare senza infamia e senza lode una decina d’anni. In Italia l’aspettativa di vita, che corrisponde in pratica alla vita media – nel Medioevo si scontava l’alta mortalità natale e perinatale che lasciava in vita i più robusti – è di 84 anni. Ma bisogna vedere come si vivono questi anni in più. E la depressione, che è molto spesso la compagna della vecchiaia, può arrivare anche molto prima. Vittorio Gassman, che col suo fisico e il suo temperamento fino ai sessant’anni era stato un ragazzo, anzi un ragazzaccio, si rese conto che non poteva più recitare quella parte ed entrò in una depressione che lo accompagnerà fino alla morte, avvenuta a 78 anni. È ovvio che più la tua vita è stata intensa e più ti è indigeribile la vecchiaia. Ci sono persone che sono “nate vecchie”, come Piero Ottone, che è stato direttore del Corriere della Sera, e che non a caso ha scritto un libro, Memorie di un vecchio felice, in cui peraltro si insinua costante il pensiero della morte. Insomma chi è “nato vecchio” fa meno fatica ad accettare la vecchiaia. Per chi ha avuto una vita movimentata e spavalda vale il contrario e l’esistenza di Delon fu spavalda, ormai ne dobbiamo parlare al passato, non solo nel cinema dove è stato un ottimo attore e in alcuni casi anche un grande attore, ma nella vita. Si arruolò giovanissimo nella Legione Straniera. Nei momenti di massimo fulgore si circondava di guardie del corpo serbe, piuttosto feroci. Una di queste guardie fu trovata uccisa. I sospetti caddero non solo su Delon ma anche sulle altre guardie del corpo. Tutti i media, scalmanati come al solito quando c’è qualcosa di pruriginoso, aspettavano con ansia questa incriminazione, perché non c’è nulla che faccia più godere la gente del vedere un personaggio famoso con le spalle a terra. È la sorte che, in tempi attuali, capita a Ferragni, sia essa o no colpevole di quanto le viene addebitato (i piazzale Loreto sono sempre in agguato). Lui avrebbe potuto cavarsela facilmente scaricando in blocco le guardie del corpo, ma non lo fece. Per un punto d’onore. Quando Mireille Darc, che è stata la sua compagna dal 1968 al 1983, ebbe serissimi problemi di cuore, lui, che poteva avere mille altre donne, le rimase fedelmente accanto, non solo per generosità, ma perché si trattava di un punto d’onore.

Inoltre, oltre gli ottant’anni si apre una pianura desolata, inesplorata, tetra, cupa, atra come si esprimevano i Latini, che non è nemmeno immaginabile da chi non l’abbia raggiunta.

Adesso strugge vedere quest’uomo, aitante, che ha percorso una vita non priva di pericoli anche fisici, malmenato, picchiato da una donna che era stata una delle sue tante amanti e che poi era divenuta una sorta di badante. Un’umiliazione intollerabile. “La mia vita è finita. Voglio morire”.

Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2023