La via l’aveva indicata Angela Merkel nel 2017 quando in un coraggioso discorso nell’ambito del G7 affermò: “Gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli” cioè a riarmarci ma prima, e oltre che riarmarci, dovremmo smetterla di disarmarci. A favore dell’Ucraina. La capacità di guerra dell’Ucraina secondo il Global Firepower Index è superiore a quella della Germania, rimpinzata delle armi più sofisticate molte delle quali provenienti proprio dagli arsenali tedeschi. L’Ucraina quindi invece di essere l’avamposto dei valori democratici dell’Occidente (così dice la narrativa ufficiale, ma l’Ucraina è in realtà un sistema totalitario dove comanda un unico partito, quello di Zelensky, e i media che possono esprimersi sono solo quelli che piacciono a Zelensky) potrebbe rivelarsi, mutata la situazione geopolitica (e con Trump cambia in continuazione) un pericolo per i Paesi dell’Unione europea. I soldati ucraini hanno poi esperienze di guerra da quando nel 2014 aggredirono il Donbass e poi nel 2022 furono costretti a difendersi dall’aggressione russa. I soldati europei non hanno di queste esperienze tranne forse i francesi quando furono gli artefici dello smantellamento, pro domo sua e contro l’Italia, del regime del colonnello Mu’ammar Gheddafi, un’operazione sciagurata come dimostra la situazione attuale della Libia, dove nel groviglio di milizie che si combattono l’un l’altra emerge l’Isis. I cosiddetti “mercanti di morte” per lasciare le coste libiche devono pagare una tangente allo Stato Islamico che vinto a al-Raqqa e Mossul nel 2019 si è espanso poi in mezzo mondo, oltre che in Libia spadroneggia oggi in Somalia, dove gli al-Shabaab gli hanno giurato fedeltà, in Kenya, in Pakistan, in Bangladesh e poi in molti altri Paesi dell’Africa nera. Isis è anche presente in Afghanistan nonostante i Talebani siano stati gli unici a combatterlo seriamente, ma stretti fra la necessità di fronteggiare gli occupanti occidentali e gli stessi Isis, hanno dovuto cedere un po’ di terreno. Nella sciagurata invasione dell’Afghanistan del 2001, oltre agli americani, c’erano forze francesi, tedesche e anche italiane. Gli italiani, secondo il loro costume di passare al momento opportuno dalla parte del vincitore (Prima guerra mondiale, Seconda guerra mondiale dopo il tracollo del regime nazista) fecero subito degli accordi con i comandanti talebani.
C’è da aggiungere che nessuna esercitazione può sopperire all’esperienza sul campo. Quando il soldato sa di poter morire in battaglia la sua forza insieme al suo coraggio si moltiplicano.
E allora cosa possiamo fare per rafforzare un’Europa attualmente imbelle e in balia, anche se in modo diverso, delle grandi Potenze, Stati Uniti, Russia, Cina? Innanzitutto e forse soprattutto bisogna che si riarmi la Germania. La Germania è oggi un Paese democratico che ha pagato tutti i suoi debiti con la storia. Ed è oggi incomprensibile che alla Germania sia proibito di essere una potenza nucleare secondo il Trattato di non proliferazione nucleare del 1968. La Bomba ce l’hanno oggi, oltre che le grandi Potenze, Stati Uniti, Russia e Cina, anche il Pakistan, la Corea del Nord e Israele che nega di averla ma ci tiene a far sapere che ce l’ha. Ce l’ha anche la Francia ma sulle capacità militari dei francesi c’è sempre da dubitare, sono bravissimi a sedersi al tavolo dei vincitori anche quando una guerra l’hanno persa, come è stato nell’ultimo conflitto mondiale tanto che oggi siedono, insieme a Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna, i veri vincitori della Seconda guerra mondiale, nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Quindi, innanzitutto, riarmare la Germania con Atomica compresa. Si obietta che c’è l’accordo del 1968. Ma gli accordi valgono, secondo il diritto internazionale, rebus sic stantibus e siccome le cose cambiano in continuazione si può dire che gli accordi sono fatti solo per essere violati. In ogni caso da quegli accordi di “non proliferazione” è passato più di mezzo secolo e molta acqua sotto i ponti. Quindi Deutschland über alles, quindi viva la Germania che potrà portare in campo oltre alle armi che adesso non ha la rigida disciplina tedesca (vedi l’estraniante racconto di Christian De La Mazière raccolto nel libro Il sognatore con l’elmetto, un francese che si arruolò nelle Waffen SS e, nonostante la guerra perduta – i russi erano già davanti a Berlino – i tedeschi si sottoponevano a esercitazioni di tutti i tipi, pratiche e teoriche, nonostante l’obiettivo fosse diventato impossibile).
Sì quindi al riarmo urgente dell’Europa. Del resto gli antichi Romani che non erano gli ultimi della pista in queste questioni dicevano: Si vis pacem, para bellum. Un orientamento che Mussolini tentò di imitare anche se gli italiani che aveva a disposizione per le sue ambizioni non avevano la tempra degli antichi Romani. Aggiungo anche che il Duce fu il migliore alleato degli Alleati: aprì il fronte greco, “spezzeremo le reni alla Grecia” e dovette intervenire la Wehrmacht, aprì il fronte africano a cui Hitler non pensava e le forze nazifasciste furono sbaragliate ad Al Alamein dove gli italiani, per una volta, si batterono valorosamente come riconobbe il feldmaresciallo Rommel, la “volpe del deserto”.
Quindi in definitiva, e per concludere, e con buona pace, è il caso di dirlo, dei lettori del Fatto, viva la guerra, abbasso la pace.
8 aprile 2025, il Fatto Quotidiano
La guerra è comune a tutti gli esseri, è la madre di tutte le cose. Alcuni li fa dei, gli altri li fa schiavi o uomini liberi (Eraclito).
“La guerra è una costante della storia. Non c’è periodo, arcaico o moderno, non c’è società, primitiva o tecnologica, non c’è regime, dittatoriale o democratico, aristocratico o popolare, monarchico o repubblicano, che non abbia conosciuto la guerra… Infondata è la convinzione, abbastanza diffusa ed espressa da ultimo da Norberto Bobbio, che le democrazie siano refrattarie alla guerra e vi vengano trascinate per i capelli dai regimi totalitari… Se si a ben vedere, la democrazia ateniese fu ferocemente bellicista, la coscrizione obbligatoria nasce proprio con la Rivoluzione francese (Napoleone) e alla guerra ’14-’18 parteciparono con entusiasmo anche le democrazie, al contrario, non si può negare che alcune dittature, come quelle dell’America latina, siano state, e siano, tendenzialmente pacifiste… E’ vero che la frequenza della guerra (oltre che, ovviamente, la sua capacità devastante) aumenta col passaggio dalle società arcaiche a quelle più evolute e che la propensione alla guerra è direttamente proporzionale al grado di civilizzazione”. Tanto più una società raggiunge, culturalmente, l’apogèo della sua civiltà, tanto più è guerrafondaia e nel modo più feroce. Ne è dimostrazione il nazismo che operò in decenni in cui la cultura tedesca, partorita dall’Illuminismo, soprattutto filosofica (Kant, Hegel, Fichte, Schopenhauer) fu egemone sopraffacendo quella francese e anche quella italiana che se si esclude Leopardi, questa straordinaria figura di poeta e di filosofo, ha partorito pochissimo (Vico coi suoi modesti ‘corsi e ricorsi’). In epoca rinascimentale l’Italia è stata fortissima nell’estetica (da Vinci, Michelangelo, Raffaello per dire solo di alcuni) ma non nell’introspezione psicologica (bisognerà aspettare Freud, che non per nulla è tedesco, Nietzsche, Dostoevskij con le sue Memorie del sottosuolo). In realtà, se si va a ben vedere, i nostri grandi artisti rinascimentali (se si esclude Leonardo da Vinci, un genio universale, forse il più grande di tutti i tempi) erano, di fatto, fermi al loro tempo mentre al nord, Bosch, anticipava di quattro secoli la psicoanalisi (La nave dei folli, attualmente al Louvre).
La guerra è uno straordinario strumento per scaricare l’aggressività che è essenziale alla vitalità. Se si comprime troppo l’aggressività poi saltan fuori “i delitti delle villette a schiera” come li ha chiamati Guido Ceronetti.
La guerra è uscita dalla noia, dal tran tran quotidiano. “In una società di massa e di diritto, come la nostra, dove la vita è necessariamente omologata, appiattita, regolamentata fino all’ultimo respiro, garantita ‘dalla culla alla tomba’, la guerra è stata sentita come uscita dalla noia. Scrive in proposito Erich Fromm, che pur è un pacifista a tutto tondo: ‘Vi sono altre motivazioni emozionali, più sottili, che rendono possibile la guerra, pur non avendo niente a che fare con l’aggressione. La guerra è eccitante persino se implica il rischio di perdere la vita e grandi sofferenze fisiche. Considerando che la vita della persona media è noiosa, tutta routine e senza avventure, l’atteggiamento di chi è pronto ad andare in guerra deve essere inteso anche come il desiderio di mettere fine al noioso tran tran della vita quotidiana, di lanciarsi nell’avventura, l’unica avventura, in realtà, che la persona media può aspettarsi in tutta la sua vita. In una certa misura, la guerra rovescia tutti i valori. Incoraggia l’espressione di impulsi umani profondamente radicati, come l’altruismo e la solidarietà, impulsi che vengono mutilati dal principio dell’egocentrismo e della competizione indotti nell’uomo moderno dalla vita normale in tempo di pace. In guerra l’uomo è nuovamente uomo’. Un’altra attrattiva psicologica della guerra è di costituire un tempo d’attesa, un tempo sospeso, la cui fine non dipende da noi, al quale ci si consegna totalmente e che ci libera d’ogni responsabilità personale. E’ un po’ come durante l’università o il servizio militare: il tuo compito è di attenderne la fine, nient’altro. Così, in un certo senso, in guerra ‘ha da passà ‘a nuttata’, non ci sono obblighi se non quello di sopravvivere, non si tratta che di aspettare. Kunkurrenzkampf, responsabilità, doveri, incombenze, dilemmi, scelte, problemi della vita civile sono lasciati alle spalle, con tranquilla coscienza, perché sono rimandati a una scadenza, la fine della guerra, sulla quale nulla possiamo. Scrive Bouthoul: ‘L’individuo… è sottratto alla meschinità della vita quotidiana, ed è liberato dagli obblighi della vita di famiglia e dal quotidiano lavoro: non ha più da pensare alla tasse né alla pigione’… Capisco che sia abbastanza impressionante ciò che sto per dire, ma la guerra è un’occasione irripetibile e inestimabile per imparare ad amare e apprezzare la vita. Non per ciò uno deve andarsela a cercare, ma una volta che c’è è questo il meccanismo psicologico che innesca. Io non dico, come Malraux, che battersi allontana l’assillo della morte (‘Ho pensato molto alla morte ma da quando mi batto non ci penso più’). Questo è il pensiero del dannunziano, dell’esteta, dell’eroe. Io dico, al contrario, che la guerra esalta la vita proprio perché ci avvicina al pensiero della morte. ‘La malattia rende dolce la salute, il male il bene, la fame la sazietà, la stanchezza il riposo’ (Eraclito). Peraltro la morte in guerra è di una qualità diversa della morte in pace. Non si tratta, anche qui, del mito della ‘bella morte’ caro agli esteti (la morte, in sé e per sé, è neutra, non conosce aggettivi) ma di qualcosa di più sottile. E precisamente questo: l’uomo tende, in genere, a preferire, nel suo immaginario, la morte violenta a quella biologica, soprattutto se la prima è conseguenza di un rischio assunto in modo consapevole”. Si preferisce la morte violenta perché si può sempre pensare, in qualche modo, di scapolarla, la morte biologica, con le atroci agonie inevitabili dei malati terminali, no.
La guerra riconduce tutto, sentimenti e bisogni, all’essenziale. Soprattutto i bisogni e in questo senso il Covid e il lockdown avrebbero potuto essere una lezione esemplare che ci avrebbe indotto a consumare di meno e quindi a produrre di meno con l’inevitabile ricaduta, positiva, sulla Co2 mentre oggi siamo al meccanismo assurdo per cui non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre.
Quando si può morire da un momento all’altro un amore va fino in fondo a se stesso, una coppia non si lascia perché lui schiaccia il tubetto del dentifricio dalla testa e lei dal fondo.
Ma nel tessuto paradossale, psicologico e oggettivo, di cui è fatta la storia della guerra e della pace c’è che nel periodo in cui vennero maggiormente esaltati i valori guerreschi, i valori della cavalleria medievale, le guerre furono particolarmente incruente. Nella Battaglia di Anghiari, quella dipinta da Leonardo da Vinci, ci furono, a seconda delle stime, un morto o al massimo una decina. La cosa si acuisce quando entrano in campo le compagnie di ventura perché queste avevano tutto l’interesse a conservare i propri effettivi, cosa che dovrebbe interessare parecchio Putin ma soprattutto Zelensky.
Ps. Legenda. I periodi con singole virgolette doppie sono estratti direttamente dal mio libro Elogio della guerra (1999) tutto il resto è espresso con mie parole attuali ma del tutto conseguenti al testo originale. Vi sono poi alcune, pochissime, attualizzazioni.
m.f
4 aprile 2025, il Fatto Quotidiano
Milano è una città di merda, abitata da una media borghesia di merda da quando i ceti popolari, più o meno all’epoca del boom, sono stati espulsi per andare a vivere nell’immenso hinterland, luoghi che di paese hanno solo il nome e a volte nemmeno una piazza o una chiesa.
Si calcola che ogni giorno entrino a Milano un milione e 300 mila abitanti dell’hinterland e altrettanti se ne vadano a sera alla chiusura degli uffici. Il risultato è che Milano ha perso la sua socialità. Di sera la città è deserta, sia per quel milione e passa che se n’è andato sia perché i milanesi dopo una dura giornata di lavoro (ed è indubbio che nel capoluogo lombardo si lavori seriamente perché il lavoro sta nel dna dei milanesi che ne hanno fatto una mistica) non hanno voglia di uscire e di andare a infilarsi in quel poco di movida che c’è. La desertificazione di Milano dopo le otto di sera crea quel clima di insicurezza che si respira in città. Perché manca il controllo sociale. Diversa è la situazione a Roma dove i romani sia per il clima sia per il loro dna escono la sera. Diciamo in estrema sintesi: a Milano si lavora, a Roma non si fa un cazzo.
A causa della desertificazione sono spariti i negozietti, le botteghe artigianali e anche attività tradizionali dell’alimentare come il fruttivendolo o il macellaio o il salumiere (per fare un esempio di vita da me vissuta: nel mio quartiere ci sono un panificio, un fruttivendolo e un minimarket, se ho bisogno di un martello devo rivolgermi a eBay). Al loro posto ci sono enormi supermarket dove le commesse fiaccate da un anonimo e massacrante lavoro non hanno il tempo e nemmeno la voglia di fare due chiacchiere. E’ la stessa ragione per cui i cinema, ma questo discorso vale in generale anche se qui il fenomeno è più acuto, si sono molto ridotti in città, da 160 negli anni Sessanta agli attuali 29. Recentemente sono stato all’Orfeo a vedere Babygirl, il film detestato dal bacchettone Travaglio, e c’erano solo otto spettatori. Ma anche il cine è un momento di socializzazione perché sei con altri spettatori, senti i loro commenti e dopo, magari, ti fermi sul marciapiede per commentare. Altra cosa è vedere un film standotene seduto comodamente a casa perché puoi farlo grazie a Netflix.
A Milano c’è un traffico allucinante, come a Roma ma con minori giustificazioni di Roma. Milano è tutta piatta, Roma “la città dei sette Colli”, no. Le piste ciclabili si potevano fare già mezzo secolo fa, e fare quindi della bici un mezzo di locomozione come ad Amsterdam. Si sono fatte adesso, troppo tardi, per cui formano imbuti per il traffico delle automobili. Il traffico diventa poi totalmente insostenibile se ci sono grandi eventi come la moda o il mobile. In quei giorni è praticamente impossibile trovare un taxi, cosa già difficile in tempi normali, bisogna affidarsi ai mezzi e in questo Milano con le cinque linee di metro più il passante resta un’eccellenza.
Milano a differenza di Roma ha già di per sé pochissimi parchi pubblici, i Giardini Montanelli, il Parco Sempione, Trenno e qui ci si ferma. In realtà ci sono nel centro molti giardini privati, me ne resi conto una volta che sorvolavo Milano con un aereo da turismo (adesso non si può più fare) ma quelli se li godono solo gli abitanti di quei ricchi edifici. Come se ciò non bastasse Milano è vittima, come ha documentato Gianni Barbacetto, ma non solo lui, di una cementificazione selvaggia. Scrive Barbacetto: “I dati ufficiali Ispra dicono che a Milano tra il 2019 e il 2020 sono stati impermeabilizzati ben 935 mila metri quadrati e che nel 2023 sono stati consumati altri 190 mila metri quadrati, l’equivalente di 26 campi di calcio” (il Fatto, 14.2). Come se ciò non bastasse le proprietà di Milan ed Inter, americane, vogliono abbattere San Siro che per noi milanesi è come abbattere il Duomo, anzi peggio, e costruirvi attorno il solito gozzillaio di hotel superlusso, centri congressi, eccetera, andando quindi ad intaccare e quasi a cancellare il Parco Trenno dove ci sono le piste di allenamento per i galoppatori (il trotto è sparito) come quella “alla Maura” in particolare. E’ un’area, quella, molto particolare perché sei a Milano e insieme fuori Milano, dove si respira ancora un profumo di erba e di campagna e dove c’è il Cemetery, cioè il cimitero che raccoglie le spoglie dei soldati del Commonwealth, dei ragazzi di vent’anni o poco più, fra cui sudafricani, i ‘razzisti’ sudafricani a cui dobbiamo anche a loro la liberazione dal nazifascismo, “venuti a morire inutilmente per la libertà d’Europa” (Curzio Malaparte).
Scriveva Dino Buzzati nel 1958 e quindi prima di Celentano (Il ragazzo della via Gluck) e di Barbacetto: “Ma nulla la città odia quanto il verde, le piante, il respiro degli alberi e dei fiori” (Il tiranno malato).
E il clima, vogliamo parlare del clima? Milano è una città mefitica, dove il tasso di umidità è quasi sempre vicino al novanta per cento e oltre e dove l’aria che si respira è quella dello scappamento delle auto. Luglio è il mese più tremendo. Non tira un alito di vento, chi può se ne fugge ai laghi o al mare. E chi non può, quasi sempre anziani con poca lira a disposizione, quasi sempre single perché Milano è una città di solitudini a due ma più spesso ad uno? Ascolta, col batticuore, le sirene delle autoambulanze che scorrazzano in una città finalmente liberata dal traffico e si dice: “se le sirene non sono per me questa volta, sarà la prossima”.
30 marzo 2025, il Fatto Quotidiano