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Una notte, tanti anni fa, mi trovavo, verso le 3, in una pizzeria affianco di Bossi. Si parlava non solo di politica ma di donne, amori, motori, che sono i discorsi dei ragazzi (o perlomeno lo erano, perché adesso vedo che i giovani sono molto più preoccupati della situazione economica), quando gli feci improvvisamente una domanda a tradimento: “Umberto, tu sei più di destra o di sinistra?”. “Di sinistra, ma se lo scrivi ti faccio un culo così”. Va da sé che lo scrissi, anche se molti anni dopo, quando questa sua affermazione non aveva più un valore politico. Comunque – avvertenza per i lettori – non bisogna mai dire nulla a un giornalista, perché prima o poi te lo ritrovi sulla pagina.

Di recente, in concomitanza con una cerimonia per i quarant’anni della Lega tenuta a Varese, luogo simbolo del fu indipendentismo leghista, Umberto Bossi ha preso decisamente le distanze da Salvini e dalla Lega di quest’ultimo. Non gli va a sangue, all’Umberto, la posizione di estrema destra presa  dalla Lega di Salvini in un governo già di destra, né tantomeno il razzismo antropologico espresso dall’attuale Lega. La mitica Padania della prima Lega era di “chi ci vive e ci lavora”, senza fare esami del sangue a chicchessia (Bossi, lo ricordo, ha una moglie siciliana). Mentre Matteo Salvini tende a scaldare la sedia sua e dei suoi, Bossi, in concordanza col grande costituzionalista Gianfranco Miglio, aveva una visione, come si dice oggi, una visione visionaria e totalmente in anticipo sui tempi. Pensava che in un’Europa politicamente unita i punti di riferimento periferici non sarebbero più stati gli Stati nazionali ma macroregioni coese economicamente, socialmente, culturalmente e anche dal punto di vista climatico. Non c’è nessuna ragione, per fare qualche esempio, che la Liguria di Ponente abbia un regime diverso dalla costa nizzarda o che Alto Adige e Tirolo siano divisi. Così come, e al contrario, non c’è nessuna ragione per cui poniamo un professore di scuola di Milano guadagni la stessa cifra di uno di Canicattì, perché a Canicattì il costo della vita è il trenta percento più basso che a Milano. È il principio delle “gabbie salariali” che Bossi voleva introdurre e per cui fu accusato di razzismo antimeridionale.

Visione visionaria, dicevo. L’Europa politicamente unita non si è fatta, anzi è più che mai disunita avendo voluto allargarla a 27 Paesi, troppo lontani tra di loro per storia e cultura, ma poiché ognuno ha diritto di veto l’Europa si trova di fatto paralizzata, come dimostra la sua totale inconsistenza nei grandi problemi globali.

La prima Lega di Bossi, essendo sostanzialmente un movimento antipartitocratico, fu ovviamente osteggiata in tutti i modi dai partiti, come avviene oggi per i 5 Stelle (“le tre repubblichette” per dirla col socialista Ugo Intini). L’ascesa della Lega, di quella Lega, si lega strettamente alle inchieste di Mani Pulite che stavano scoprendo il Vaso di Pandora della corruzione della classe dirigente politica ed economica. Più i magistrati di Mani Pulite facevano il proprio, doveroso, mestiere, più cresceva la Lega di Bossi, che spezzava finalmente il consociativismo (alleanza, di fatto, fra Dc e Pci/Pds) che garantiva l’impunità alla classe dirigente, politica e imprenditoriale.

Gli errori di Umberto Bossi furono sostanzialmente due. Il primo, e più grave, è stato unirsi all’avanzante Silvio Berlusconi, che pur Bossi aveva sprezzantemente chiamato Berluscaso, Berluschi, Berluscosa, Berluskaz. Il terrore di Bossi era la moltitudine di reati da cui era stato investito. La sua Lega non aveva i quattrini sufficienti per farvi fronte. Io cercavo di spiegare ad Umberto che i suoi erano reati di opinione (vilipendio alla bandiera, etc) molto diversi da quelli prettamente criminali di Berlusconi. Gli dicevo: “Fai una campagna contro i reati d’opinione, residuo del codice fascista di Rocco, e troverai molti alleati”. Ma non ci fu  niente da fare.

Il secondo errore, forse meno perdonabile perché Bossi non vi era spinto da alcuna esigenza, è stato l’atavico familismo italiano, per cui diede al figlio Renzo, il delfino, il “trota” nel linguaggio di Bossi che non ha mai mancato di ironia, il ruolo di consigliere regionale della Lombardia, dove Renzo fu coinvolto proprio in quei reati di appropriazione indebita dei rimborsi elettorali che erano stati una delle basi delle critiche della Lega bossiana a quello che allora si chiamava il “sistema”.

Bossi è sempre stato accusato dai vari monsignor Ernesto Galli Della Loggia e simili di rozzezza linguistica e personale (“la canotta bianca” che invece voleva simboleggiare, e simboleggiava, la vicinanza della Lega ai ceti popolari) e istituzionale. Ebbene, nel discorso in Parlamento del 22 dicembre 1994 in cui Bossi fece cadere il primo governo Berlusconi, non c’è rozzezza né linguistica né istituzionale. Quel discorso, se non ricordo male, terminava così: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. Si illudeva, povero Umberto. E poveri noi.

Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2024

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La notizia cui i media hanno dato grande risalto in questi giorni, e che continua a tenere le prime pagine, è l’attacco iraniano a Israele. Ed è ovvio perché è la prima volta che Tehran attacca direttamente Israele sul suo territorio. Ma è altrettanto ovvio che l’attacco è stato di pura parata. Gli Ayatollah sapevano benissimo che i 170 droni e i 150 missili, balistici e da crociera, lanciati sul territorio israeliano non avevano nessuna possibilità di perforare i sistemi difensivi israeliani, come l’Iron Dome (“cupola di ferro”), che si sono sempre dimostrati impermeabili. Se avessero voluto veramente sfondare le difese israeliane gli iraniani avrebbero agito via terra con i gruppi di pasdaran. Credo anzi che paradossalmente gli Ayatollah temessero che un qualche loro missile o drone andasse a segno. Il vero obiettivo degli Ayatollah, dopo l’attacco israeliano al consolato iraniano di Damasco con l’uccisione di cinque o sei capi pasdaran, era rivolto più che all’esterno all’interno: dimostrare al popolo iraniano che il regime non rimaneva inerte davanti a un attacco dei nemici di sempre. E in effetti nella notte fra venerdì e sabato a Tehran il popolo iraniano, che nei momenti difficili si ricompatta, è sceso in piazza, dimenticando divisioni politiche e di genere, per festeggiare quella che in realtà era una sconfitta, perché gli israeliani hanno dimostrato ancora una volta la loro invulnerabilità nei cieli e l’impossibilità di Tehran di perforare, almeno via aerea, le difese israeliane.

Pari e patta dunque? Così è sembrato dalle parole pronunciate dall’ambasciatore iraniano all’Onu, Amir Saed Iravani. Anche se pari e patta non è affatto, perché gli iraniani lasciano sul campo, oltre alla distruzione del loro consolato a Damasco,  l’uccisione di cinque o sei alti dirigenti.

Ora dipende da Israele. Vorrà accontentarsi della vittoria di fatto, non avendo lasciato sul campo, a differenza degli avversari, nemmeno un ferito o un muro sbrecciato? O vorrà mettere in atto una controrisposta all’offensiva, di fatto puramente simbolica, del regime di Tehran, innescando così un circolo vizioso che manderebbe al diapason le tensioni in Medio Oriente, cosa di cui nessuno sente il bisogno, a partire dagli Stati Uniti che hanno già annunciato che, in caso di una controffensiva di Tel Aviv, non vi prenderebbero parte né in senso difensivo né tantomeno offensivo?

L’interesse di Tehran è di mantenere la propria posizione di media potenza nell’area, cosa che non ha nulla a che vedere con le ambizioni della Jihad islamica che non solo vuole spazzar via Israele dalla carta geografica ma combatte l’intero mondo degli “infedeli”, si tratti dell’Europa o della Russia o di qualsiasi altro Paese che non segua i loro dettami, i dettami della sharia (gli Stati Uniti, come ho cercato di chiarire in un precedente articolo, sono per ora immuni perché troppo lontani dalle basi europee o africane della Jihad).

Aver messo con troppa disinvoltura, e da anni, dalla caduta dello scià, Tehran nell’Asse del Male ha già provocato contraccolpi negativi. L’Iran aveva firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e accettato le ispezioni dell’Aia che fino a non molto tempo fa avevano certificato che nelle loro strutture nucleari gli iraniani avevano arricchito l’uranio solo del 4/6 percento, cioè per usi civili e medici. Adesso l’arricchimento dell’uranio iraniano è arrivato al 70 percento, vicinissimo alla possibilità di farsi un’Atomica, per la quale è necessario un arricchimento del 90 percento. Ed è ovvio, anche se abbastanza spaventoso, che sia così, perché di fronte a un Paese, Israele, che ha la Bomba, la sola possibilità di difesa è avere un altrettale deterrente nucleare. Eppure l’Iran, fin dai tempi della rivoluzione khomeinista, è stato sommerso da sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati reggicoda, compresa l’Italia che pur aveva, attraverso l’Eni, ottimi rapporti commerciali con il paese degli Ayatollah.

Non bisogna mettere un avversario con le spalle al muro, perché allora diventa molto probabile che sferri, per dirla in termini pugilistici, il “colpo della domenica”. L’Iran, anche se a noi quel regime non piace, è un Paese responsabile, che certo non punta a una catastrofe mondiale, la Jihad no. Bisogna anche vedere, in prospettiva storica, da dove e perché è partita la rivoluzione di Khomeini nel 1979. Con lo scià l’Iran era un Paese dove esisteva una striscia sottilissima di grandi ricchezze perlopiù ereditarie, di cui si poteva avere contezza a Londra o a Parigi, dove le bellissime figlie di quella classe dirigente erano mandate a studiare. Tutto il resto era povertà. Una povertà economica, non culturale, perché gli iraniani, eredi della Grande Persia (bisogna anche tener conto che l’Iran non è un Paese arabo), sono tendenzialmente colti. Quando mi trovavo a Tehran negli anni della guerra Iraq-Iran (e non Iran-Iraq come si dice abitualmente, perché l’aggressore fu Saddam Hussein, e anche il linguaggio conta) i miei amici conoscevano non solo i nostri grandi, da Dante in su e in giù, ma anche i nostri autori del momento, da Calvino a Eco, mentre noi della cultura persiana conosciamo, quando va bene, solo Omar Khayyam. La rivoluzione khomeinista, secondo me, ha lavorato bene, creando un ceto medio, economicamente forte, che non accetta più le regole di una legge, la sharia, dettata a Maometto quattordici secoli fa. Di qui la rivolta, attualmente in corso, dei giovani e soprattutto delle donne contro il regime di Khamenei. Se vogliamo che la dirigenza politica e religiosa iraniana si intestardisca su posizioni divenute eticamente insostenibili non dobbiamo far altro che comportarci con l’aggressività di Israele.

Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2024

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È passato al Senato un disegno di legge che tende a rendere più difficile l’acquisizione di smartphone, Pc e tablet da parte della Magistratura. Sappiamo bene che è dall’epoca di Mani Pulite, quando i magistrati di Milano richiamarono la classe dirigente, politici e imprenditori, al rispetto di quelle leggi che noi tutti, cittadini comuni, siamo chiamati a osservare, che è in atto una controffensiva d’ispirazione berlusconiana per limitare il più possibile il potere di indagine che la legge attribuisce ai magistrati del Pubblico ministero (per i reati da strada, commessi in genere dai poveracci, vale un altro Codice, quello della Santanché: “In galera subito e gettare via le chiavi”).

Ma non vogliamo fare qui un cattolico processo alle intenzioni, dato che la materia è troppo importante: si tratta di trovare il modo di contemperare diritti e interessi fra loro contrastanti: diritto alla presunzione di innocenza, garantito dalla Costituzione in modo esplicito (art. 27 Cost.), il diritto alla privacy, che non è garantito dalla Costituzione in forma diretta ma attraverso l’interpretazione dell’art. 2, l’interesse (non quindi un diritto) del cittadino ad essere informato, l’interesse, e quindi anche qui non un diritto, ad informare cosa che riguarda in particolare la categoria dei giornalisti.

Il Codice Rocco aveva trovato la soluzione: l’istruttoria è segreta, il dibattimento è pubblico. Cioè nella fase preliminare dell’indagine, quando Pm e polizia giudiziaria brancolano ancora nel buio, si può dare sì notizia degli atti istruttori ma non del loro contenuto. Per fare un esempio, si può dare notizia di una perquisizione ma non dei suoi risultati. Il contenuto dei risultati dell’indagine preliminare viene vagliato dal Gip, un giudice giudicante, e quindi al dibattimento arrivano solo i materiali ritenuti utili al processo, tenendo fuori tutto il resto, cioè persone che con quel processo non c’entrano nulla.

Va da sé che un sistema come questo prevede la correttezza di tutte le parti in causa. Il Pm non può spifferare al giornalista “amico” il contenuto delle sue indagini. Nel periodo in cui facevo cronaca giudiziaria per l’Avanti! di Milano ho conosciuto molto bene Emilio Alessandrini, che verrà poi assassinato nel 1979 da un commando di Prima Linea. Fra noi si era creato un rapporto amichevole. Durante gli intervalli delle udienze ci fermavamo spesso a parlare in quel bar che sta affianco del Palazzo di giustizia di Milano, e mai Alessandrini mi dette qualche informazione sui processi che seguiva né tantomeno su quelli dei suoi colleghi. Ma Alessandrini apparteneva a una categoria di magistrati scomparsa da tempo, quelli che parlavano solo “per atti e documenti”.

C’è poi il problema degli avvocati difensori che hanno il diritto di avere il contenuto degli atti istruttori. Dipende, ma sarebbe meglio dire dipenderebbe, dalla correttezza di questi avvocati non spifferare il contenuto di questi atti al giornalista “amico”.

C’è poi la questione dell’’avviso di garanzia’. Fu introdotto a metà degli anni Novanta per una lodevole iniziativa della sinistra, cioè il cittadino doveva essere informato che era stata aperta un’indagine su di lui. Ma l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Perché oggi se ricevi un avviso di garanzia sei massacrato dal tritacarne massmediatico. Nel 1993 Claudio Martelli, improvvidamente ministro della Giustizia, fu costretto a dimettersi dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per il crac dell’Ambrosiano.

È chiaro che tutto ciò che sto scrivendo è puramente teorico, anche se una voce in capitolo ho diritto di averla essendomi laureato in Giurisprudenza alla Statale di Milano (110 e lode) con una tesi proprio su “Libertà di stampa e segreto istruttorio”. Ma è lo spappolamento della cultura giuridica italiana a rendere inutili e financo oziose queste mie riflessioni.

È dopo Mani Pulite che si affacciarono due categorie mai previste da alcun codice: i “garantisti” e i “giustizialisti”. Il magistrato non può essere né “garantista” né “giustizialista”: deve solo e semplicemente applicare la legge vigente. Se sbaglia esiste la possibilità di una serie di ricorsi: il Riesame, l’Appello, la Cassazione e adesso anche la Corte europea dei diritti dell’uomo il cui ricorso però è inibito al comune mortale perché estremamente costoso.

La categoria garantisti/giustizialisti riguarda quindi i media. E naturalmente i media stanno dall’una o dall’altra parte a seconda della loro impostazione politica. Sono l’uno o l’altro “a targhe alterne”.

Si possono ovviamente criticare i singoli provvedimenti della Magistratura ma non si può revocare in dubbio la Magistratura in quanto tale, che secondo la classica distinzione di Montesquieu è, insieme al legislativo e all’esecutivo, uno dei tre ordini cardine di uno Stato democratico. O meglio lo si può anche fare ma allora ci si mette sul piano delle Brigate Rosse e di tutti quei movimenti, terroristi ma non sempre terroristi, che contestano lo Stato in quanto tale. Se ci si mette su questa linea allora bisogna coerentemente aprire tutte le carceri perché chiunque può essere stato vittima delle ingiustizie di uno Stato illegale.

C’è poi il nodo essenziale della Giustizia italiana. La “terzietà” dei giudici, la composizione del Csm, la divisione dei magistrati in correnti sono problemi anch’essi ma di minor peso. Il nodo essenziale è la lunghezza abnorme delle nostre procedure che si porta dietro il problema della carcerazione preventiva e della libertà di stampa. Io posso ben chiedere il silenzio ai giornali per un periodo limitato di tempo, ma se questo silenzio si deve protrarre per anni significa puramente e semplicemente mettere la mordacchia all’informazione.

Ma ancora più grave in quest’ottica è il dramma della carcerazione preventiva. Se, come avviene in Gran Bretagna, con un imputato detenuto le istruttorie sono brevi, rinunciando magari a individuare il colpevole, per l’imputato innocente, che sarà poi assolto nel processo, è un brutto incidente di percorso, attenuato dal fatto che poi la proclamazione della sua innocenza gli restituirà la reputazione. Ma se la carcerazione preventiva dura anni, come è avvenuto per Pietro Valpreda, in galera per quattro anni senza processo, o per Giuliano Naria, supposto terrorista che ha scontato nove anni di reclusione preventiva per poi essere assolto, è la distruzione di una vita, o per tanti altri casi ‘minori’, chiamiamoli così, di persone che non avevano l’impatto mediatico di un Valpreda o di un Naria, di cui nessuno si è mai occupato tranne, oso dirlo, chi scrive.

Faccio infine notare che gli ipergarantisti di oggi sono ideologicamente gli eredi degli iperforcaioli di ieri, che non spesero una riga per le ingiuste carcerazioni né di Valpreda né di Naria né di altri stracci.

“La legge è uguale per tutti” è scritto con solennità nelle aule dei Tribunali. Ma noi viviamo nella fattoria degli animali di Orwell dove “tutti gli animali sono uguali, ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri”.

Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2024