Adolf Hitler è sempre stato bollato come il “male assoluto” e quindi utilizzato nel senso che tutto ciò che sarebbe avvenuto dopo non poteva essere peggio. Questo è discutibile. Le ambizioni di Hitler si limitarono, non senza qualche ragione, a mettere le mani sull’Europa di lingua e di cultura tedesca. Il nazismo, a differenza della Gran Bretagna, della Francia, del Belgio e persino dell’Italia fascista, non ha mai avuto mire colonialiste. Ha messo solo le mani sulla Namibia, estremo sud dell’Africa, che non a caso è uno dei Paesi meglio organizzati e più pacifici del continente nero.
Si dirà che le modalità delle sue conquiste sono peculiari: razzismo e xenofobia. Ma che sta facendo oggi il “democratico” Netanyahu? Non è xenofoba la sua guerra ai palestinesi che vuole cacciar via dalla faccia della Terra? Con l’aggravante che il nazismo, anche in piena Seconda guerra mondiale, rispettò sempre le grandi Organizzazioni internazionali, a cominciare dalla Croce Rossa. In Palestina assistiamo invece, da parte delle Idf, al disconoscimento di fatto di queste organizzazioni, si chiamino Croce Rossa o Mezzaluna Rossa o della neutralità dei giornalisti. C’è sempre una buona scusa per attaccare gli ospedali, trentasei allo stato attuale e le organizzazioni pacifiste che cercano di portare cibo ai palestinesi. Per cui la mattanza non sta tanto nei 55 mila civili palestinesi uccisi (dato sicuramente in difetto) ma dal fatto che costoro sono ridotti alla fame e hanno una estrema difficoltà, per dire impossibilità, a curarsi.
Israele si dice, è un Paese democratico, ma ammesso che ciò sia vero, non gli dà il diritto di attaccare i Paesi che democratici non sono o non sono considerati. Un esempio molto attuale è quello dell’Iran. L’Iran ha mai attaccato nessuno? E’ una potenza atomica? No perché aderendo al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) ha sempre accettato le ispezioni dell’Aiea cioè l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che nelle sue ispezioni a sentire il suo direttore, l’argentino Rafael Grossi, ha sempre accertato che in Iran l’arricchimento dell’uranio non è mai andato oltre il 60 per cento, cioè per usi civili e medici. Per fare la Bomba l’arricchimento deve arrivare al 90 per cento.
Ma qui il discorso si fa più ampio e risale ai Processi di Norimberga e di Tokyo dove i vincitori, per la prima volta nella storia, non pretesero solo l’essere più forti dei vinti ma anche di esserne moralmente superiori. Dubbi su questi processi furono espressi, all’epoca, proprio da intellettuali liberali. Scrisse Rustem Vambery: “Che i capi nazisti e fascisti debbano essere impiccati e fucilati dal potere politico e militare, non c’è bisogno di dirlo; ma questo non ha niente a che vedere con la legge… Giudici guidati da ‘sano sentimento popolare’, introduzione del principio di retroattività, presunzione di reato futuro, responsabilità collettiva di gruppi politici e razziali, rifiuto di proteggere l’individuo dall’arbitrio dello Stato, ripristino della vendetta tribale… Chiunque conosca la storia del diritto penale sa quanti secoli, quanti millenni, ci sono voluti perché esattamente il contrario di questa storia e di questa prassi… fosse universalmente riconosciuto come parte integrante del diritto e della giustizia…” e Benedetto Croce in un coraggioso discorso all’Assemblea costituente dichiarava: “Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito per giudicare, condannare e impiccare, sotto nome di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni di loro e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra”.
Più possibilista fu il Guardian, giornale britannico di ispirazione liberale: “Il processo di Norimberga apparirà giusto o sbagliato nella storia a seconda del futuro comportamento delle nazioni che ne sono responsabili”. “Questo comportamento abbiamo avuto modo di verificarlo nella guerra del Vietnam dove abbiamo usato il napalm e armi chimiche, combattendo guerre in Medio Oriente per interposta persona e sulla pelle altrui, “suicidando” Masaryk e Allende, schiacciando nel sangue la rivolta ungherese, invadendo la Cecoslovacchia e l’Afghanistan, umiliando la libertà della Polonia, insidiando con le armi e i servizi segreti la sovranità del Nicaragua e del Salvador, difeso e sostenuto i più feroci, sanguinari e criminali dittatori salvo poi dismetterli, quando non più presentabili, a suon di “golpe”, organizzato decine di colpi di Stato, fomentato e guidato una buona fetta di terrorismo internazionale e, infine, messo il tallone occidentale e accampato le nostre pretese egemoniche su ogni angolo, anche il più recondito, del mondo” (L’Europeo, 1986).
Questo articolo è del 1986, ma poi è accaduto anche di peggio. Gli occidentali, a guida americana, violando tutte le norme del diritto internazionale, hanno aggredito la Serbia (1999), l’Afghanistan (2001), l’Iraq (2003, 650 mila morti), Libia (2011) e ora l’Iran che non ha mai aggredito nessuno.
Ma adesso Israele poiché è un Paese democratico si ritiene in diritto di fare una macelleria di palestinesi in forme e in modi che nemmeno il nazismo aveva tentato. Perché il nazismo cercava di occultare in qualche modo i suoi misfatti, il binomio Netanyahu-Trump, democratici, li fa a cielo aperto sotto gli occhi di tutti noi. Impotenti.
1 luglio, il Fatto Quotidiano
Conosco e frequento le Riviere liguri, di Levante ma ancor più di Ponente, dall’età di due anni. Dopo la guerra un fratello di mio padre, toscano, si era trasferito a Savona (“Sann-a”) dove aveva aperto un piccolo ufficio postale. Quindi noi passavamo le vacanze estive lì. A quei tempi non c’era ancora la smania dei viaggi esotici, inoltre mancavano i soldi. I figli dei proletari, milanesi, si dovevano accontentare dell’Idroscalo peraltro pericoloso perché crea dei gorghi insidiosi un po’ come il Tirreno che sembra così tranquillizzante rispetto alle burrasche del Mar Ligure. A quattro anni ho imparato a nuotare ai mitici bagni Umberto che avevano una rotonda appunto umbertina che avrebbe fatto gola ai Vanzina. A nuoto ero il più veloce della mia compagnia, adesso in piscina mi superano certe vecchie babe che nuotano con la maschera e il boccaglio. Che cosa si possa vedere sul fondo di una piscina e quali pesci per me resta un mistero. Ero scarso invece nei tuffi, qualche volta dagli Umberto si nuotava fino alla punta del pontile dove ormeggiavano le carboniere, in diagonale 700-800 metri circa. A volte i marinai ci facevano salire e noi ci tuffavamo, i miei amici di testa, io di piedi, una vera barbarie. Quel pontile mi ricorda anche che Genova, che noi savonesi detestiamo, ci ha tolto buona parte del traffico mercantile ridotto al porto di Vado. Da Savona partiva una funivia che portava carrelli carichi di carbone a Bragno. Una volta balzai su uno di questi carrelli. Fu un viaggio affascinante anche se estremamente pericoloso, anzi affascinante proprio perché pericoloso.
In particolare conosco bene l’entroterra del Finalese. Col mio amico Ino, figlio del gestore dei bagni, Gaetanin, la notte, lasciati gli amici, facevamo estenuanti perlustrazioni nell’entroterra. Alla ricerca di che? Di Dio, naturalmente. E una volta quasi lo acchiappammo ma non nel Finalese ma nell’entroterra francese. Era una notte buia e tempestosa, il cielo coperto di spesse nubi. Dopo una serie di fulmini e un tuono terrificante in cielo apparve una figura luminosa, oblunga, che non corrispondeva a nessuno degli astri conosciuti. Era la luna. Per la delusione ci precipitammo a Juan-les-Pins, allora, per i giovani una sorta di Woodstock, a berci una vodka pepata. A proposito di liquori e pub, in questo percorso zigzagante tra la Liguria di ieri e quella di oggi, non posso non ricordare Finale Ligure. Noi, appena avemmo l’età, ci fiondavamo a Finale dove c’erano le tedesche che, almeno così si diceva, “la davano”. Mai presa una. A ballare si andava al Boncardo, che esiste ancora insieme ai Bagni, una sterminata fila di ombrelloni. Ma a bere si andava al Vittoria, sull’Aurelia, a una certa distanza dal mare. La clientela era sceltissima, strano perché si trattava di milanesi e torinesi. Ma chi aveva un maggior stile era il gestore, Renzino, un ragazzo perché aveva circa trent’anni ma che non aveva la postura dei ragazzi. Aveva arredato il suo locale in stile medievale, armature, elmi, scudi, spade. Renzino, se lo stuzzicavi, lui non prendeva mai l’iniziativa, poteva parlare di Kafka e di Bosch. Avendo fatto moltissimi soldi a un certo punto, ancora molto giovane, pensò di ritirarsi alle Maldive, che non erano ancora le Maldive super turistiche di oggi. Ma quasi subito gli venne un ictus. Perché Dio non ama i sogni degli uomini.
Ho detto che conosco molto bene la Liguria. Non posso dire la stessa cosa dei liguri. Il ligure è stundaiu, una crasi fra il dialetto della Liguria di Ponente e il piemontese, scontroso, diffidente, misterioso. Tu cerchi di trovarne il fondo, ma è inutile: perché non c’è.
Un tempo per andare da Milano a Savona si prendeva il treno che ci metteva quattro ore. E pareva anche questa un’avventura. Mi ricordo nell’immediato Dopoguerra delle vecchie in nero che sgranavano continuamente il rosario perché l’anno prima era crollato un ponte sul Po.
Savona, credo di averlo già detto, è una delle città più brutte d’Italia insieme ad Alessandria. Patetico è quel cartello all’inizio, mi pare di via Pia, che dice “besuchen Sie diese Straße” che porta all’unico monumento della città, la Campanassa. Ma anche Sann-a, siamo pur sempre in Liguria, ha delle sue risorse misteriose. Al Circolo Calamandrei poi diventato cineclub, vicino al teatro Chiabrera, si radunavano alcuni che diventarono poi dei genietti della tv, da Tatti Sanguineti ad Aldo Grasso ad Antonio Ricci (che, sia detto di passata, ho battuto nove a uno, nove a uno, al calciobalilla, gioco che andava allora molto forte e adesso viene esposto da qualche locale ma come oggetto vintage. Sia detto di passata il mio gancio da fermo, da destra, era imprendibile. Col mio amico Giagi, docente di Storia Giovanni Assereto, savonese pure lui, abbiamo vinto un torneo che abbracciava l’intero territorio del Ponente). Come una città torpida come Savona abbia potuto partorire quei genietti tv di cui parlavo è un altro mistero.
Le coste della riviera di Levante sono state devastate, da Rapallo a Santa Margherita e anche più in là, dai milanesi non solo nel senso della cementificazione selvaggia ma anche dal punto di vista estetico. Si salva, ma solo in parte, Camogli nelle cui acque Beppe Grillo, genovese anche lui, si preparava per l’impresa di attraversare lo Stretto di Messina. A Ponente ai milanesi si sono aggiunti i piemontesi ed è una lunga striscia di cemento, da Arenzano, a Celle, ad Albisola (una sola s) a Bergeggi, a Spotorno, dove c’è una delle baie più ampie e belle del Mediterraneo, a Noli, a Varigotti che conserva però un suo centro elegante ma tanto caro da diventare inabbordabile per persone comuni (non per nulla ci passa una parte della sua estate Michelle Hunziker) a Finale Ligure, ad Alessio, ad Ospedaletti, a Bordighera. I francesi sono stati più abili perché non hanno costruito sulle coste ma nell’immediato entroterra. Un altro inciso: la Promenade des Anglais, tutta a livello del mare, mi fa una sega rispetto a quella di Nervi, tutta sugli scogli, per cui quando il mare impazza i pescatori sono costretti a portare le loro barche più a monte possibile.
Dicevo prima del carattere dei liguri. Forse dipende dal fatto che sono stati per secoli marinai e il marinaio è per sua natura silenzioso, quando hanno dovuto diventare albergatori perché il pesce non rendeva più si sono rivelati un disastro proprio per quel loro carattere stundaiu.
Ho fatto, di recente, un meraviglioso bagno nella Baia dell’Esterel con quella terra rossa incorniciata da quello che noi oggi chiamiamo “il verde”. Bagni simili li ho fatti in certe baie della Corsica che peraltro con la Liguria ha molto a che vedere (c’è chi dice che la Corsica si sia staccata dal Golfo ligure, chi dalla Toscana). La terra del Ponente è rossa perché c’è il ferro e ancora oggi puoi trovare nell’entroterra ligure molte trattorie, rimaste miracolosamente intatte che si chiamano appunto “le terre rosse”. In una ti servono ancora il “Nostralino” che non è un vino vero e proprio ma è fatto di residui di altri vini. Lo si vendeva a 20 lire sulle bancarelle di Savona. E devo dire da alcolista impenitente che aveva la sua efficacia.
Per noi che abitiamo “al di là delle colline” il mare, come ha scritto Cesare Pavese e cantato Paolo Conte, ha un fascino che anche la montagna più alta, non potrà mai avere. Mi ricordo che quando ebbi la macchina mi resi conto che raggiungevo Savona o Finale Ligure in due ore e anche meno (andavo naturalmente come un pazzo, non c’erano tutti i limiti di oggi). E fu uno shock perché era come passare in due ore da un mondo a un altro. Ho l’impressione che chi abita sul mare non abbia la consapevolezza di questo suo privilegio. In Corsica, nell’entroterra, si incontrano delle indicazioni stradali: u mare con un implicito segno di disprezzo. Invece il mare costituisce un radicale scambio di prospettive, in tutti i sensi. Io, bambino malinconico e solitario a Milano, al mare mi aprivo, trovavo la gioia di vivere. Del resto è Albert Camus, nato a Dréan, sul mare, che scrive: “col sole e col mare anche un ragazzo povero può vivere felice”. Ogni tanto, nelle interviste, mi chiedono la mia passione più grande. Si aspettano che io dica, le donne, il gioco o altre sciocchezze. Io rispondo invariabilmente: “il Mare”. Per me mare ed estate coniugano la più proibita delle parole, felicità. come faccio dire a una delle mie attrici nel Cyrano: “una parola proibita che non dovrebbe essere mai pronunciata”.
28 giugno 2025, Il Secolo XIX
In un articolo sul Corriere della Sera (21.6) Maurizio Ferrera affronta un problema che sta diventando dirompente nel mondo occidentale, quello della denatalità, che per ciò che riguarda in particolare l’Italia, che ha il tasso di natalità più basso del mondo, in concorrenza col Giappone, potrebbe portare nel giro di venti o trent’anni alla scomparsa della razza (si può ancora usare questo termine?) italiana nel mondo.
Al centro del problema c’è che le donne, parliamo ovviamente dell’Occidente, non vogliono più fare figli. I motivi sono vari, difficoltà economiche, mancanza di asili nido ed altri del genere. Secondo varie stime nella fascia di età 18-34, il 21 per cento delle giovani dice di non volere figli e un altro 29 per cento si dichiara solo debolmente interessato.
E’ singolare che le donne rinuncino a quella che dal punto di vista antropologico è la loro funzione. Molte ritardano il momento della figliazione perché la medicina tecnologica le ha convinte che si possono fare figli ad ogni età. Non è così. Gli anni della massima fertilità della donna sono intorno al ventisettesimo compleanno, poi va gradualmente a discendere e se tu vuoi avere il primo figlio a quarant’anni, a parte il ricorso a qualche mostruosità tecno-medica (vedi il caso di Gianna Nannini che ha figliato a 56 anni) sono cazzi acidi.
Io capisco che una donna oggi, che ha quasi conquistato la parità col genere maschile nel mondo del lavoro, voglia potersi muovere liberamente senza gli antichi handicap. Ma sconsiglierei vivamente a una donna di rinunciare alla sua funzione antropologica (in fondo il maschio, in questa storia, è solo un fuco transeunte, un inseminatore più o meno casuale).
Negli ultimi anni sono stato compagno di varie donne nel pieno dei loro quaranta. Una sola, un’oncologa del seno, aveva un figlio cosa che non le ha impedito di fare una formidabile carriera e oggi ha posizioni apicali in università e ospedali negli States dove la konkurrenzkampf è fortissima in tutti i settori, ma in particolare in quello della Sanità. Sanità pubblica perché, come si sa, quella privata è riservata ai magnati. Lo dico per inciso: nella disprezzatissima Cuba, Paese tuttora comunista, la Sanità e l’Istruzione sono gratuite, anche se non esiste, né può esistere, un diritto alla salute né alla felicità. E infatti nella Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 si parla di un diritto alla ricerca della felicità, parola proibita che non dovrebbe essere mai pronunciata come faccio dire a una mia attrice nello spettacolo teatrale Cyrano se vi pare. Nella Dichiarazione d’indipendenza si parla del diritto ad avere cure adeguate, alla Sanità quindi, non di un diritto alla salute che nessuno, foss’anche Domineddio, può garantire. La salute c’è quando c’è, ma non è un diritto. Ma l’edonismo straccione contemporaneo ha trasformato il diritto alla ricerca della felicità, in un vero e proprio diritto alla felicità e con ciò stesso rendendo l’uomo ipso facto infelice. Perché, nella società attuale, salito un gradino bisogna immediatamente salirne un altro e poi un altro ancora e non si può mai arrivare a un punto di equilibrio e di soddisfazione.
Ebbene. Questa giovane donna era più equilibrata di tutte le altre. Perché? Perché il figlio o i figli, per quanti sacrifici richiedano o forse proprio per quelli, sono una ricchezza che ti costringe a confrontarti col principio di realtà. Le altre rimangono sempre figlie e non sopportano l’abbandono. Una di queste, chiamiamola convenzionalmente Sandra, aveva perso la madre che aveva 89 anni, un’età ragionevole per andarsene. Io ho sempre insegnato a mio figlio, fin da quando era bambino, che i genitori, perché questo vuole la Natura, devono morire, il dolore più lancinante è la perdita di un figlio quali che siano stati i rapporti con lui. Ma Sandra non si rassegnava. Passeggiavamo per le vie di Milano e lei piangeva. “Perché piangi Sandra?”, “Perché è un mese che è morta mamma”. “Perché piangi Sandra?”, “Perché sono due mesi che è morta mamma”. “Perché piangi Sandra?”, “Perché in questa strada sono passata con mamma”.
E il discorso potrebbe allargarsi ai giovani attuali, molto diversi da chi, come me, ha vissuto gli anni duri del Dopoguerra e che non hanno capito che la vita è innanzitutto sofferenza e dolore e che tutto il resto che viene in più è, per dirla in modo molto volgare, “grasso che cola”.
27 giugno 2025, il Fatto Quotidiano