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Il cavallo può tornare ad essere un mezzo di trasporto come è stato per secoli, prima della comparsa delle auto? La domanda non sembri peregrina o provocatoria viste le crisi che coinvolgono il settore ferroviario (lasciando perdere le fantasiose congetture su presunti sabotaggi) e quello dell’auto per motivi più solidi, economici, code estenuanti e ingorghi vari.

Un cavallo, non da tiro ovviamente, può percorrere, con un paio di opportune fermate nelle stazioni di posta, più di 150 km al giorno. Non si può nemmeno ricorrere ai purosangue che sarebbero sprecati, anche se oggi di corse non se ne fanno quasi più, ma perché più sensibili, e quindi più fragili di un normale cavallo da passeggio.

Esemplare è la storia di Hadol du Vivier. Nei primi anni Settanta frequentavo il Turf parigino e si parlava molto di questo trottatore Hadol che nella sua età non ancora matura, tre anni (i cavalli vengono mandati in pista a due anni ma raggiungono la pienezza a cinque) aveva vinto 23 corse sulle 24 cui aveva partecipato e quella persa era stata perché era una corsa ad handicap, e l’handicap riguardava proprio Hadol che partiva cinquanta metri dietro gli altri. Il nastro l’aveva colpito proprio sul petto (nelle corse dove non c’è un handicap i cavalli partono dietro le ali della macchina) e Hadol, spaventato, si era messo di galoppo. Il suo storico driver Jean-Renè Gougeon aveva deciso di lasciar perdere e di far fare al cavallo quello che in gergo si chiama un “trottone di salute” ma si accorse, con sorpresa, che Hadol si mangiava non solo l’handicap ma anche quello che aveva perso in partenza. Arriverà secondo.

Formidabile fu la prestazione di Hadol nel Gran Premio d’Europa, a San Siro, riservato ai quattro anni (1977). E qui assistemmo a una scena che al trotto non si vede mai. Partito inizialmente in mezzo al gruppo Hadol aveva progressivamente staccato gli avversari di una ottantina di metri. Perché non si vede mai? Perché nel trotto, come nel ciclismo, chi succhia le ruote fa molta meno fatica.

Hadol du Vivier era una sorta di prototipo di Formula uno: petto ampio del normanno con una struttura, negli arti inferiori, da levriere americano. Allora la rivalità era fra trottatori americani e francesi, i primi prediligevano la velocità, i secondi la tenuta a distanza. Ma facciamocelo raccontare questo straordinario Hadol da Luigi Gianoli, grande scrittore che raccontava soprattutto, oltreché l’ippica, il tennis, nel suo libro Il Trottatore (1978): “Dal trotto d’una facilità e d’una semplicità estrema, rotondo, né troppo radente né troppo rilevato, rotolante come uno che dipani con sicurezza ma senza fretta un gomitolo di lana, Hadol vincendo l’Europa 1977 a San Siro ha spazzato via sei record europei… e senza una goccia di sudore”.

I punti deboli dei cavalli sono la trachea e l’apparato intestinale che è lungo undici metri. Prima del Grand Prix d’Amerique del ‘78 Gougeon aveva commesso una leggerezza imperdonabile. Aveva fatto correre Hadol anche se aveva qualche linea di febbre convinto che la forza del cavallo era tale da superare queste difficoltà. Ora l’Amerique si corre a gennaio a Parigi e Parigi a gennaio è il polo del freddo. Hadol aveva avuto anche dei problemi alla trachea che segneranno il suo destino. Nel gran premio successivo, mi pare il gran premio d’inverno a San Siro, c’era una nebbia fittissima, il clima meno adatto per un cavallo che aveva i problemi di Hadol. Era ugualmente favorito. Ma io, pur sapendo che non poteva vincere, puntai comunque una cifra cospicua su di lui. Arrivò in coda al gruppo staccatissimo e dietro di me sentii una vocetta odiosa che disse: “il favorito è arrivato ultimo”. Da allora Hadol du Vivier non fu più lo stesso. Quando veniva superato dagli avversari, lui che aveva un profilo nobile fiero, da gran signore, si stupiva che quegli avversari da sempre dominati gli passassero davanti. In una “sgambatura” sempre a San Siro che per i cavalli ha lo stesso valore del riscaldamento per i calciatori, sentii la solita voce odiosa che commentava: “le noble déchu”. Sì, il nobile decaduto ma Hadol, e io con lui, si prese una grande rivincita a Enghien: il clima è temperato, l’aria è limpida. Hadol non era più il favorito. Era dato 4 a uno. Nessuno gli credeva più. Puntai su di lui una cifra che ancora oggi considero enorme e Hadol, in dirittura d’arrivo, stampò sul traguardo, di una corta testa il nuovo idolo, di un anno più giovane, Ideal Du Gazeau (in Francia le generazioni vanno in ordine alfabetico) e fu, credo, la sua ultima corsa. Entrato in razza si suiciderà scagliandosi, volontariamente, contro un ramo robusto e affilato. Troppo sensibile, direi troppo umano, non tollerava di essere decaduto.

Allora Il cavallo può tornare ad essere un mezzo di trasporto? C’è il problema di nutrirlo, almeno che non provveda da sé, il cavallo è un erbivoro e comunque la biada costa sempre meno della benzina. C’è il problema di alloggiarlo ma il suo alloggio costerà sempre meno di un garage. Il cavallo non ingombra la strada a differenza delle auto. C’è il problema collaterale che quasi nessuno oggi sa andare a cavallo ed in effetti salire in groppa a un animale alto più di un metro e mezzo, con staffe o, come fanno tuttora i contadini in maremma senza staffe, non è cosa per tutti.

Si ripristinerebbero poi le stazioni di posta, alcune esistono ancora, e sono piazzate prima di uno scollinamento. In questo caso si ricorre a un cavallo di rinforzo il cui nome ora mi sfugge (l’ho preso da Prezzolini che ai suoi tempi montava). Le stazioni di posta che ancora esistono, per esempio nel Casentino, non hanno solo il compito di smistare la corrispondenza, ma sono anche dei “Sali e tabacchi” e sono pure dei piccoli, deliziosi, supermarket perché il viaggiatore se si è lontani da una città deve essere provvisto di tutto. Le consiglio al viaggiatore curioso e solitario come consiglio di vedere una corsa di cavalli davanti al mare. Le criniere al vento, la giovinezza degli animali, la loro grazia, ricordano un po’ le “jeunes fille en fleurs” di cui parla, in una pagina memorabile, Marcel Proust.

 

23 gennaio 2025, il Fatto Quotidiano

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Ha suscitato preoccupazione a Milano l’iniziativa di una fondazione islamica, La Misericordia, di costruire una nuova moschea a Milano in zona San Siro. Lo si ricava da un articolo de il Giornale (14.01). La preoccupazione per una volta non è tanto ideologica (in fondo a Milano gli islamici sono 200 mila e bisogna pur tenerne conto). La vera preoccupazione, come ha osservato il consigliere comunale di Forza Italia De Chirico è che intorno alla moschea nascano altri edifici di tipo speculativo che nulla hanno a che fare con la religione, bensì col business e che peggiorerebbero, dal punto di vista ambientale ed economico, un quartiere “già sotto pressione per il degrado, l’alto numero di alloggi occupati”. A De Chirico sfugge, forse, che quella che per ora è una sua supposizione, a San Siro, intorno allo stadio Meazza, è già da tempo una realtà. Il progetto delle due società calcistiche che operano a Milano, di proprietà straniera, americana, oltre a quello di abbattere il Meazza che a Milano è un’Istituzione, più del Duomo, perché su quegli spalti si sono sedute generazioni di milanesi, è di costruirvi attorno il solito ambaradan di supermarket, hotel di lusso, centri commerciali e la cosa gli riuscirà facilmente perché l’ippica in Italia è in crisi (in Francia un po’ meno) e quindi prendere possesso di quei terreni sarà un gioco da ragazzi. Gianni Barbacetto, sul Fatto, ha dedicato decine di articoli sulle conseguenze della sciagurata operazione che gira intorno allo “stadio Meazza” che fino a non poco tempo fa si chiamava ancora “San Siro”.

La preoccupazione, non di De Chirico, ma di noi milanesi, è di disgregare socialmente ed economicamente una vasta ed importante area del capoluogo lombardo. Ma questo problema è nato molto prima che arrivassero gli speculatori americani o islamici. Nasce col boom economico dei primi anni Sessanta quando si trattò di assorbire l’immigrazione prima dal Veneto e soprattutto dal Sud. L’immigrazione dal Sud non pose problemi. La polemica fra noi “polentoni” e loro “terroni” si riduceva a uno sfottò bonario (diversa era la situazione a Torino non solo per i famigerati letti caldi ma per le freddezza tipica dei torinesi che ha anche qualcosa a che vedere col direttore di questo giornale).  In fondo era gente che veniva qui con una gran voglia, oltreché necessità, di lavorare e i milanesi, imprenditori o lavoratori, hanno avuto sempre un grande rispetto nei confronti di chi lavoratore o imprenditore “rusca”. Mi ricordo di aver avuto un buon rapporto con Fioravante Stell che era stato sindacalista alla Borletti. Socialista, aveva combattuto tutte la battaglie sindacali in Borletti non scontando nulla ai padroni ma parlava con grande rispetto dei Borletti perché “ruscavano”. Erano i primi ad entrare in azienda e gli ultimi a uscirne e questo mi riporta a un altro episodio che riguarda i Rizzoli. Un venerdì di primo pomeriggio Angelo Rizzoli junior si presenta nell’ufficio di Angelo Rizzoli senior, il fondatore di quell’azienda editoriale e gli dice: “Cumenda – lo chiamavano così anche in famiglia – è venerdì e fra poco ci sarà il solito arrembaggio dei milanesi verso i laghi, io vorrei evitare le code e uscire adesso”. Risposta del Cumenda: “Se tu pensi di poter uscire due ore prima degli altri, puoi anche non ripresentarti lunedì”. Questo era il clima in cui venivano educati i giovani rampolli della borghesia imprenditoriale.

Quando facevo l’università, siamo quindi verso la fine degli anni Sessanta, abitavo in un edificio alla fine di via Novara, periferia ovest di Milano. C’erano ancora gli “orti di guerra” perché la città era ancora integrata alla campagna. Anche parecchi anni dopo quando vivevo in una zona più centrale veniva un contadino che mia madre chiamava “l’uomo delle uova” perché ci portava appunto i frutti della campagna circostante.

Oggi si fa una grande questione sugli involucri dei cibi che sono diventati più importanti del contenuto. Per motivi ecologici e di salute oggi l’involucro non deve essere di plastica, deve essere bio, eccetera. Poiché mio padre era direttore di un giornale da noi la carta abbondava e quindi avevamo stabilito un patto col fruttivendolo o col salumiere. Noi gli davamo la carta che avevamo in abbondanza e lui ci faceva un piccolo sconto. Insomma eravamo molto più poveri, siamo nel primo dopoguerra, ma più solidali.

Quando abitavo in via Novara andavo a studiare all’ippodromo del galoppo detto “alla Maura”. Mi piaceva, mentre studiavo, ascoltare il galoppo dei cavalli e le frustate dei fantini. Al ritorno da un’estate a un certo punto alzai gli occhi e vidi che al di là della pista, quella che verrà fra poco smantellata e adibita ad altri usi, c’erano, costruiti in soli due mesi, dei grattacieli. Era nato il Gallaratese, senza un cinema, senza un luogo di ritrovo, senza una piazza e forse senza nemmeno un bar. Poi venne il Gratosoglio che era anche peggio. Il prestigioso studio Peressutti, Belgioioso, Rogers (Pbr) aveva pensato bene di costruire alla base di enormi grattacieli alti dodici piani perfetti dal punto di vista estetico perché non avevano nemmeno balconi che aggettavano in fuori, dei piccoli locali dignitosi che dovevano essere adibiti a negozi o a luogo di ritrovo per i ragazzi. Peccato che divennero quasi subito dei centri di spaccio e di uso di droga.

Era il periodo in cui il direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, mi aveva affidato il compito di andare nei quartieri di Milano come se fossi non a Milano ma a Hong Kong. Tra i nuovi quartieri esplorai Milano Due edificato da Berlusconi. Ebbene di quei luoghi pur disastrati era il peggiore. Era il quartiere della nuova borghesia milanese che non potendosi più permettere, neanch’essa, un appartamento in città, troppo caro, si sfogava in un quartiere di mezzo lusso totalmente privo di vita. Il mito a Milano Due era il famigerato “verde” che i ragazzi non potevano neanche toccare. Era un quartiere disumano dove i ragazzi, e non solo loro, crescevano molto distanti dalla realtà. C’era in realtà un locale, Lo Sporting (o Scorpion?), che però per i prezzi era inabbordabile anche per quelli. Mi ricordo che il direttore dello Sporting, Gino Spada, una brava persona, quando morì Papa Luciani si precipitò nelle salette dove stavano giocando a bridge e diede la notizia. Si sentì rispondere: “due picche!”.

Mi ricordo che uscendo da Milano Due incrociai un ragazzino con regolare racchettina in mano. Gli chiesi: “Ti piace vivere qui?” “Sì, sì” rispose con fare smorto, “c’è tanto verde” ripeteva talmudicamente la giustificazione dei suoi genitori per essere andati ad abitare in quel luogo cimiteriale.

Una volta entrai in quella che sulle prime mi sembrò una gelateria, sedie di plexiglass e nemmeno un confessionale. Era la chiesa di Milano Due. Del resto a Milano Due non si facevano nemmeno i funerali. Sarebbe stato disdicevole far vedere che in quel luogo, fra il verde e i campi da tennis, anche la gente moriva. I funerali li facevano nella vicina e proletaria Segrate. Del resto nemmeno il prete aveva l’aspetto di un prete, ma piuttosto di un manager. Non mi parlò di religione o almeno di spiritualità, ma solo di conti.

E’ molto difficile trovare a Milano Due, ma in realtà in tutta Milano cui questo quartiere dà il tono a tutto il Paese, l’antica Milano col “coeur in man”. Anzi è impossibile trovare nella Milano di oggi un pizzico dell’antica umanità. Insomma è impossibile ritrovare Milano nonostante la statistiche, queste odierne Divinità, la diano come la città in cui si vive meglio in Italia.

 

21 gennaio 2025, il Fatto Quotidiano

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Morire è facile. Lo hanno fatto tutti.

Chi teme troppo la morte pensa di essere immortale.

Si dice “ammazzare il tempo”. Purtroppo è il tempo che ammazza noi.

“Quanto tempo passa fra l’arrivo al Pronto soccorso e l’intervento del medico di guardia?” chiede la solerte cronista al primario. “Il tempo di morire”.

Secondo la medicina moderna dovremmo fare almeno sei controlli clinici all’anno. Eppure è così chiaro: è vivere che ci fa morire.

Legge matematica. Non fare mai un favore gratuito a un amico, non te lo perdonerà perché si sente in debito.

Date e vi sarà tolto.

Si dice, a volte, “lasciamoci andar al caso”. Ma, purtroppo, è il caso che non ci molla.

Quel che accade invecchiando non è tanto che si perdono alcune certezze sul mondo, ma che si perdono tutte le certezze su se stessi.

A Chronos, il Tempo padre di tutti gli Dei e degli uomini si aggiunge un semidio, il Caso.

Io sono un dubbioso dogmatico.

Il bello del senso di colpa è che la pena ricade regolarmente sulla testa degli altri.

I conservatori sono altrettanto stupidi dei progressisti, ma questi sono più pericolosi: perché si muovono.

Siamo una società individualista senza individui.

Se il comunismo è vittima del suo insuccesso, il capitalismo lo è del suo successo.

Oggi chi lavora non può diventare ricco: perde troppo tempo a lavorare.

Pudore: scomparso.

Non si può più nemmeno darsi ai vizi: li hanno tutti.

Mi rompono sommamente i coglioni quelli che mi rimproverano di essere ancora vivo.

Il vero masochista non è chi prova piacere nel dolore, ma dolore nel piacere.

Per Oriana Fallaci. L’entusiasmo non è un argomento.

L’uomo più felice è il cretino che non sa di essere cretino. Chi si rende conto d’essere un cretino non è un cretino.

Il solo uomo veramente libero è il morto.

L’uomo contemporaneo, sempre proiettato fuori di sé, non sa vivere che nell’opinione altrui.

Il dramma dell’uomo contemporaneo è constatare che la razionalità ha fallito, senza, per questo, poter tornare all’irrazionale.

Pubblicità: l’Ottocento ha creato capolavori perché il Novecento li sputtanasse.

Dio. L’unica scusante di Dio è di non esistere.

Dio. Se c’è, si è nascosto molto bene.

La verità non è davanti, ma dietro di noi.

Sessantotto. La via più diretta per arrivare alla Direzione del Corriere.

L’intelligenza è un handicap. La cultura è un handicap. La sensibilità è un handicap.

La Storia è una fake. Che cos’è una fake? E chi lo sa.

Il dotto, l’erudito, non ha nulla a che fare con la cultura. E infatti Nietzsche, che viveva solitario a Sils, preferiva parlare col macellaio, col postino, col farmacista, aborriva i docenti universitari, soprattutto se tedeschi.

Per giornalisti. La scrittura è musica, cosa interdetta a Kant, Hegel & Company.

Lo studio? Non serve a nulla e ancor meno serve la ricerca.

Innovazione. Parola magica che dovrebbe risolvere tutto.

Chef. Troppo tardi si capisce che la ricetta della nonna era meglio.

Nulla si crea e tutto si distrugge.

Siamo l’incubo di qualcuno che un giorno si sveglierà.

Il futuro non è davanti ma dietro di noi.

Ai tempi mostri.

Muore mille volte… chi ha paura della morte.

 

17 gennaio, il Fatto Quotidiano