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Se vivessi negli Stati Uniti parteciperei alla scommessa di Elon Musk, quest’uomo geniale, che ha fatto i soldi e adesso si diverte, su chi vincerà le prossime elezioni. Io scommetterei su Trump. So che “The Donald è piuttosto volgarotto e in questo senso non piace neanche a parte dei repubblicani, Kamala Harris non sarà, magari, volgare, ma come vice di Biden (un altro che volgare non è ma è almeno tre anni che non si regge in piedi e non c’è con la testa) è sempre stata una figura sbiadita e non si vede perché dovrebbe cambiar colore solo perché adesso è candidata alla Presidenza degli States.

Ma la mia preferenza per Trump non è dovuta semplicemente al fatto che la controparte è debole. Storicamente i repubblicani sono sempre stati “isolazionisti”, prima che George W. Bush innalzasse la bandiera della “guerra preventiva” inanellando un periodo di guerre a ripetizione, in Afghanistan, in Iraq e, succedutogli il democratico Obama, in Siria e in Libia, tutte guerre che sono venute, regolarmente, in culo all’Europa e agli Stati europei. Si può sperare, con buoni motivi, che The Donald torni allo storico isolazionismo dei repubblicani, ciò che interessa a Trump è soprattutto l’America (“America First) quello che accade fuori molto meno. Trump quando è stato Presidente non ha fatto alcuna guerra, anche se può sembrare paradossale è un “pacifista”.

Ma la ragione principale per cui scommetto, sperando di vincere, su Trump è che porrà fine in breve tempo alla guerra russo-ucraina. Trump prima di essere un politico è stato un imprenditore, e continua essere anche un imprenditore, e conserva l’impianto mentale dell’imprenditore. Per questo decise il ritiro dei soldati americani dall’Afghanistan sembrandogli inconcepibile che gli Stati Uniti avessero buttato via diecimila miliardi di dollari per una guerra che, secondo lo stesso Pentagono, “non si poteva vincere” (il ritiro fu poi organizzato nel più ridicolo dei modi da Biden, una fuga indecorosa e scompigliata dove toccò ai Talebani mantenere un minimo di ordine e di decenza, in quanto all’Italia il primo a fuggire fu l’ambasciatore Vittorio Sandalli). Allo stesso modo Trump non ha nessuna intenzione di mandare quattrini e armi a Zelensky per un’altra guerra che, a detta dello stesso capo di Stato Maggiore Mark Milley, “nessuno può vincere”.

Io scommetto quindi che The Donald vincerà la corsa alla Presidenza. A meno che non lo facciano fuori prima, non politicamente ma fisicamente. C’è già stato un attentato in piena regola in cui The Donald ci ha rimesso solo un lobo e due tentativi sventati dalle forze di sicurezza. Negli Stati Uniti, Paese di punta della democrazia occidentale, questi giochetti sono piuttosto frequenti, come ricordano gli assassinii di Abramo Lincoln e John Fitzgerald Kennedy.

 

5 Novembre 2024, il Fatto Quotidiano

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Dopo il bagno di sangue del lockdown il Teatro sembra in leggera ripresa, se prima del Covid gli spettatori erano 15 milioni e durante il Covid 4,2 milioni ora sono arrivati a 4,9 milioni (dati Siae, 2022). Ciò non toglie che il Teatro sia in crisi almeno da quando fu sostituito nell’intrattenimento dalla televisione. Inoltre lo stanziamento del Mic, Ministero della Cultura, attraverso il Fondo unico per lo spettacolo è veramente di poca cosa (420 milioni circa) e comprende spettacoli di ogni genere: cinema, concerti, teatro di prosa e teatro lirico oltre al cosiddetto “teatro viandante” cioè le vecchie e care “compagnie di giro” che si esibivano soprattutto nei piccoli centri dove i giovani attori facevano gavetta e gli anziani che non avevano avuto successo potevano guadagnarsi la pagnotta.

Oltre la concorrenza devastante della televisione il Teatro è in crisi anche per altri motivi. Mancano i testi. Nel suo ottimismo Pamela Villoresi, forse la più nota certamente la più brava delle attrici del nostro Teatro, mi portò a vedere tre spettacoli al Piccolo. Uno era di un autore tedesco e non si capiva niente, non per la lingua perché gli attori recitavano ovviamente in italiano ma perché la trama era inconsistente, altri erano rimasugli del Piccolo anche perché Strehler, come tutte le primedonne, non ha allevato allievi all’altezza. Forse a far davvero Teatro sono oggi alcuni cantautori come Guccini con Don Chisciotte o De André con il Re fa rullare i tamburi.

E quindi ci si rifugia nel repertorio di sempre, la tragedia greca particolarmente suggestiva quando è rappresentata nei teatri greci di Sicilia, Siracusa, Taormina, Tindari (attualmente, non a caso, chiuso al pubblico) o nelle commedie di Goldoni o nelle commedie, o piuttosto tragedie, di Shakespeare (Be or not to be, that is the question).

Io rimango comunque fiducioso nel futuro del Teatro. Dalle origini il Teatro è stata la più importante cinghia di trasmissione della cultura che univa ricchi e poveri, aristocratici e gente comune. La sola differenza è che i primi andavano in platea, i più importanti proprio sotto il palco, i secondi in loggione.

In tv lo spettacolo è seriale si rivolge allo stesso pubblico generalista, inoltre se parliamo dell’oggi il prodotto fa venire il latte alle ginocchia. Diverso il discorso per la tv di Ettore Bernabei, democristiano, che nel periodo della sua Direzione si permise di dare un’infinità di spettacoli teatrali, di concerti di musica classica e sinfonica e la sera proponeva miniserie italiane ma anche estere come Il mulino del Po di Bacchelli e i Demoni con la formidabile interpretazione di Luigi Vannucchi nella parte del principe Stavrogin. Osò anche dare, in prima serata, il Settimo sigillo di Bergman che la mia segretaria alla Pirelli interpretò come un “noir”, ci stava.  Ma quelli erano altri tempi, i tempi di Bernabei appunto e, sul piano più politico ma anche culturale, di Giulio Andreotti che nel dopoguerra riuscì, con la sua strepitosa capacità di dribbling, alla Messi, a far passare il cinema del neorealismo dove i registi, da Visconti a Rosi, erano tutti comunisti.

A teatro lo spettacolo è sempre diverso perché diverso è il pubblico. Il pubblico della prima di Bologna non è quello della seconda né della pur vicinissima Modena per non parlare del pubblico glaciale di Torino. A Torino, al Colosseo, col mio Cyrano, avemmo un’esperienza esaltante. Durante il primo atto il pubblico si era dimostrato molto freddo. I ragazzi nell’intervallo sacramentavano, ma poi riuscimmo a scaldare anche quel pubblico.

Anche la compagnia non è sempre nella stessa forma. Gli attori sono dei fachiri, recitano in qualsiasi condizione fisica. Mi ricordo di Pamela Villoresi che, ospite a casa mia, al mattino non aveva la voce e la sera doveva recitare un monologo. Ma, con opportuni accorgimenti, aerosol soprattutto, quando fu il momento del dunque passò superbamente la prova. Recitano anche quando hanno la febbre a 39. E’ capitato anche a me al Celebrazioni di Bologna. Ero febbricitante e nei camerini c’erano spifferi tremendi. Benché del tutto novizio di quel mestiere quando salii in palcoscenico (che, come ho già scritto, con la sua superficie in legno ti dà di per se stesso energia) riuscii a cavarmela bene. In un’altra occasione, sempre nel Cyrano, si ruppe una lampada e le schegge di vetro volarono dappertutto. Nell’intervallo il Direttore di scena mi avvertì: “guarda ho cercato di spazzare tutto il possibile, ma qualche scheggia è sicuramente rimasta”. E infatti l’atto successivo io misi puntualmente il piede su una di queste schegge, ma portai a termine la recita come se nulla fosse. Allora mi dissi che ero diventato un vero attore. Anche se un attore non sono mai stato, sono poco duttile, e non per nulla nel Cyrano che era una sorta di sintesi del cosiddetto “Fini pensiero” io recitavo me stesso.

Ma le cose più divertenti a teatro il pubblico non le può vedere perché fanno parte del backstage, dietro le quinte. Le ragazze fino a dieci minuti prima dell’alzarsi del sipario pareva che se ne infischiassero. Poi erano crisi di nervi, crisi di pianto, “devo fare la cacca” e cose del genere. Noi avevamo due soli attori professionisti, molto bravi, Ettore Distasio, che sarebbe andato benissimo per il teatro francese e Matteo Reza Azchirvani, di origine iraniana, utilissimo in uno sketch dove doveva fingere di farsi saltare in aria come un Isis. Dietro le quinte Distaso e Azvhirvani tramavano contro il regista ritenendolo sempre colpevole di qualche nefandezza ai loro danni. Azchirvani era insopportabile, riusciva a porre dei problemi cinque minuti prima che si alzasse il sipario. Mi ricordo che una volta il regista, Eduardo Fiorillo, un omone di novanta chili, tutto muscoli e nervi, per un pelo non lo accoppa sul posto.

Oggi, anche se me lo proponessero, non potrei più fare teatro (allora avevo sessant’anni): mi mancano le energie, anche se i veri attori come Giorgio Albertazzi, morto a 92 anni o Vittorio Gassman han recitato sino alla fine della loro vita. Ma qui parliamo di un’altra categoria. Dico i grandi attori di cinema ma anche di teatro a cui è d’obbligo aggiungere Ugo Tognazzi e, su un piano minore, Nino Manfredi. Oggi quei grandi attori, che han fatto la storia del teatro del cinema e, in sintesi, anche della cultura italiana del dopoguerra, non ci sono più mentre i giovani preferiscono al teatro il cinema molto più remunerativo.

Ma oltrepassiamo le Alpi e andiamo in Francia, dove, tra le altre cose, il Teatro è molto più finanziato che da noi. Laurent Terzieff, grande attore di cinema (Peccatori in blue-jeans, kapò, Il deserto dei tartari) preferì dedicare gli ultimi anni della sua vita esclusivamente al teatro. Ho visto a Parigi, in Rue d’Odessa, a l’ex Colombier una sua memorabile prestazione in Caligula dove interpreta la parte dell’Imperatore ritenuto pazzo, ma che pazzo non era affatto così come non era pazzo Nerone dannato “in seacula seaculorem”. Per non parlare di Sir Laurence Olivier (fu nominato ‘Baronetto’ dalla regina Elisabetta) il maestro di tutti gli altri che si esibì esclusivamente a Teatro.

A me resta la speranza, se la nobile signora non cala prima la sua falce, di vedere un’opera teatrale degna d’esser tale. “En attendant Godot”.

 

1° Novembre 2024, il Fatto Quotidiano

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E’ di pochi giorni fa l’attentato alla Turkish Aerospace Industries di Ankara rivendicato dal Pkk, “Partito dei lavoratori del Kurdistan”, il cui capo, almeno formalmente, è ancora Öcalan che dopo anni di persecuzioni del governo turco, prima ancora che al potere arrivasse il tagliagole Recep Tayyip Erdoğan, attuale alleato degli Stati Uniti poiché sta nella Nato (la più importante base americana nel mondo è a Incirlik) si era rifugiato in Italia, ma Massimo D’Alema, che era capo del governo – ed è incredibile come quest’uomo intelligente che aveva studiato politica sulle ginocchia di Togliatti nella sua vita le abbia sbagliate tutte – lo rispedì al mittente cioè nelle prigioni turche dov’è tuttora ristretto e perno di oscure trattative.

I curdi sono un’antica popolazione ‘tradizionale’ indoeuropea che abita un vasto territorio chiamato appunto Kurdistan. Ma poiché non sono né cristiani, né islamici, né ebrei non hanno santi in paradiso così il loro territorio è diviso fra Turchia (dove sono circa 20 milioni), Iran (fra gli 8 e i 12 milioni), Irak (fra i 6 e gli 8 milioni), Siria (fra i 2 e i 6 milioni) e Azerbaigian. Sembra incredibile ma il trattamento migliore l’hanno avuto dai russi, che occupavano l’Azerbaigian dal 1920, i quali diedero l’indipendenza ai curdi che abitavano quella regione.

Nel 1920 il Trattato di Sèvres riconosceva il diritto all’indipendenza del Kurdistan, ma solo tre anni dopo quello di Losanna se lo rimangiò perché così conveniva alle potenze del tempo.  Da allora i curdi, che sono un popolo pastore e nomade, fiero, coraggioso, ospitale, guerriero e anche feroce ma con un proprio e profondo senso etico come accade spesso nelle comunità che chiamiamo “tradizionali” (il furto, tanto per fare un esempio, è praticamente sconosciuto) si battono per la loro indipendenza ma vengono regolarmente mazzolati dagli Stati che occupano il loro territorio, disposti anche alle più incestuose alleanze pur di tenerli a bada. Dall'ottobre del 1984 fra Turchia ed Irak esiste un patto leonino che consente ai rispettivi eserciti di inseguire, aI di là dei confini, i ribelli curdi. In alcuni di questi raid i turchi hanno usato il napalm. Saddam ha raso al suolo 3000 dei circa 4500 villaggi curdi in territorio irakeno. Ma il peggio è avvenuto nel 1988 quando ad Halabaya Saddam gasò in un sol colpo cinquemila curdi irakeni nella totale indifferenza del cosiddetto “mondo civile” tutto schierato con l'Irak in funzione anti-khomeinista (sia detto di passata in Turchia i curdi non possono essere definiti come tali, ma devono essere chiamati “turchi di montagna”).

I curdi sono stati essenziali, insieme all’aviazione americana, nell’abbattere lo Stato Islamico di al-Baghdadi. Si aspettavano quindi di essere remunerati in qualche modo. Invece no. Nell’Irak irakeno le condizioni dei curdi furono addirittura peggiorate senza che gli americani muovessero un dito in loro difesa. Ha scritto il giornalista americano William Safire sul New York Times: “Svendere i curdi è una specialità del Dipartimento di Stato americano”.

 

30 Ottobre 2024, il Fatto Quotidiano