- Nei giorni scorsi è morta a 117 anni e 168 giorni Maria Branyas Morera, spagnola e il testimone, se così si può dire, è passato a Tomiko Itooka, giapponese che, allo stato, ha 116 anni. Non è una novità, il Giappone è uno dei paesi con la popolazione più vecchia del mondo e condivide con l’Italia il sinistro primato della denatalità con un tasso di nati per donna di 1,25 mentre il Giappone è all’1,30 e per raggiungere un pareggio demografico sarebbe necessario un tasso di natalità un poco oltre il due. E questo è un problema che riguarda l’intero mondo occidentale.
- E’ tornato all’onor del mondo il dibattito sull’Eutanasia (il termine è stato coniato da Bacone e significa “il diritto alla buona morte” cioè alla morte naturale) che si sperava superato. I cattolici sono contrari all’Eutanasia perché ritengono che l’essere umano è proprietà di Dio e quindi spetta solo a Dio, a suo imperscrutabile giudizio, togliere la vita. In campo laico la Corte Costituzionale ha affermato che “il diritto alla morte non è neppure invocabile” e infatti il radicale Marco Cappato è incorso in guai giudiziari per aver accompagnato in Svizzera, dove l’Eutanasia è lecita, persone che avevano deciso di farla finita (io sono ovviamente favorevole all’Eutanasia, ma non sceglierei mai di fare questo lugubre viaggio, con le prevedibili angosce che provoca, meglio un colpo di pistola, più risolutivo).
- Nel campo della ricerca medica è stata attivata la sperimentazione di uno speciale vaccino contro il cancro ai polmoni, chiamato BNT116 (mai che gli diano un nome umano). Al candidato vengono fatte sei iniezioni ogni cinque minuti. Se sopravvive è già un buon segno. Ma, a parte queste mie trucide facezie, di cui mi scuso, la ricerca è importante perché in Italia, dati al 2022, di cancro ai polmoni sono morte 33 mila persone.
Da che cosa sono legati questi punti? Dall’atteggiamento che la società contemporanea ha nei confronti di quel che il mio amico Giulio Giorello chiamava “i nuclei tragici dell’esistenza”, cioè il dolore, la vecchiaia, la morte. Scrive Max Weber nell’Intellettuale come professione che è del 1918 dove il grande sociologo anticipa temi che diventeranno poi di scottante attualità: “La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di esser vissuta. Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini”. Nelle parole di Weber affiora la prima, e forse la più grave, tabe della Modernità: la pretesa di voler dominare tecnicamente la Natura. In questo modo, pretendendo di dominarla, noi ci siamo allontanati progressivamente dalla Natura. Anche i Greci, grazie ai loro grandi filosofi e matematici, da Archimede a Filolao, avrebbero potuto dominare la Natura costruendo macchine molto simili alle nostre (almeno fino al digitale che ha spostato ancora più in là l’orizzonte) ma vi rinunciarono. Lo dico nei loro termini: l’hybris dell’uomo provoca la phtonos Theòn, l’invidia degli Dèi e quindi l’inevitabile punizione.
Ma torniamo ai “nuclei tragici”. La vecchiaia si può evitare filandosela al momento opportuno, anche se poi quando si presenta questo momento ogni scusa è buona per rimandare. Al dolore, quando non sia sentimentale, in questo caso non c’è niente da fare (“d’amore non si muore, sarà anche vero, ma quando ci sei dentro, non sai che fare” Giorgio Gaber, Porta Romana, 1972) ma sia una malattia del corpo si può far fronte, anche se ogni parte del corpo umano dall’alluce al mignolo è predisposta a rompersi, del resto non ci sarebbe l’invecchiamento se il corpo non fosse destinato a deteriorarsi progressivamente. Certo si può tamponare una falla del corpo, ma quasi subito ne nasce un’altra, e i rimedi devono essere continuamente aggiornati, la storia dei vaccini è emblematica in proposito.
Comunque, dimentichi di Weber, noi moderni facciamo di tutto per allungare artificialmente la vita. Un ruolo fondamentale ha quella che viene chiamata comunemente “prevenzione” e che io definisco invece “terrorismo diagnostico”. Noi, anche da giovani, dovremmo fare almeno una mezza dozzina di controlli clinici l’anno. Insomma dovremmo comportarci da malati quando siamo ancora sani, da vecchi quando siamo ancora giovani. In realtà nella nostra società non ci sono più vecchi perché l’ignominia viene mascherata col linguaggio e quindi non si parla più di vecchi ma tartufescamente di “quarta età” ed è ipotizzabile che in futuro si arrivi alla “quinta” o alla “sesta” e ad altre iperboli. Insomma per raggiungere l’agognata vecchiaia dovremmo rinunciare a vivere. E’ logico: è vivere che ci fa morire.
Questa società è la prima ad aver scomunicato la morte tanto che se ne parla il meno possibile (della morte biologica intendo, quella violenta appartiene ad un’altra sfera). E’ la morte “il vizio che non osa dire il suo nome” di elisabettiana memoria dove però il “vizio” era la pederastia o l’omosessualità.
Questa scomunica della morte ha avuto come inevitabile conseguenza una paura della morte sconosciuta a buona parte delle società che ci hanno preceduto. Ma, siccome, nonostante qualche dilazione, si continua a morire, questa paura diventa parossistica. E con la paura della morte addosso si vive male. Dice il vecchio e saggio Epicuro “muore mille volte, chi ha paura della morte”.
1° Settembre 2024, Il Fatto Quotidiano
In uno dei suoi racconti (“Era proibito”) Buzzati immagina che sia bandita la poesia, cascame di un mondo che non c’è più, assolutamente improduttiva. Scrive Buzzati: “produrre, costruire, spingere sempre più in su le curve dei diagrammi, potenziare industrie, commerci, sviluppare indagini scientifiche rivolte all’incremento della efficienza produttiva, convogliare sempre maggiori energie nella progressiva espansione dei traffici… tecnica, calcolo, concretezza merceologica, tonnellate, metri, mercuriali, valori del mercato”.
Il libro è stato pubblicato nel 1958, ma evidentemente Buzzati aveva elaborato questi pensieri già parecchio tempo prima. Anticipa quindi la società dei nostri giorni quella che stiamo vivendo. Allora una controreazione era di là da venire, come erano di là da venire il WWF e simili che però hanno del problema una visione settoriale, direi miope, perché l’unico oggetto del loro interesse è l’ecologia che è solo una parte, e nemmeno la più importante, di una questione gigantesca che ci preme addosso. Del resto tutti gli ecologismi, con la loro pretesa di abbattere l’eccesso di anidride carbonica che ci ammorba sono e saranno sempre inutili fino a quando continueremo a produrre, con progressione suicida, quello che stiamo producendo. Insomma bisognerebbe scaravoltare il paradigma “Produci, consuma, crepa” per dirla con i CCCP. E’ un cambio di modello che si impone e che va capovolto finché siamo ancora in tempo. Oggi siamo al paradosso che non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre. Anomalia che era stata già notata nel 1700 da Adam Smith che pur, insieme a Ricardo, è uno dei padri di questo modello. Scrive Smith: “Il consumo è fine e scopo di ogni produzione e l'interesse del produttore dovrebbe essere considerato solo nella misura in cui esso può essere necessario a promuovere l'interesse del consumatore. Questa massima è così chiaramente evidente di per se stessa che sarebbe assurdo cercare di spiegarla. Ma nel sistema mercantile l'interesse del Commercio è quasi costantemente sacrificato a quello del produttore: e tale sistema sembra considerare la produzione, e non il consumo, come il fine e lo scopo definitivo di ogni attività” (Adam Smith, La ricchezza delle Nazioni).
Per consumare sempre di più l’individuo è costretto a lavorare sempre di più. E a questo proposito c’è un’altra interessante annotazione di Buzzati nel racconto intitolato “Il problema dei posteggi”. Scrive Buzzati osservando la pletora degli uomini e delle donne che si recano al lavoro ogni mattina “con la miserabile ansia degli schiavi, uomini e donne, formicola già per le strade del centro, anelando a entrare il più presto possibile nella sua prigione quotidiana. Seduti ai tavoli e ai deschetti dattilografici, un poco curvi, …migliaia e migliaia, costernante uniformità di vite, che dovevano essere romanzo, azzardo, avventura, sogno”. E’ la stessa sensazione che provo anch’io quando alla mattina sul lunghissimo viale della Liberazione vedo l’interminabile fila di macchine, con a bordo uomini ma anche donne, che vengono dall’estrema periferia o dall’hinterland e si dirigono verso il centro. Per far cosa? Per andare a consegnarsi, come prigionieri, in qualche ufficio. Non c’è niente da fare, siamo, come scrive Nietzsche, degli “schiavi salariati”.
28 Agosto 2024, Il Fatto Quotidiano
Fra la Shoah e quanto sta avvenendo da alcuni mesi in Palestina c’è una differenza. Della Shoah e della “soluzione finale” (è anche incerto che Hitler abbia usato questa espressione anche se era nei suoi intendimenti nei fatti) mentre erano in corso si aveva una scarsa conoscenza sia negli Stati Uniti, sia in Europa sia nella stessa Germania. Gli americani intervennero in Europa abbastanza obtorto collo trascinati dalla provocazione giapponese di Pearl Harbour ed è certo che gli Stati Uniti temevano più il Giappone che avrebbe potuto portare la guerra sul suolo americano dei i nazisti che non avevano mai manifestato questa intenzione. Intervennero per motivi militari e non certo per salvare la comunità ebraica. Di quello che era successo si resero conto quando messo piede sul suolo tedesco poterono entrare nei campi di concentramento di Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen. Ma gli stessi tedeschi ne sapevano poco. Ci sono migliaia di tedeschi che avevano vissuto quasi a fianco dei campi di concentramento senza sospettare che cosa avvenisse in quei gironi infernali. Certo si poteva sospettare. Sospetti ne aveva Hanna Reitsch che nelle sue memorie racconta di aver espresso ad Himmler le sue perplessità su quanto avveniva in Germania ai danni degli ebrei e che Himmler rispose “credi sul serio a queste cose?”. Quindi era possibile sospettare, ma era anche legittimo non sospettare. Hanna Reitsch era un asso dell’aviazione tedesca, riuscì ad atterrare sotto le bombe americane nell’aeroporto praticamente distrutto che c’era a fianco del Bunker proponendo ad Hitler di salire sul suo aereo e di mettersi in salvo, ma il Fuhrer rifiutò: “non voglio cadere vivo nelle mani degli americani, mi metterebbero in una gabbia, come una bestia da esporre al pubblico ludibrio” (cosa che poi avvenne per personaggi minori e probabilmente colpevoli di nulla come il poeta Ezra Pound messo in queste condizioni a Tombolo). Ora Reitsch non aveva particolari simpatie per il nazismo in quanto tale casomai un’adorazione quasi adolescenziale per il Fuhrer e quindi non c’è motivo per cui mettesse in bocca ad Himmler un’espressione di fatto favorevole al movimento nazista.
Insomma quasi tutto quello che abbiamo saputo della Shoah lo abbiamo saputo dopo, non quando gli eventi erano in corso. Poi bastò leggere il Diario di Anna Frank per capire cosa era successo. Certo chi partiva dal terribile binario 21 della Stazione di Milano sapeva di andare incontro ad un destino tremendo, ma non delle sue circostanze, non aveva una consapevolezza piena delle modalità in cui si sarebbe concretizzato questo destino. Della Shoah, mentre era in corso, noi abbiamo avuto una conoscenza “de relato”, attraverso i racconti delle vittime che dal campo di concentramento riuscivano a far avere qualche notizia ai familiari o agli amici. Ma, insomma, quegli avvenimenti atroci noi, come ho già detto, non li abbiamo visti. Non c’erano le televisioni.
Quello che sta avvenendo in Palestina invece noi lo vediamo ogni giorno, in presa diretta, grazie appunto alle tv, ai social, alle testimonianze dirette dei protagonisti, nel bene e nel male.
La tragedia del popolo palestinese non sta tanto nei 40 mila morti, comunque una trentina di volte di più degli israeliani uccisi dopo l’attentato del 7 Ottobre, ma nel fatto che due milioni di persone sono costrette a vivere senza cibo, senza acqua, senza poter contare su alcuna assistenza sanitaria perché quasi tutti gli ospedali di Gaza sono stati distrutti, facendo strame del personale sanitario, medici, infermieri, volontari. Questi attacchi agli ospedali, che secondo il diritto internazionale non sarebbero comunque ammessi, vengono giustificati dagli israeliani col fatto che vi si nasconderebbero molti dirigenti di Hamas. Quel che è certo è che attualmente ci sono in Palestina più dirigenti di Hamas, veri o presunti, che ospedali.
Questo sterminio, non chiamiamolo Olocausto, avviene sotto gli occhi di tutto il mondo che non è indifferente ma impotente. Biden ha tentato in tutti i modi di convincere Netanyahu a darsi una misura, ma è stato sempre umiliato dagli israeliani con un niet che ricorda quello di Gromyko, il “signor niet” che a suo tempo esasperava gli occidentali.
Pressioni su Netanyahu sono state fatte anche dagli inglesi (recentemente una delegazione britannica è stata respinta) e prima ancora dai tedeschi e dall’Unione Europea, dall’egiziano al-Sisi, dall’emiro del Qatar, ma la risposta è stata sempre “niet”.
Il peggior nemico di Israele, e molti all’interno della comunità ebraica internazionale e locale lo hanno capito, è proprio Bibi Netanyahu che ha scatenato contro il proprio paese l’odio del mondo intero, non solo arabo: fino al Sudafrica che ha preso l’iniziativa di portare Netanyahu e alcuni dei suoi collaboratori davanti al Tribunale internazionale dell’Aia per “crimini di guerra”. Iniziativa di pura parata, pleonastica, perché si sa benissimo che questo Tribunale non ha nessuna autorità ed è anche bene che non ce l’abbia perché sarebbe il “Tribunale dei vincitori” come avvenne, alla fine della Seconda guerra mondiale, con i processi di Norimberga e Tokyo.
Che fare? Solo gli americani hanno la possibilità di fermare Israele togliendogli i rifornimenti militari ed economici. Ma non lo faranno mai, non solo perché considerano Israele il baluardo della democrazia in Medio Oriente ma perché la comunità ebraica americana, cui si aggiunge quella internazionale dei Soros dedita soprattutto a quella speculazione finanziaria che oggi ci sta strangolando tutti ed è più forte degli Stati Uniti, dell’Europa e della Russia messe insieme, è troppo potente perché qualcuno osi mettersi contro.
Si potrebbero creare delle “brigate internazionali” come è stato in passato per esempio nella guerra civile spagnola, dove accorsero franchisti e antifranchisti, comunisti e anarchici (Omaggio alla Catalogna) o nella guerra greco-turca dove Lord Byron ci lasciò la pelle. Ma questa non è più epoca di iniziative romantiche. Lord Byron non è morto solo fisicamente ma anche come idea.
23 Agosto 2024, Il Fatto Quotidiano