Il solo uomo veramente libero è il morto. Non deve pagare le tasse, toccherà ad altri, ma se sarà stato sufficientemente accorto non avrà fatto soldi, non avrà comprato case, non avrà acquistato croste di improbabili artisti, i suoi sopravvissuti non dovranno nemmeno pagare le tasse di successione. Beffa allo Stato padrone. “Prelati, notabili e conti Sull’uscio piangeste ben forte Chi bene condusse sua vita Male sopporterà sua morte Straccioni che senza vergogna Portaste il cilicio o la gogna Partirvene non fu fatica Perché la morte vi fu amica” (De André in una canzone titolata significativamente La morte).
Processi. Contumacia perpetua o, se si preferisce, prescrizione sine die.
Basta con la noia insopportabile di dover farsi la barba, talebano per sempre.
Se con la tua doccia hai inondato un intero palazzo non è più affar tuo ma dei vicini peraltro odiosi come ogni vicino (Esiodo, Le opere e i giorni). Niente periti delle Assicurazioni peraltro notoriamente ladre.
Fine del Tizio che, conoscendo i tuoi percorsi, ti aggancia davanti all’edicola per proporti sue assurde tesi complottiste mentre tu vorresti solo berti in santa pace un bicchiere di rosso. Fine dell’edicola e anche delle edicole, più defunte del morto.
Fine della lettura dei giornali, la cosa più inutile del mondo, soprattutto di questi tempi. Se il tuo Direttore non pubblica un pezzo cui tenevi ti risparmi l’incazzatura, se lo pubblica non hai il tempo di rileggerlo e di scoprire quante inesattezze hai scritto.
Fine delle interviste in cui non sai mai che cosa dire e nemmeno hai capito la domanda. Il martire sarà un altro.
Fine dei fan che vengono a farti domande impossibili, alla Catalano, “Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?” come se tu potessi saperne più di loro (Prezzolini, novantenne: “Non ne so di più di quando avevo diciassette anni”). Sei finalmente e totalmente disconnesso e quindi puoi fare a meno di buttare lo smartphone nel cesso. Peraltro i fan dovrebbero essere eliminati, in radice, quando sei ancora in vita. Sono fastidiosissimi.
Se la tua ragazza ti ha lasciato fine dei “dolori del giovane Werther”, se la veda Goethe. Se l’hai lasciata tu fine del senso di colpa.
Se per acculturarti credevi di dover andare a vedere uno spettacolo, lo spettacolo è sospeso sine die.
Uno struggimento, peraltro impossibile, ci sarebbe per le partite di calcio anche se fonti bene informate vicine al Vaticano dicono che partite se ne fanno anche nei Campi Elisi fra cherubini e serafini ma Dio pretende di fare sempre il capitano e non passa mai la palla.
Fine dell’ossessione sessuale peraltro quasi sempre deludente. In vecchiaia la virilità decresce ma aumenta la libido (“La bava alla bocca”) contristandoti per la tua parziale impotenza.
Fine del dovere di alzarsi alle sei del mattino per andare a fare la cosa più stupida del mondo: lavorare.
Fine della inseparabile compagna delle nostre vite: la noia.
Fine delle interminabili code davanti a qualsiasi ufficio. Non le devi fare, sei il vero privilegiato.
Fine delle preoccupazioni per la guerra ucraina, peraltro già vinta dai russi. Fine di Trump, Putin e compagnia cantante che comunque godranno anch’essi, arbitrariamente, dell’eterno riposo.
Fine degli insopportabili dolori fisici e morali della vecchiaia. In un istante sono scomparsi.
Avevi un tumore che ti preoccupava molto. La pratica è archiviata.
21 maggio 2025, il Fatto Quotidiano
Sono tali e tante e di diverso genere le violenze che da circa un secolo stiamo compiendo sul mondo arabo-musulmano che poi non ci si può meravigliare se una parte di questo mondo si radicalizza e partorisce un fenomeno ben più inquietante, vale a dire l’Isis che è il nostro contro specchio, come noi vogliamo imporre i nostri valori o disvalori all’universo mondo così è per Isis. Gli Isis sono particolarmente pericolosi perché, a differenza di altri gruppi combattenti, pur valorosi e coraggiosi, hanno la vocazione al martirio. Per loro morire non è solo indifferente, è una liberazione perché vanno dritto e di filato nell’empireo delle Urì. Isis si sta espandendo in tutto il mondo tranne che nelle due Americhe, quella del nord e quella del sud, e in Australia perché troppo lontane.
Attualmente Isis è presente nei Balcani, in molti Stati europei, soprattutto in Francia e Germania (non in Italia grazie all’intelligente politica di appeasement col mondo arabo che fece Giulio Andreotti in un’epoca in cui l’alleanza con gli Stati Uniti era obbligata, appeasement di cui godiamo i benefici ancora oggi, altro che predatori “piani Mattei” di Meloni e compagnia) è presente in Somalia, gli al-Shabaab, nel Sinai e in quella striscia di costa egiziana dedicata al turismo di massa, è presente in Libia dove i “trafficanti di morte” per salpare dalle coste libiche devono pagare una taglia all’Isis, è presente in Bangladesh, in Pakistan e in Afghanistan. Proprio pochi mesi fa due poliziotte afghane, poliziotte non poliziotti, sono state assassinate da un commando Isis. Bisogna anche dire che i Talebani sono stati gli unici a combattere seriamente l’Isis, ma stretti fra gli occupanti occidentali e appunto l’Isis hanno dovuto cedere un po’ di terreno. Una buona mano gliela diede, a suo tempo, Putin forse scottato dalla sconfitta della Russia dopo dieci anni di occupazione ad opera non dei Talebani ma dei “Signori della guerra” afghani, fatto che avrebbe dovuto pur insegnare qualcosa agli occidentali, riconoscendo al movimento talebano lo status di “movimento politico indipendentista non terrorista”. Putin, cui non manca certo l’intelligenza, si rendeva perfettamente conto che se Isis avesse sfondato in Afghanistan si sarebbe poi sparso nelle repubbliche ex sovietiche, quasi tutte a maggioranza musulmana, avvicinandosi pericolosamente a Mosca.
Nel 1991 il FIS, Fronte Islamico di Salvezza, per nulla estremista, aveva vinto a stragrande maggioranza le prime elezioni libere in Algeria, sconfiggendo i generali tagliagole che la governavano da decenni. Allora con un processo alle intenzioni si scrisse che il FIS avrebbe instaurato una dittatura. Insomma su questa ipotesi del tutto arbitraria si ribadiva la dittatura precedente con l’appoggio di tutto l’Occidente, in particolare della Francia. Dal FIS si staccò allora un “Gruppo Islamico Armato”, GIA in sigla, e furono anni di una sanguinosissima guerra civile. Un colonnello francese, che era stato al soldo dei generali tagliagole, confessò in un’intervista che questi stessi generali, tornati arbitrariamente al potere, incendiavano i villaggi attribuendo questi incendi al GIA per fomentare l’ostilità nei confronti di questo gruppo.
Ancora peggio, se possibile, è andata in Egitto nel 2012. I Fratelli Musulmani, alla cui guida c’era l’ingegnere Mohamed Morsi, morto poi in un’udienza per un attacco cardiaco molto sospetto, tipo quello di Milošević, avevano vinto le prime elezioni libere in Egitto dopo anni di dittatura. Ma bastò circa un anno di governo, in cui la Fratellanza non aveva imposto alcuna legge tipo Shari’a, per farlo fuori. Quale l’accusa? Che il suo governo era stato inefficiente. Ora è ovvio che essendo stati per decenni all’opposizione i Fratelli non potevano avere pratica di governo. Inoltre se bastasse l’inefficienza per legittimare un colpo di Stato, non so quanti governanti europei rimarrebbero al loro posto. Poi, beffa nella beffa, al governo andò il generale al-Sisi che era stato il braccio armato di Mubarak cioè il dittatore scalzato, con regolari elezioni, dai Fratelli.
Recentemente, circa un mese fa, il governo giordano ha messo al bando la Fratellanza Musulmana, che non è un movimento improvvisato, esiste dai primi del Novecento, sostenuto da molti Enti benefici. I beni della Fratellanza sono stati confiscati, 16 dei suoi membri arrestati e al gruppo, che è il più forte movimento di opposizione in Giordania e ovviamente appoggia i palestinesi, è stato proibito, che cosa? Di fare opposizione. In nome della democrazia naturalmente. Nuovo terreno fertile per l’Isis che finora in Giordania non aveva messo piede.
18 maggio 2025, il Fatto Quotidiano
L’epica partita Inter-Barcellona ha riportato all’onor del mondo la questione dello stadio di San Siro. I nerazzurri hanno vinto contro una squadra decisamente più forte, con i suoi geni diciassettenni, Yamal e Cubarsí, ne vale a scusante dei blaugrana la pur pesante mezza indisponibilità di Robert Lewandowski, uno dei più prolifici bomber di tutti i tempi (726 reti in 1053 partite, media 0.69). Hanno vinto per altri motivi. Proviamo ad elencarli. Ci hanno messo più rabbia. Alla fine degli interminabili 120 minuti, e qualcosa di più con i recuperi, i ragazzi di Inzaghi non correvano più, camminavano, letteralmente stremati dallo sforzo per affrontare una squadra molto più tecnica e teoricamente più forte. Per l’Inter che aveva mancato tutti gli obiettivi annuali la sfida col Barca era l’ultima Thule. Per il Barca l’urgenza era minore perché ha già vinto la Coppa del Re e con tutta probabilità la Liga contro gli arci-nemici del Real, anche se una vittoria in Champions non può essere paragonata alla vittoria di un campionato. Poi c’è stato il tifo nerazzurro aiutato anche dalla struttura e dal mito dello stadio di San Siro. Il Camp Nou dove gioca abitualmente il Barca non è meno mitico come il Bernabeu o Anfield Road, stadio del Liverpool ma attualmente il Barca, per motivi di ristrutturazione, gioca al Montjuic, che non è la stessa cosa. Se la partita di andata, decisiva, si fosse giocata al Camp Nou e non al Montjuic sono convinto che il risultato sarebbe stato diverso.
La vittoria dell’Inter si deve quindi anche, e molto, a San Siro che mi rifiuto di chiamare Meazza. Per noi meneghini doc, tifosi e no, San Siro è il vero simbolo di Milano più del Duomo e alla pari solo con i tram, quei tram che ci furono così preziosi all’epoca della prima crisi energetica del 1973. Abbattere San Siro è più che una bestemmia in chiesa. E poi abbatterlo non si può perché è sotto il vincolo, culturale e paesaggistico, dell’Accademia di Belle arti. I fondi americani, proprietari di Inter e Milan lo costruiranno, se va bene, un po’ più in là o, come è stato ventilato dalla proprietà interista, a Rozzano. San Siro diventerà come un tempio azteco, affascinante ma vuoto. Quello che interessa ai proprietari yankee per nulla ostacolati dal sindaco Sala è ciò che verrà costruito intorno, grandi hotel, centri congressi, centri commerciali, negozi di lusso. Ciò cambierà non solo l’ecologia ma la socialità del quartiere come è successo con i grattacieli costruiti davanti a casa mia sul terreno della ex stazione delle Varesine. Il risultato è che gli abitanti che vivevano sul lato destro, guardando verso nord, hanno dovuto sloggiare perché gli affitti erano diventati troppo alti. Così i negozietti si sono ridotti al minimo. Nel mio quartiere c’è un fruttivendolo, un panificio, un casalinghi che tiene solo per affezione e un mini-market. Se ho bisogno di un martello devo rivolgermi a eBay.
C’è un altro discorso che non riguarda però gli stadi di calcio ma gli ippodromi prima che, con la crisi dell’ippica, sparissero anche quelli. A fianco delle piste di allenamento c’erano sette cascine abitate da contadini autosufficienti. Per gli stessi motivi che riguardano gli stadi li si voleva abbattere. Ora abbattere una cascina a Milano, sia pur in periferia, è come abbattere una Pieve in Toscana. Ci fu una rivolta degli abitanti cui partecipai anch’io con degli articoli sul Giorno. Vincemmo la battaglia perché si ritenne che almeno i cavalli avessero il diritto di respirare, gli uomini no. Ma fu una vittoria solo temporanea. Un giorno, girando da quelle parti, vidi sul terreno della gloriosa scuderia De Montel sei orribili edifici rosa. Ne chiesi ragione al sindaco Tognoli incontrato pochi giorni dopo. Lui, abbassando gli occhi, disse: “Vuol dire che il piano regolatore lo consente”. Eh già, lo consentiva perché era stato cambiato a favore degli affari di Salvatore Ligresti (è il famoso scandalo Ligresti per cui ebbi un processo e vinsi solo perché i socialisti, dopo Mani Pulite, non erano così più potenti a Milano).
Gradualmente, ma inesorabilmente, tutto ciò che ha caratterizzato per secoli Milano viene spazzato via. Innanzitutto Milano non è mai stata una città di grattacieli ma di case di quattro o sei piani. C’era il grattacielo Pirelli, un gioiello, ideato da Gio Ponti e realizzato da Pier Luigi Nervi nel 1960 e la più discutibile Torre Velasca. Tutto qui.
Piano piano scompaiono altre cose e abitudini milanesi. Le edicole per esempio. L’altra mattina, era domenica, passeggiavo in via Vittor Pisani tenendo sotto il braccio un pacco di giornali, che avevo preso all’edicola vicina che però se fa affari non li fa con i giornali ma con i gadget, un tizio mi ha fermato e mi ha detto: “Ma lei legge ancora i giornali?”. L’altra edicola della zona è tenuta eroicamente da un bangla che è presente dalle cinque del mattino a mezzanotte e oltre. Salvini dovrebbe andare a nascondersi sotto terra.
Scomparso è il Commissario di quartiere che ci conosceva tutti e quindi se in zona accadeva qualcosa di malavitoso sapeva dove andare a cercare. Un paio di anni fa mi citofonano. E’ la portiera, non più italiana naturalmente. Mi dice: “C’è la polizia”. “Faccia salire”. Si presentano due pulotti, uno ‘buono’ e uno ‘cattivo’, come è consuetudine. “Dobbiamo perquisire l’appartamento”. “Fate pure però io devo scrivere un pezzo”. Perquisito l’appartamento, mi chiedono se ho un garage. Perquisito anche quello mi chiedono se ho una cantina. “Sì”, rispondo, “ma ho perso le chiavi, sfondate pure la porta”. “Ah, sfondare no”. Qualche dubbio gli era venuto entrando in un appartamento pieno di libri che è la mia difesa contro i ladri, perché solo un ladro cretino può prendere di mira un appartamento dove da rubare ci sono solo libri e una televisione che oggi costa meno di una radio del Dopoguerra quando fu, sì, strumento essenziale (Radio Londra). Qual era il crimine? “Contraffazione di marchio industriale”. Ora il Commissario di quartiere avrebbe saputo che io posso essere accusato di tutto, di stupri, di assassinio, di ogni genere di reato tranne quello. Se ci fosse stato il Commissario di quartiere non avrebbero perso inutilmente tutto quel tempo. Cosa era successo? Un caso di omonimia, il mio numero era stato trovato sull’agenda di un trafficante di Firenze. Un piccolo ‘caso Tortora’ anche se con conseguenze, per fortuna, farsesche. Dissi ai pulotti: “Se guardate la mia agenda con questa accuratezza, potete arrestare mezza Milano e anche mezza Roma”. Se ne andarono scornati come un manipolatore di via Prè che ha sbagliato a mescolare le carte.
Non c’è più il ghisa, il mitico ghisa che era un’autorità assoluta nel quartiere: “C’è lì il ghisa, dillo al ghisa, chiedilo al ghisa”. L’altro giorno, tornando da un funerale, ho chiesto a una vigilessa bassa e tarchiata che pareva non aver niente da fare dove fosse un posteggio taxi. “E che ne sacciu?” mi ha risposto. E’ inutile quasi dire che il ghisa era un ben piantato e bel ‘giovanotto’ (allora si usavano questi termini) milanesissimo.
Non ci sono più le cassette rosse per imbucare la posta, una per indirizzi di città, l’altra per il resto d’Italia. Non ci sono più le cabine telefoniche. Non c’è più lo ‘strascee’, “strascee, strasciaio” era la cantilena che ci svegliava la mattina. Lui ti dava gli stracci e tu due lire. C’erano poi altre forme di baratto. Poiché mio padre era direttore di un quotidiano la nostra casa era piena di giornali. Noi li davamo al fruttivendolo e lui, in cambio di un piccolo sconto, ci incartava la frutta e la verdura. Ma adesso c’è il packaging. Una mia giovane nipote si è laureata a pieni voti in Scienze alimentari. E’ stata assunta da una grande azienda ma è rimasta delusissima quando si è resa conto che non doveva occuparsi degli alimenti ma del loro involucro.
Sono la modernizzazione e la digitalizzazione, bellezza! Sì, d’accordo, ma a piace concludere con le parole di un nostro lettore, Gian Ranieri Cuturi: “Le Poste ci bombardano di spot televisivi autoelogiativi che concludono ‘tutto ciò che ti serve’. A me, per esempio, serve una cassetta postale vicino casa”.
14 maggio 2025, il Fatto Quotidiano