Il fischio è un richiamo. E’ una richiesta di attenzione ma è anche un’attenzione.
Il fischio esiste da tempo immemorabile, da quando gli uomini sono apparsi sulla Terra, ma non solo gli uomini perché alcuni animali, per esempio certi uccelli, fischiano. Come ogni suono, lo ricordava Riccardo Muti, è musica che può essere solista, come nel caso di Elena Somarè, la moglie o ex moglie del mio caro amico Claudio Lazzaro che è una professionista nel genere, o inserita in un’orchestra dove vi ha quindi meno importanza.
Ma qui intendo parlare del fischio popolare, del fischio, diciamo così, operaio. Prima che i ceti popolari fossero espulsi dalla città e cacciati nell’hinterland ad abitare paesi che del paese hanno spesso solo il nome, senza una piazza e nemmeno una chiesa (chiedere a Barbacetto) a Milano tutti quelli che pedalavano fischiettavano per tenersi compagnia. Allora la bici, a Milano, era un mezzo di trasporto popolare anche se, con molto ritardo su Amsterdam (dico in ritardo perché Milano come Amsterdam è una città totalmente piatta, per trovare una salitella, brevissima, bisogna andare ai giardini difronte alla Triennale o al Monte Stella nei pressi di San Siro) non era riconosciuto come tale per cui i ciclisti, almeno fino a quando ho pedalato io, erano le vittime designate. Oggi sono i pedoni ad essere le vittime dei ciclisti che pedalano spesso contromano e persino sui marciapiedi. Le bici sono state superate come pericolo solo dai monopattini che possono raggiungere i 30 chilometri all’ora e oltre.
Quindi nella Milano popolare fischiavano più o meno tutti, non però le donne a cui il fischio era interdetto perché ritenuto troppo maschile. Giovanni Trapattoni, milanese doc (è nato a Cusano Milanino) fischiava con quattro dita, due a ogni angolo della bocca. Ma questa è cosa per artisti, per geni come il nostro mitico allenatore. Oggi i coach, in giacca e cravatta, sembrano dei manager. Del resto allo stesso modo fischiava Gioàn Brera, milanese doc anche se di un hinterland all’epoca ancora popolare.
Il fischio, come dicevo all’inizio, è una richiesta di attenzione ma è anche una forma di attenzione. Il fischio alle ragazze, alle giovani donne, aveva questo senso ma adesso è stato dannato dal ‘MeToo’. Un pomeriggio di qualche giorno fa mi trovavo seduto ai tavolini di un bar in viale Tunisia. Accanto c’erano alcuni giovani operai che stavano sistemando delle tubature. Passò una Tipa pistolatissima, vestita in un modo fatto apposta per farsi notare. Uno dei giovani operai fece un fischio, di ammirazione, e lei lo guardò con quegli occhi gelidi, da medusa, che le ragazze hanno incorporato da sempre quando giudicano un’attenzione fastidiosa. Era solo un fischio, ripeto, in nulla assimilabile a un “comportamento inappropriato”. Quando passò davanti e me le dissi: “Un giorno, signora, rimpiangerà questi fischi”.
Il fischio è legato anche al vento perché il vento fischia (“fischia il vento, urla la bufera”).
Oggi il fischio è scomparso. Resiste ancora come forma di disapprovazione. In particolare allo stadio. Però, per una volta, fanno lodevole eccezione gli americani che utilizzano il fischio in segno di approvazione ad un cantante che se l’è cavata bene senza per questo far parte dello star-system o all’orchestra che l’ha supportato.
Un tempo il fischio era utilizzato sui campi di battaglia per avvertire di un pericolo. Non credo però che oggi sui campi di battaglia si fischi perché il fischio viene di fatto sovrastato, e reso inutile, dal frastuono dei bombardieri, dei droni, della contraerea che emettono anch’essi un suono. Ma è un suono di morte.
26 aprile 2025, il Fatto Quotidiano
Novak Djokovic, detto ‘Nole’ dai suoi tifosi. Aldo Cazzullo ha scritto sul Corriere: “Novak Djokovic mi ha dato un’intervista di due ore in italiano, parlando non di smash e volée ma del bombardamento di Belgrado e dell’arresto in Australia” (16.4). Djokovic parla bene cinque lingue, ma se la cava anche in spagnolo e arabo. Una volta, non so in quale occasione l’ho sentito esprimersi in cinese. Del resto gli slavi sono portati per le lingue. Rudi Nureyev ne parlava cinque, capiva anche l’italiano anche se lo spiccicava male. Mia madre, ebrea russa anche se nata misteriosamente in Polonia, Paese che detestava insieme ai polacchi (se volevo farle un dispetto le dicevo che le polacche erano più slanciate e più belle, mentre le russe, di base contadina, erano tracagnotte. Adesso viste quelle sberle di russe che vengono a vendersi in Italia, il gap mi sembra colmato) sosteneva di parlarne sei. Il ruski naturalmente, il francese perché negli anni Trenta aveva vissuto a Parigi, e parlava uno splendido italiano anche se aveva qualche difficoltà con le ‘doppie’ perché in russo non esistono e io stesso, potenza dell’ereditarietà, se ho qualche dubbio sulla mia lingua è proprio sulle doppie. Sulle altre tre che pretendeva di parlare, il lituano, l’estone, il lettone, non potevo verificare e avevo anche motivo di dubitare perché i russi, oltre avere una forte malinconia di fondo, sono strabugiardi, Putin docet. Forse il lituano lo sapeva davvero perché la sua famiglia dopo la Prima guerra mondiale aveva vissuto a Trieste con passaporto lituano. Evidentemente avevano amici in Lituania tanto che quando fuggirono dalla Russia stalinista si rifugiarono proprio in quel Paese. Quanto a me, che pur sono slavo a metà, per le lingue sono negato. So il francese perché da ragazzino i miei genitori quando affrontavano in mia presenza qualche argomento pruriginoso, parlavano in francese. L’inglese lo so male, non l’ho imparato a scuola dove veniva insegnato in modo canino da docenti italiani ma durante i viaggi internazionali. Se parlo, poniamo, con un tedesco me la cavo ma con un londinese pedigree sono in difficoltà perché non si sognano di darti una mano. Sono o non sono stati un Impero coloniale? In compenso avendo viaggiato a lungo in Africa nera so qualche parola di swahili. Ma la cosa che più mi addolora è di non sapere il russo come seconda lingua. Va bene, quando ero piccolo in Italia c’erano i nazisti e non era prudente parlar russo soprattutto con una madre ebrea, ma a partire dall’immediato Dopoguerra mia madre avrebbe potuto insegnarmelo. Fui io a chiederglielo quando avevo otto anni e quindi la possibilità di essere bilingue, com’era mia sorella Anna nata a Parigi negli anni Trenta, era tramontata. I russi sono scialacquatori di tutto, anche di patrimoni linguistici. Però questa conoscenza maldestra della lingua mi fu d’aiuto quando nel 1985 feci un reportage dall’Urss. Quando ne avevo bisogno me la cavavo da solo ma quando interloquivo con dei russi facevo finta di non sapere una sola parola di ruski così quelli parlavano liberamente.
Comunque una lingua la si può sempre imparare. Cosa diversa è conoscere la cultura e la storia di un Paese. Djokovic quando viene intervistato dopo un match massacrante dà a divedere di conoscerle entrambe del Paese in cui è momentaneamente ospite. Importante se non determinante è stata la sua prima coach, Jelena Gencic, che lo avvicinò alla cultura e alla musiche europee (per la musica serba sarebbero bastati Bregovic o Kusturica).
Novak Djokovic è per certi versi un serbo particolare. Si sa che i serbi sono violenti (quando ero in Svizzera per sfuggire alla noia della Confederazione, quando la mia fidanzata lavorava, mi rifugiavo in un bar frequentato da serbi perché una scazzottata ci scappava di sicuro).
Lui invece, Djokovic intendo, è educatissimo e leale in campo e fuori, solo quando ha dei momenti di stizza caccia i coach che gli stanno alle spalle, per poi ripescarli qualche minuto dopo. Se un punto è controverso, la palla ha toccato o no la linea, puoi fidarti della sua parola anche, e soprattutto, quando gli è contro. In questo mi ricorda Stefan Edberg che però era uno svedese e non un trafficone balcanico.
Djokovic è un uomo dolcissimo. Nei vari tornei si porta sempre dietro la famiglia, la moglie Jelena, conosciuta nell’infanzia, e i figli.
Dice ciò che pensa e fa quel che dice, pagandone tutti i prezzi. Era no-vax e per questo nel 2022 fu estromesso, e anche momentaneamente arrestato, dagli Australian Open. Idem per il successivo torneo, lo slam statunitense US Open.
Djokovic ha anche una notevole importanza politica. E’ stato lui ad affermare ripetutamente “il Kosovo è serbo e rimarrà sempre serbo” attirandosi le ire della cosiddetta Comunità internazionale che ha provato in tutti i modi di squalificarlo. Una volta fu duramente attaccato perché fotografato a cena con un ex paramilitare serbo che aveva partecipato alle guerre balcaniche. Ma, dico, uno che per la sua professione, per il suo mestiere, per la sua arte oso dire, sta mesi e mesi lontano dalla sua patria quando vi ritorna chi deve frequentare? I militari della Kfor, forza Nato, fra cui moltissimi italiani, schierati illegalmente a difesa del Kosovo? Inoltre Djokovic nella sua infanzia a Belgrado ha dovuto subire i bombardamenti ancor più illegittimi della Nato (qualcuno ricorderà, forse, che l’aggressione alla Serbia del 1999 era stata fatta contro la volontà dell’Onu, altro che Putin) e questo Nole non l’ha certamente dimenticato.
Probabilmente sotto alcuni aspetti i suoi grandi avversari Rafa Nadal e Roger Federer erano migliori di lui, Nadal più tecnico, Federer più potente, ma Djokovic li supera per la sua grande capacità di concentrazione sui punti decisivi. Portare Djokovic al quinto set voleva dire sconfitta sicura. Naturalmente oggi che sta per compiere 38 anni qualcosa è cambiato, nonostante la sua vita, durissima da asceta, è vegano. Nella finale di Wimbledon dello scorso anno ha perso in soli tre set con Alcaraz che oggi, insieme a Sinner, peraltro attualmente autosospesosi per una questione di doping, è uno dei migliori tennisti del mondo. Ma alle Olimpiadi di pochi mesi dopo la storia è cambiata. Djokovic non aveva mai vinto un’Olimpiade perché, sacrificandosi per il suo Paese, faceva anche il doppio e il doppio-misto, tutte energie sprecate. Nel 2024 voleva a tutti i costi la vittoria alle Olimpiadi. E l’ha conquistata. Questione di concentrazione, come sempre.
Djokovic non è però, nonostante tutti i suoi record, il tennista più vincente di tutti i tempi. Chi è allora? Metto in palio 50 euri per chi lo individua. Naturalmente può indicare un solo nome, non una rosa. Se ci azzecca gli do i 50 euri, se non ci azzecca me li prendo io. Gioco d’azzardo? Sicuramente e anche pubblico. Potrei andare non i galera perché l’età me lo consente, ma se dovesse accadere preferirei la prigione ai “domiciliari”. In prigione si possono incontrare persone molto interessanti e quindi non i ‘colletti bianchi’ che in un modo o nell’altro la sfangano sempre, diventano anche, per meriti penali, editorialisti di qualche giornale, come Giovanni Toti. In altre epoche tutte culturalmente di sinistra, Adriano Sofri, accusato non di una bagatella ma dell’omicidio del commissario Calabresi, è diventato editorialista della Repubblica, il più importante quotidiano di sinistra italiano, e di Panorama, il più importante, all’epoca, settimanale di destra. Attualmente mi pare collabori col Foglio.
Del resto in galera ci sono da quando scrivo perché mi sono sempre messo di traverso. Come Djokovic.
23 aprile 2025, il Fatto Quotidiano
“Il lavoro nobilita l’uomo, ma lo rende simile alla bestia”
Nei prossimi giorni, il 1° maggio, si celebrerà la Festa del Lavoro e dei lavoratori. Cioè noi, senza accorgercene, festeggeremo la nostra schiavitù.
In epoche pre-moderne il lavoro non è mai stato un valore, tanto che San Paolo, che pur essendo un Santo e quindi disponibile al sacrificio, lo definisce “uno spiacevole sudore della fronte”.
Il lavoro diventa importante, anzi decisivo, con la Rivoluzione industriale il cui feticcio è la produttività. Scrive Dino Buzzati: “La produttività, ecco la sola cosa che veramente conti e davvero non si riesce a concepire come per millenni l’umanità abbia ignorato questa verità fondamentale…Produrre, costruire, spingere sempre più in su le curve dei diagrammi, potenziare industrie, commerci, sviluppare le indagini scientifiche rivolte all’incremento della efficienza nazionale, convogliare sempre maggiori energie nella progressiva espansione dei traffici…Tecnica, calcolo, concretezza merceologica, tonnellate, mercuriali, valori del mercato…” da Era proibito, racconto del 1958 dove lo scrittore si schiera contro la produttività in favore della poesia, cioè della vita (se non fosse nato prima di me direi che Buzzati mi ha copiato).
La Festa del lavoro fu istituita negli anni Sessanta dell’Ottocento per difendere i lavoratori dagli eccessi degli industriali che facevano lavorare anche i bambini di sei anni. E furono gli stessi industriali a darsi una qualche calmata quando si accorsero che a furia di massacrare i lavoratori con orari disumani finivano per ammazzarli perdendo così il proprio “capitale umano”, espressione che di per sé già dice tutto. Anche i sindacati sulla linea del pensiero marxista e socialista cercarono di metterci una pezza. Ma, nella sostanza, inutilmente. Per Marx il lavoro resta “l’essenza del valore”, del resto Stachanov è un eroe dell’Unione Sovietica (La classe operaia va in paradiso, 1971, con la straordinaria interpretazione di Gian Maria Volonté) per i liberisti, che non vanno confusi con i liberali, cioè Adam Smith, Ricardo e compagnia cantante, il lavoro è esattamente quel fattore che, combinandosi con il capitale, dà il famoso “plusvalore”.
Intendiamoci la sete di lucro e la voglia di ricchezza non è solo degli imprenditori ma come nota sarcasticamente Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904, riguarda “camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, i frequentatori di bische, i mendicanti, si può dire presso all sorts and conditions of men…”. Ma che la ricchezza dovesse essere raggiunta, non alla Ruota della fortuna o per dirla adeguandoci ai nostri tempi con una vincita al Totocalcio o al Lotto o all’Enalotto, questa era la novità inaudita.
Nel maggio del 1987 feci un reportage dal Sudafrica dell’Apartheid. Ciò che dirò appresso riguarda in particolare il Ciskei dove mi fermai una settimana, uno degli Stati interni del Sudafrica mai riconosciuti dalla cosiddetta Comunità internazionale. Mi accompagnava mio cugino, Valerio Baldini, geologo, che da quelle parti aveva vissuto a lungo. Ne riporto qui alcuni stralci (se è consentito a Feltri, lo sarà anche a me spero). “Le case delle campagne, le classiche huts a forma di cono, sono decorose, sia per la costruzione (i tetti sono di paglia, perché è il migliore riparo dal caldo, ma il corpo è di cemento) che per la disposizione. I campi sono coltivati, in genere a granoturco, quel tanto che serve. Sulla strada si colgono scene d’un’antica Arcadia: donne alla fonte; donne che portano in equilibrio sul capo fascine di legna, cesti di frutta, secchi di acqua; pastori, immobili, avvolti in lunghi mantelli; fieri cavalieri; adolescenti, graziose come gazzelle, che giocano a pallamano”. Fui circondato, per curiosità, da alcuni adolescenti che facevano scuola all’aperto, ragazzi e ragazze. Mi guardavano con occhi curiosi, limpidi, privi di malizia. Per essere felici gli mancava solo, e fortunatamente, la consapevolezza di esserlo. Valerio mi disse: “Vedi, il nero ha una cultura completamente diversa dalla nostra. Non ha voglia di guadagnare, di andare avanti, di fare profitti, si accontenta di quello che ha. Un bianco vuole sempre di più, se ha un campo lo coltiva tutto, il nero lo coltiva solo per quella parte che gli serve. Questa mentalità resiste fino a quando il nero non viene in contatto con il modello dei bianchi. Se vive vicino ai bianchi, vedendo come vivono i bianchi, alla fine assume i loro costumi. Quello che ha non gli basta più”. Ecco spiegato in due parole, senza bisogno di Weber, di Sombart, di Simmel e anche di Marx, lo spirito del capitalismo.
Naturalmente noi questo modo di vivere sereno lo abbiamo smantellato soprattutto in Africa nera e cerchiamo di sconvolgerlo, ad uso naturalmente di predazione, ulteriormente con i vari ‘Piani Mattei’.
Ultimamente c’è una certa rivolta giovanile nei confronti di questa Konkurrenzkampf che ci fa vivere male tutti, in particolare i giovani ma non solo loro. Negli Stati Uniti è nato un movimento, il Luddite club, ispirato al Luddismo, che però non distrugge ingenuamente le macchine, ma si rifiuta di usarle, a cominciare dai micidiali smartphone. Più limitatamente i giovani si rifiutano di fare un solo minuto di straordinario, non vogliono essere disturbati a casa dalle telefonate dei dirigenti. Al lavoro preferiscono la vita.
19 aprile 2025, il Fatto Quotidiano