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Ogni individuo ha diritto di vestire come più gli pare e piace afferma, almeno da un bel po’ di tempo, la cultura occidentale in polemica col velo islamico. Ma in questo diritto non siamo i primi, non siamo i campioni. Negli anni Trenta (per la precisione 1927) Gide al ritorno da un viaggio in Congo pubblicò una serie di fotografie che mostravano donne africane tutte a seno nudo e maschi con un minuscolo perizoma. Dice: per forza all’equatore fa caldo. Ma ai trenta gradi e più del luglio di Milano nessuna donna potrebbe mostrarsi a seno nudo non dico in Duomo o Piazza Duomo che sono luoghi di culto con loro regole precipue: in chiesa portano quasi sempre il velo mentre i maschi, con una curiosa inversione dei ruoli, vanno a capo scoperto e col cappello in mano, a riprova che i capelli nell’uno e nell’altro caso hanno la loro importanza. Fellini per mostrare nel pieno centro di Roma, nella fontana di Trevi, il seno nudo di Anita Ekberg ha dovuto costruirci sopra un film. Sempre negli anni Trenta quelli del viaggio di Gide in Congo una Hedy Lamarr a seno nudo, peraltro pudicamente velato dall’acqua del fiume, fece scandalo. Del resto non sono poi molti anni da quando le nostre contadine portavano un fazzoletto in testa a coprire i capelli e in qualche caso, specie nella Sicilia profonda, lo portano ancora.

Per questo non credo sia sbagliato l’interesse che l’Islam ha per i capelli femminili. Sbagliato è imporre alle donne un copricapo ma l’interesse è più che comprensibile. I capelli sono, insieme agli occhi e alla bocca, una delle parti più affascinanti della donna, indicativi del suo carattere oltreché del suo stato sociale. Tramite i capelli una donna esprime la sua identità. Nell’immediato dopoguerra alcuni cosiddetti partigiani portavano in giro per le strade delle donne che erano state con i fascisti o con i nazisti, rapate a zero, volendo con ciò annullarne l’identità, la “maschera” come dicevano i greci, umiliandole a sangue più che se l’avessero messe nude (i “cosiddetti” facevano anche questo ma era addirittura meno importante).

I capelli femminili esprimono, molto più dei tratti somatici, l’indole della donna tramite il modo con cui li muovono sia pur di volta in volta mutanti: la bizzosità (“da ogni ricciu te caccia ‘nu capricciu…” Modugno), l’alterigia, la dolcezza, la leggerezza, la testardaggine, la durezza, l’aggressività, la sfrontatezza, la pignoleria. Le donne, soprattutto le ragazze più giovani quando sono in una qualche difficoltà, si arrotolano di continuo, nevroticamente, un dito intorno ai capelli. Insomma per le donne i capelli sono molto importanti e vi dedicano una cura maggiore rispetto a tutte le altre parti del corpo basta vedere quanto vi spendono dal coiffeur, al massimo delle loro disponibilità economiche. I capelli hanno anche un alto valore emotivo e sentimentale, quando ci si lascia si conserva una ciocca dei capelli di lei. I capelli esprimono anche il passaggio della donna dall’adolescenza all’età adulta con l’abbandono delle treccine: “Lisa dagli occhi blu, senza le trecce la stessa non sei più”.

In definitiva è meglio vedere o non vedere? Quando ero a Teheran sono entrato nella redazione di un settimanale Donna di giorno, piuttosto aggressivo nei riguardi del regime khomeinista (si sa che le donne sono molto più coraggiose degli uomini): aveva un’ampia sezione dedicata alla moda cosa che metteva in sospetto i “pasdara” più duri e puri. La direttrice, la graziosa Talebeh, portava naturalmente, come tutte, il velo. Ma dal velo le spuntava un vezzoso ricciolo biondo che le dava un fascino tutto femminile. Giocava insomma l’eterno gioco del “ti vedo e non ti vedo” che sembra scomparso nella donna occidentale per la continua esibizione nei film, nella pubblicità e in ogni altro possibile luogo del nudo femminile. Da qui anche la caduta a picco dello strip-tease, ancora in voga una quarantina di anni fa.

Dell’ipocrisia occidentale, perché di questo stiamo parlando, perché sopravvalutando l’importanza dei capelli femminili in realtà la sminuisce, fa parte anche il linguaggio. Raramente voi vi imbatterete su un giornale nel termine “cazzo…”, seguito da eufemistici puntini, e come si sa, l’eufemismo è molto più volgare del termine che vuole sostituire. Ma non troverete mai e poi mai “fica”, persino i laici latini la sostituivano con “pudenda” cioè le cose di cui ci si deve vergognare. Perché mai ci si dovrebbe vergognare dei genitali femminili (in questo caso uso anch’io un eufemismo) quando da essi è generato il mondo?

I capelli femminili si legano poi molto intimamente ad un’altra peluria molto più nascosta anche se maggiormente concentrata. E la domanda inesausta del maschio, specialista in temi irrisolvibili se non a caro prezzo, è: ma le due corrispondono o la Tipa s’è tinta in entrambe? Meglio, prudentemente, non svelare.

 

4 Gennaio 2025, il Fatto Quotidiano

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Papa Francesco, che non per nulla si è dato il nome del Santo protettore dei poveri dei miserabili, degli “umiliati e offesi”, parlando dalle carceri di Rebibbia nell’ambito delle cerimonie per l’apertura del Giubileo, riferendosi ai detenuti ha detto: “E’ molto importante essere qui. Perché dobbiamo pensare che tanti di questi non sono pesci grossi, i pesci grossi hanno l’astuzia di rimanere fuori”. Questa affermazione Bergoglio non l’ha fatta nelle dichiarazioni ufficiali ma parlando, come spesso gli succede, in modo libero (“C’è già troppa frociaggine”) ai presenti, soprattutto giornalisti. Che cosa intendeva dire, di fatto, Bergoglio? Che i ladri di regime quasi sempre, in un modo o nell’altro, se la scampano, i poveracci no. Quasi tutti i media italiani non hanno ripreso questa “vóce del sén fuggita” (Orazio, Metastasio). Mentre nei bar non si parlava d’altro, questa possente affermazione è stata ignorata o trattata in modo del tutto superficiale, credo non a caso, dai media, con la lodevole eccezione del Corriere della Sera, una volta tanto benemerito.

Ma vediamo di chiarirci le idee con alcuni dati relativi all’Italia, anche se il discorso del Papa è valido, se così possiamo esprimerci, Urbi et Orbi. Ma in Italia siamo e in Italia, “purtroppo o per fortuna”, viviamo. In Italia i carcerati per reati finanziari ed economici, cioè i reati tipici di ‘lorsignori’, sono solo lo 0,9% dei carcerati totali, mentre in Germania è il 10%. Il rapporto è quindi di uno a dieci. Si sostiene che i cosiddetti “reati da strada” provocano un maggior allarme sociale. E certamente se un manigoldo deruba una vecchietta che è appena andata a ritirare la pensione, e la mette così sul lastrico, il fatto è grave e va punito. Ma, come ha ricordato Piercamillo Davigo, una bancarotta fraudolenta mette sul lastrico, d’un sol colpo, non una vecchietta ma cento.

La scarsa presenza di “colletti bianchi” in carcere si spiega anche col fatto che a costoro la galera, in attesa di un giudizio definitivo che vista la lentezza della giustizia italiana probabilmente non arriverà mai, ghigliottinata dalla prescrizione, viene risparmiata in favore degli “arresti domiciliari”. Si ritiene infatti che ai delinquenti di diritto comune, che fanno anda e rianda dalle prigioni, il carcere non sia particolarmente pesante, ci sono abituati, mentre per chi fin lì ha vissuto nel lusso e nell’agio la punizione sarebbe troppo severa. E’ uno dei tanti esempi di quel ‘razzismo sociale’ così diffuso nel nostro Paese. Vai in carcere stronzo che forse imparerai qualcosa perché il carcere è anche teso alla rieducazione del condannato e quei pochi lorsignori che l’hanno sperimentato, penso, tanto per fare un esempio, a Sergio Cusani, noto brasseur socialista negli anni del Craxi imperante, condannato a quattro anni di galera, scontati per intero, che ne è uscito migliore e dedito al volontariato.

Daniela Santanchè, ministro del Turismo, finanziario, sotto processo per bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e truffa aggravata ai danni dello Stato è ancora al suo posto. Naturalmente per la Santanchè, come per tutti, vale il principio della presunzione di innocenza fino a condanna definitiva, ma è la stessa Santanchè che ha affermato per i reati da strada: “in galera subito e buttare via le chiavi”, cioè senza nemmeno un processo.

Può anche accadere che un grande imprenditore o un importante uomo politico finisca per essere condannato, ma sconta la pena ai servizi sociali. E’ il caso di Silvio Berlusconi (ci spiace citarlo ancora una volta, ora che è morto, ma è il principale responsabile di quelle leggi ad personam e ad personas che praticamente hanno messo al sicuro, in questi anni, i colletti bianchi) condannato a quattro anni per una colossale evasione, di cui grazie a un indulto finì per scontarne uno solo andando a raccontare, una volta alla settimana, le sue barzellette alla Fondazione Sacra Famiglia, ricovero di anziani, i veri condannati.

Nella vicina Francia Nicolas Sarkozy, ex Presidente, condannato a tre anni per corruzione e traffico di influenze, ne deve scontare almeno uno con il braccialetto elettronico, cosa particolarmente umiliante. Sembra di capire che in Francia le regole valgono per tutti, senza distinzione di censo.

Detto quanto ho detto, e non rinnegando nulla, io penso però si debba avere per tutti, anche per gli avanzi di galera, misericordia, quella che i latini chiamano pietas, perché in loro e in tutti la condanna c’è già: la condanna di vivere in questo Universo inesplicabile.

“Se t'inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
In quell'aria spessa, carica di sale, gonfia di odori
Lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano
Quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano
Se tu penserai e giudicherai da buon borghese
Li condannerai a cinquemila anni più le spese
Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
Se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo” (La città vecchia, De André)

 

31 dicembre 2024, il Fatto Quotidiano

 

 

 

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La nostra è l’era dello scientismo cioè della Scienza tecnologicamente applicata. La Scienza attraverso la teoria della relatività di Einstein e dei suoi successori è riuscita a darci una rappresentazione abbastanza credibile dell’universo in cui siamo costretti a vivere. Ha risolto, o creduto di risolvere, l’eterno problema del rapporto spazio-tempo sostenendo che Spazio e Tempo sono in realtà lo stesso fenomeno che ritorna eternamente su se stesso. “Ogni verità è curva” scrive Nietzsche nella sua teoria dell’”eterno ritorno dell’identico”. Teoria inquietante perché se tutto ciò che è stato sarà e tutto ciò che sarà è stato che ci facciamo noi qui sulla Terra? Teoria che angosciava lo stesso Nietzsche che, precedendo di un mezzo secolo Einstein e i suoi, avrebbe potuto risolvere con un mezzo secolo di anticipo la diatriba. Teoria che però annulla lo stesso pensiero nicciano. Perché la domanda, che ci stiamo a fare noi in questa eterna curvatura dell’universo, riguarda anche lui. Tanto che nella sua opera Nietzsche a volte affronta questo problema, o piuttosto dramma, ma altrettante se ne ritrae angosciato. Una ricaduta o un riflesso o una premonizione della teoria di Einstein della relatività si ha nell’antropologia col culto, soprattutto nelle società più antiche, degli antenati. Gli antenati, in queste culture, più vicine all’origine del tutto, sono ciò che noi siamo stati e che necessariamente ritorneremo a essere. Di qui, antropologicamente, il rispetto per i vecchi perché nella loro esperienza è racchiusa l’esperienza primigenia. Oggi, nella nostra società che ha perso ogni tipo di bussola, il vecchio è un relitto perché la sua esperienza è continuamente superata da quella delle generazioni che avanzano (“E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”).

Della teoria della relatività io che sono, come quasi tutti, un ignorante in materia (“Del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente” Sancio Panza nella canzone di Guccini, Sancio che aggiunge “Credo solo in quel che vedo e la realtà per me rimane il solo metro che possiedo, com'è vero... che ora ho fame!”) credo di aver compreso una sola cosa: che anche la relatività è relativa. Tanto che lo stesso Einstein dovette fare continui aggiornamenti della sua teoria parlando di una “relatività speciale”. Del resto tutto cambia a seconda del punto di osservazione di chi la osserva. E’, dal punto di vista artistico, l’intuizione di Duchamp che mettendo una bicicletta su un piedistallo afferma: “Questa è un’opera d’arte per la sola intenzione dell’artista” che darà inizio alla cosiddetta “arte concettuale” e si spalancheranno le porte agli imitatori deficienti che a una Biennale di Venezia, ma è solo un esempio, metteranno sul palcoscenico, pretendendo che sia arte, dei mongoloidi.

Dunque la Scienza è riuscita a decodificare, almeno parzialmente, lo spazio-tempo in cui viviamo. Ma non ha saputo rispondere alle eterne domande di Catalano: “chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando?”. Qualora anche la Scienza, attraverso il suo trafficare col Dna, ci dicesse da dove nasce la vita dell’uomo resterebbe da spiegare da dove ha origine questo incomprensibile Universo. In realtà, in un certo senso, la Scienza, e proprio in Einstein, ce lo dice: viviamo in un eterno presente che non ha origine né fine incurvandosi perennemente su se stesso. Ma che cosa ci sia stato prima e che cosa ci sarà dopo questo eterno presente la Scienza, coerentemente, non ce lo dice. Se siamo in un ”eterno presente” non c’è né un prima né un dopo. Quindi per la Scienza le domande di Catalano, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo sono infantili e inutili. La Scienza ti dà una descrizione dell’arredo dell’Universo, ma non il suo perché.

Peraltro la Scienza moderna, nonostante la psicoanalisi, non è riuscita a governare, e forse nemmeno a capire, alcune espressioni tipiche dell’essere umano, l’istinto e l’intuizione tanto che Freud, alla fine della sua vita, fu costretto a confessare che non aveva mai guarito nessuno (si curasse lui per primo). E da quella vecchia isterica e vendicativa che era non riuscì mai non dico ad ammettere che il concetto di “inconscio” lo aveva derivato da Nietzsche e nemmeno da Dostoevskij (“Dostoevskij? Ecco uno psicologo con cui potrei intendermi” scrive Nietzsche, isolato a Sils Maria mentre l’altro a qualche migliaia di chilometri di distanza scriveva racconti detti d’appendice). Perché fra le aporie dei tempi moderni c’è che si pubblicano centinaia, migliaia di testi scientifici, nelle cui contraddizioni si annega qualsiasi possibile verità, ma poi come mi ha detto Roberto Vacca (“Il medioevo prossimo venturo”, 1990) gli scienziati, i filosofi, i pensatori si scambiano le notizie più interessanti nei convegni in cui si incontrano di persona.

Come abbiamo detto gli scienziati ci spiegano l’arredo dell’Universo, ma non sanno dare ragione ad alcuni fenomeni apparentemente inesplicabili. Come mai una contadina toscana si mette improvvisamente a parlar russo senza mai aver conosciuto questa lingua? Come mai, come è stato dimostrato, tre persone si mettono a fare, nello stesso luogo, certi discorsi che facevano cento anni prima? Io credo che ciò sia perché noi crediamo di vivere in un mondo a tre dimensioni, ma le dimensioni potrebbero essere molte di più come ha intuito il pastore inglese Edwin Abbott in Flatlandia.

Io credo che ci siano intorno a noi forze che non riusciamo a intercettare. Non crediamo nemmeno che esistano. In questo senso il disprezzatissimo esoterismo qualche sforzo lo ha fatto (Guénon “Il Re del Mondo”) Mircea Eliade, il più grande storico delle religioni, romeno, di quella Romania, di quel popolo romeno di cui oggi si suol dire sia un popolo di serie B incapace di determinarsi da solo annullandone, come è avvenuto di recente, le elezioni (E Cioran? E Ionescu? E il più grande centro di studi neroniani che sta a Bucarest?).

Questa inesausta ricerca della Verità oltreché faticosa è del tutto inutile. Dice Eraclito: “Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”. E quanto più si va innanzi questa verità ci appare sempre più lontana. Eraclito, VI secolo a.C., aveva capito tutto. La Scienza nulla.

 

28 dicembre 2024, il Fatto Quotidiano