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Finalmente una notizia. Il Wolverhampton, società della Premier League inglese, ha deciso di muovere guerra alla Var con l’appoggio di altre squadre anglosassoni, degli allenatori, dei tifosi.

Il compito della Var era quello di eliminare, grazie alla sua presunta scientificità, ogni dubbio sulle decisioni prese in campo dall’arbitro. Obiettivo mancato perché le discussioni dei tifosi, degli allenatori, dei commentatori invece di diminuire sono aumentate.

Ma il punto non è nemmen questo. La Var corrompe, come dicono gli inglesi, lo “spirito del gioco”. La partita, come scrive Giancarlo Padovan, che è uno che se ne intende, è come un racconto che si dipana per novanta minuti e più. Interromperla durante il gioco, e non per ragioni di gioco, è come inserire un saggio, sia pur breve, tra due terzine di Dante. Si perde tutta la poesia. E anche il ritmo.

La cosa più esasperante del Var è che non sai mai, per parecchi minuti, se un gol è valido oppure no. Bisogna aspettare la decisione del Var. Ha detto l’allenatore del Tottenham, Ange Postecoglou: “Ormai non esulto nemmeno più dopo un gol, anche perché so che l’arbitro in campo non è più quello che dirige la partita: quello che succede viene deciso in qualche stanzetta”. Il caso più grottesco, fra i tantissimi che si potrebbero fare, è quello della partita Spal - Fiorentina del 17 febbraio 2019:  le squadre sono sull’1-1, nell’area dei ferraresi Chiesa cade, l’arbitro non ravvisa un fallo, la Spal in contropiede segna (2-1), interviene la Var. Per contestare il gol alla Spal? No, come una moviola che retroceda nel tempo è andata a riguardare l’azione in area spallina avvenuta due minuti prima, vede il fallo o quello che ritiene essere un fallo e impone all’arbitro di andare a controllare l’azione al video. Gol annullato e rigore alla Fiorentina che sarà realizzato da Veretout. Dal 2-1 per la Spal si passa all’1-2 per la Fiorentina. Fra una cosa e l’altra sono passati quattro minuti.

Questo spossessamento del potere dell’arbitro, un tempo insindacabile giudice sul campo “del bene e del male”, è il riflesso di un fenomeno più generale: la dipendenza dell’uomo dalla Tecnologia. Oggi l’essere umano, non solo su un campo di calcio, è un dipendente della Tecno e dell’Economia e della Finanza che sono le sue ancelle.

Ma il Var o la Var o come cazzo si chiama esaspera soprattutto i tifosi, come dimostra il fatto che in Gran Bretagna, e non solo, hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa del Wolverhampton. E la passione dei tifosi, pressoché gratuita, è ciò che tiene in piedi il movimento calcistico col biglietto pagato allo stadio o attraverso gli abbonamenti televisivi. Ma anche qui c’è una notevole differenza fra il calcio visto sul campo e quello visto in Tv. La Tv segue l’azione per un raggio circoscritto, ma ci sono giocatori che tu in Tv non vedi quasi mai e invece sono determinanti per la posizione che tengono in campo e perché si interpongono a certe linee di passaggio. Mi ricordo che nel Milan di tanti anni fa, i primi anni Sessanta, Dino Sani era uno di questi.

Che nostalgia di quei tempi, che nostalgia di quella formidabile Jugoslavia che avrebbe dovuto partecipare agli Europei di Svezia del 1992, la Jugoslavia degli Stojkovic, serbo, dei Savicevic, montenegrino, dei Prosinecki, croato, degli Jugovic, serbo, dei Dukic, serbo, del basilare Bazdarevic, bosniaco, capitano, che moderava i suoi compagni tutti votati all’attacco (diciamo tipo ‘Grande Olanda’), allenatore il bosniaco Osim, a dimostrazione che il calcio può unire anche gente che, per etnia o razza o secolari ostilità, è abituata a sbranarsi sul campo non di calcio ma di battaglia. Quei campionati, la Jugoslavia, avendo vinto tutte le partite di qualificazione, tranne una, pareggiata, li avrebbe con tutta probabilità vinti se per una decisione dell’Onu, su proposta degli americani che di calcio non hanno mai capito nulla, i calciatori slavi, già in Svezia, non fossero stati ricacciati a casa.

Nostalgia, dicevo, di Boskov e dell’aria di quei tempi perduti: “Rigore è quando arbitro fischia”.

Il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2024

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Confessandosi nel podcast di Diletta Leotta, Giorgia Meloni ha detto un paio di cose importanti non per la politica, che dovrebbe essere semplicemente una buona amministrazione della cosa pubblica e invece da noi è diventata un guazzabuglio indigeribile, ma per la vita. Ha detto Giorgia: “Diventare madre mi ha cambiato moltissimo, mi ha assolutamente migliorato. Ti sistema tutto, ti stabilizza, rimette le cose nelle giuste proporzioni, ti aiuta ad avere consapevolezza e coraggio”. La maternità ti costringe a incontrarti e scontrarti col principio di realtà. Una donna senza figli resta inevitabilmente figlia. E quindi per lei la morte della madre è una perdita senza risoluzione, senza riscatto, non riesce a “elaborare il lutto”. È vero che la morte di una madre, molto più di quella del padre, è una tragedia perché ci rendiamo conto che gli ultimi ormeggi che ci tenevano attaccati alla riva da cui siamo partiti sono stati tagliati. Però è una conseguenza inevitabile, guai se accadesse il contrario. Ho avuto una fidanzata che ha perso la madre a 89 anni, ma non riusciva e, per quello che ne so io, non è riuscita a farsene una ragione. Negli ultimi anni, alla faccia di chi mi dà del finocchio, sono stato, per capriccio di lei o per quel pizzico di notorietà che ho o, chissà, per un fascino che in gioventù ho avuto e che ancora resiste, con sei o sette donne d’una età compresa tra i quaranta e la metà dei cinquanta (è inutile che ci raccontiamo balle, la bellezza e la giovinezza di lei sono indispensabili per un rapporto sessuale, almeno questo per un uomo, le donne sono più generose), una sola di queste, 43 anni, aveva un figlio avuto all’età di trent’anni e la differenza con le altre era palpabile.

Qualche giorno fa ho riascoltato un’intervista che ho fatto nel 1976 con la splendida Sylva Koscina (ogni tanto questo mestiere ha anche degli aspetti piacevoli). Avevo trentatré anni, lei quaranta, ed era sempre bellissima. Ma aveva due problemi, uno legato all’altro. Lavorando come una pazza (“Per me è già moltissimo guadagnare cinque minuti di sonno”) perché era una miniera d’oro e il marito, Alberto Castelli, la utilizzava in questo senso, non aveva avuto certamente il tempo di rimanere incinta per nove mesi. Croata, nata nel 1933, bella come solo le donne dei Balcani sono, aveva attraversato le guerre, era rimasta sepolta tre volte dalle macerie dei bombardamenti e fiera, orgogliosa, irregolare, si era fatta una scorza dura. Pareva la donna “bella e impossibile” di tante canzoni. Ma adesso, nel giorno in cui la stavo intervistando, svaniti gli splendori di un tempo, dove si era data a spese pazze senza peraltro rinunciare a fare, per amore del suo uomo, la donna di cucina, si trovava, nello spietato mondo del cinema, sola, senza quattrini, senza amici, senza figli. Che cosa le rimaneva? Mi raccontò che quando era caduta in disgrazia ricevette un solo telegramma, quello di Giuseppe Berto. La bellezza, in realtà, era stata per lei un handicap.

Giorgia Meloni in quell’intervista lamenta anche di aver avuto sua figlia Ginevra, che oggi ha dieci anni, a 39 anni, cioè troppo tardi per avere un secondo figlio. E anche qui ha ragione. Il problema del figlio unico è, tautologicamente, di essere un figlio unico, e quindi su di lui si riversano tutte le attenzioni dei genitori. Se guardate bene le storie di famiglie che hanno avuto figli importanti, il più riuscito non è il primo ma il secondo o il terzo. Perché sono stati più liberi dall’attenzione ossessiva dei genitori.

Dai lettori del Fatto mi è stata a volte rimproverata la mia evidente simpatia per Giorgia Meloni. L’ho incontrata, mi pare, nel 1999 a un non so quale talk, mi piacque, lei era davvero giovanissima, io un po’ meno. Mi piacque perché mi parve animata da un’autentica passione politica. Devo dire, preliminarmente,  che io ammiro le persone che fanno con coscienza il loro mestiere, consapevoli dei doveri che esso comporta, dall’artigiano a Elisabetta II d’Inghilterra. Ciò non significa che approvi  tutto ciò che ha fatto la Gran Bretagna, non solo durante il regno di Elisabetta ma nei secoli che l’hanno preceduta. Così, per me, è con Giorgia Meloni. Mi piace la persona, non la sua politica. A distanziarmene basterebbe il suo ultra-atlantismo e, ancor peggio, la politica del suo cosiddetto Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che, pur affermando fariseicamente di rispettare la Magistratura, sta facendo di tutto per impedire l’esercizio delle sue legittime funzioni.

Mi piace Meloni per la sua coerenza. Era di destra in anni in cui era molto difficile esserlo, ed è rimasta di destra. Mi piace perché si spende moltissimo sacrificando la sua vita privata (nei colloqui che abbiamo avuto la sua quasi disperazione era di non poter seguire la figlia, costantemente attaccata al tablet, problema di tutti i genitori oggi). Mi piace per il suo modo di parlare franco, comprensibile a tutti, che le deriva proprio da quell’origine popolana che oggi le viene rimproverata. Mi piace perché, pur avendo raggiunto l’apice del potere, non si è troppo insuperbita, non ha dimenticato i vecchi amici. È come la compagna di classe che ha fatto fortuna. Certo non ha l’intelligenza, la conoscenza della macchina dello Stato e della Pubblica Amministrazione, né ha il respiro storico, nazionale e internazionale, d’un Giulio Andreotti. Ma questo è un fatto che non riguarda la sola Giorgia, ma tutta la dirigenza politica italiana di oggi.

Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2024

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Nei giorni scorsi si è tenuta a Roma all’Auditorium della Conciliazione la quarta edizione degli “Stati generali della natalità”. Ad Eugenia Roccella, ministro/a della Famiglia, è stato di fatto impedito di parlare da un gruppo di giovani che peraltro non si capiva bene che cosa mai contestassero. Polemiche. Intervento solidale di Sergio Mattarella e di quasi tutti i partiti, di maggioranza e d’opposizione. Così, il tema fondamentale della denatalità indissolubilmente legato a quello, altrettanto fondamentale, dell’invecchiamento della popolazione, è finito nel solito bordello.

L’Italia ha il più basso tasso di natalità, cioè 1.20, al mondo. Abbiamo superato in questa sinistra classifica anche il Giappone, che ci precede però in quella, altrettanto sinistra, dell’invecchiamento. In Italia l’aspettativa di vita è di 81.6 anni per gli uomini e 85.6 per le donne. Poiché in Italia le donne che lavorano sono più della metà della popolazione (il 55 per cento circa) il problema si pone soprattutto per loro. Divise tra carriera e maternità riluttano a fare figli e rimandano la scelta il più tardi possibile. In Italia le donne diventano madri intorno ai 32 anni e l’8.9 per cento dei neonati ha una madre oltre i quaranta. Le donne sono state prese dall’abbaglio, anche a causa di alcuni esempi malsani, fra cui quello di Gianna Nannini che, grazie all’inseminazione artificiale, ha avuto un figlio a 56 anni. Le donne hanno creduto che si possa fare figli praticamente a qualsiasi età. Non è così. I ventisette sono gli anni della massima fecondità della donna, che dopo va lentamente ma gradualmente a scendere. A quarant’anni si può avere normalmente il terzo figlio, non il primo. Conosco donne che, per motivi economici ma non solo (in realtà la povertà non è un ostacolo a fare figli, in Africa Nera il tasso di natalità è intorno al 5, nel Medio Oriente islamico è abbondantemente oltre il 2, che è la soglia minima per avere un equilibrio demografico), hanno ritardato al massimo il momento di figliare e, alla fine, non ci sono riuscite. Perché i figli non vengono quando ci fa più comodo.

Come si risolve, o meglio si tampona perché risolverlo non si può, un fenomeno di questo genere? Con una politica a favore della famiglia, come si sgola tra gli altri, con la sua voce quasi non più percettibile (87 anni), papa Francesco?  Con una politica a favore della famiglia, asili nido gratuiti, aiuti economici, detassazione (ricordo, per incidens, che nel diritto romano i maschi celibi pagavano più imposte del resto della popolazione)? Anche su questo punto siamo in ritardo su altri Paesi europei, come la Francia che è riuscita faticosamente a portare il suo tasso di natalità a 1.79, comunque non sufficiente per avere l’agognato pareggio demografico.

Poi c’è l’altro corno della questione: l’invecchiamento. Un invecchiamento che, secondo una propaganda non disinteressata, è spostato sempre più in là nel tempo. A sentir costoro non ci dovrebbero essere più vecchi. Un uomo che oggi ha settant’anni avrebbe la vitalità di un suo coetaneo di mezzo secolo fa. Si è inventata anche, per il vizio tutto moderno di non dire mai le cose col loro nome, la “quarta età”. Balle. Per me la quarta età inizia quando ti diventa difficile metterti le mutande. Oggi un uomo che ha superato l’età della pensione, 67 anni circa in Italia, ha già dovuto affrontare, oltre ai consueti fastidi e malattie dell’età, lo shock della pensione, un istituto che solo la crudeltà della modernità poteva inventare. Tu perdi, da un giorno all’altro, il ruolo, sia pur modesto, che avevi avuto nella società e adesso “vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”. Si cerca di compensare interessandosi a cose di cui non ci era mai fregato niente, come racconta il bellissimo libro di Flaubert Bouvard & Pecuchet. In epoca preindustriale il vecchio era il detentore del sapere, delegava ai figli, ai numerosi figli, le operazioni più faticose ma conservava un ruolo e la sua vita un senso. Nella nostra società, caratterizzata da continue e velocissime innovazioni tecnologiche, in testa quella digitale che è considerata la panacea di tutti i mali, il sapere è detenuto dai giovani, non dai vecchi. Come dice lo storico Carlo Maria Cipolla “nella società agricola il vecchio è il saggio, in quella moderna, industriale, è un relitto”.

Come si risolve oggi il problema, anzi il dramma, dei vecchi non più considerati nemmeno vecchi? Facendoli falciare sui marciapiedi da ragazzini in monopattino, come avevo proposto io con grande scandalo di Marco Travaglio? Evidentemente non si può. Ma il problema resta, tale e quale. “Una società la cui popolazione sia formata in prevalenza da vecchi - diceva lo psicanalista Cesare Musatti, ultranovantenne e quindi al di là di ogni sospetto - mi farebbe orrore”. Inoltre i vecchi non sopportano la compagnia di altri vecchi perché in essi si rispecchiano. I vecchi stanno in questa fourchette: se son soli si deprimono, e la solitudine, come ci dicono le statistiche, è più omicida del fumo (nel recente lockdown molti vecchi sono morti per solitudine) ma se arriva della gente vogliono solo che se ne vada via al più presto. Senza usare le maniere forti, di tipo nazistoide, com’era raccontato nel bellissimo film I viaggiatori della sera con Ugo Tognazzi, regista, e Ornella Vanoni, si potrebbe eliminare o quantomeno tamponare “l’accanimento terapeutico” su vite, giunte agli estremi, che non hanno più alcuna ragion d’essere. Scrive Max Weber nell’Intellettuale come professione, 1918: “Prendete una tecnologia pratica così sviluppata scientificamente come la medicina moderna. Il ‘presupposto’ generale di questa attività è - in parole povere - che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vita e della riduzione al minimo del dolore. E ciò è problematico. Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita al moribondo, anche se questi implora di esser liberato dalla vita, anche se la sua morte è e dev’essere desiderata - più o meno consapevolmente - dai suoi congiunti, per i quali la sua vita non ha più valore mentre insopportabili sono gli oneri per conservarla, ed essi gli augurano la liberazione dai dolori. Ma i presupposti della medicina impediscono al medico di desistere. La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di esser vissuta. Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini”.

Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2024