Ha suscitato preoccupazione a Milano l’iniziativa di una fondazione islamica, La Misericordia, di costruire una nuova moschea a Milano in zona San Siro. Lo si ricava da un articolo de il Giornale (14.01). La preoccupazione per una volta non è tanto ideologica (in fondo a Milano gli islamici sono 200 mila e bisogna pur tenerne conto). La vera preoccupazione, come ha osservato il consigliere comunale di Forza Italia De Chirico è che intorno alla moschea nascano altri edifici di tipo speculativo che nulla hanno a che fare con la religione, bensì col business e che peggiorerebbero, dal punto di vista ambientale ed economico, un quartiere “già sotto pressione per il degrado, l’alto numero di alloggi occupati”. A De Chirico sfugge, forse, che quella che per ora è una sua supposizione, a San Siro, intorno allo stadio Meazza, è già da tempo una realtà. Il progetto delle due società calcistiche che operano a Milano, di proprietà straniera, americana, oltre a quello di abbattere il Meazza che a Milano è un’Istituzione, più del Duomo, perché su quegli spalti si sono sedute generazioni di milanesi, è di costruirvi attorno il solito ambaradan di supermarket, hotel di lusso, centri commerciali e la cosa gli riuscirà facilmente perché l’ippica in Italia è in crisi (in Francia un po’ meno) e quindi prendere possesso di quei terreni sarà un gioco da ragazzi. Gianni Barbacetto, sul Fatto, ha dedicato decine di articoli sulle conseguenze della sciagurata operazione che gira intorno allo “stadio Meazza” che fino a non poco tempo fa si chiamava ancora “San Siro”.
La preoccupazione, non di De Chirico, ma di noi milanesi, è di disgregare socialmente ed economicamente una vasta ed importante area del capoluogo lombardo. Ma questo problema è nato molto prima che arrivassero gli speculatori americani o islamici. Nasce col boom economico dei primi anni Sessanta quando si trattò di assorbire l’immigrazione prima dal Veneto e soprattutto dal Sud. L’immigrazione dal Sud non pose problemi. La polemica fra noi “polentoni” e loro “terroni” si riduceva a uno sfottò bonario (diversa era la situazione a Torino non solo per i famigerati letti caldi ma per le freddezza tipica dei torinesi che ha anche qualcosa a che vedere col direttore di questo giornale). In fondo era gente che veniva qui con una gran voglia, oltreché necessità, di lavorare e i milanesi, imprenditori o lavoratori, hanno avuto sempre un grande rispetto nei confronti di chi lavoratore o imprenditore “rusca”. Mi ricordo di aver avuto un buon rapporto con Fioravante Stell che era stato sindacalista alla Borletti. Socialista, aveva combattuto tutte la battaglie sindacali in Borletti non scontando nulla ai padroni ma parlava con grande rispetto dei Borletti perché “ruscavano”. Erano i primi ad entrare in azienda e gli ultimi a uscirne e questo mi riporta a un altro episodio che riguarda i Rizzoli. Un venerdì di primo pomeriggio Angelo Rizzoli junior si presenta nell’ufficio di Angelo Rizzoli senior, il fondatore di quell’azienda editoriale e gli dice: “Cumenda – lo chiamavano così anche in famiglia – è venerdì e fra poco ci sarà il solito arrembaggio dei milanesi verso i laghi, io vorrei evitare le code e uscire adesso”. Risposta del Cumenda: “Se tu pensi di poter uscire due ore prima degli altri, puoi anche non ripresentarti lunedì”. Questo era il clima in cui venivano educati i giovani rampolli della borghesia imprenditoriale.
Quando facevo l’università, siamo quindi verso la fine degli anni Sessanta, abitavo in un edificio alla fine di via Novara, periferia ovest di Milano. C’erano ancora gli “orti di guerra” perché la città era ancora integrata alla campagna. Anche parecchi anni dopo quando vivevo in una zona più centrale veniva un contadino che mia madre chiamava “l’uomo delle uova” perché ci portava appunto i frutti della campagna circostante.
Oggi si fa una grande questione sugli involucri dei cibi che sono diventati più importanti del contenuto. Per motivi ecologici e di salute oggi l’involucro non deve essere di plastica, deve essere bio, eccetera. Poiché mio padre era direttore di un giornale da noi la carta abbondava e quindi avevamo stabilito un patto col fruttivendolo o col salumiere. Noi gli davamo la carta che avevamo in abbondanza e lui ci faceva un piccolo sconto. Insomma eravamo molto più poveri, siamo nel primo dopoguerra, ma più solidali.
Quando abitavo in via Novara andavo a studiare all’ippodromo del galoppo detto “alla Maura”. Mi piaceva, mentre studiavo, ascoltare il galoppo dei cavalli e le frustate dei fantini. Al ritorno da un’estate a un certo punto alzai gli occhi e vidi che al di là della pista, quella che verrà fra poco smantellata e adibita ad altri usi, c’erano, costruiti in soli due mesi, dei grattacieli. Era nato il Gallaratese, senza un cinema, senza un luogo di ritrovo, senza una piazza e forse senza nemmeno un bar. Poi venne il Gratosoglio che era anche peggio. Il prestigioso studio Peressutti, Belgioioso, Rogers (Pbr) aveva pensato bene di costruire alla base di enormi grattacieli alti dodici piani perfetti dal punto di vista estetico perché non avevano nemmeno balconi che aggettavano in fuori, dei piccoli locali dignitosi che dovevano essere adibiti a negozi o a luogo di ritrovo per i ragazzi. Peccato che divennero quasi subito dei centri di spaccio e di uso di droga.
Era il periodo in cui il direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, mi aveva affidato il compito di andare nei quartieri di Milano come se fossi non a Milano ma a Hong Kong. Tra i nuovi quartieri esplorai Milano Due edificato da Berlusconi. Ebbene di quei luoghi pur disastrati era il peggiore. Era il quartiere della nuova borghesia milanese che non potendosi più permettere, neanch’essa, un appartamento in città, troppo caro, si sfogava in un quartiere di mezzo lusso totalmente privo di vita. Il mito a Milano Due era il famigerato “verde” che i ragazzi non potevano neanche toccare. Era un quartiere disumano dove i ragazzi, e non solo loro, crescevano molto distanti dalla realtà. C’era in realtà un locale, Lo Sporting (o Scorpion?), che però per i prezzi era inabbordabile anche per quelli. Mi ricordo che il direttore dello Sporting, Gino Spada, una brava persona, quando morì Papa Luciani si precipitò nelle salette dove stavano giocando a bridge e diede la notizia. Si sentì rispondere: “due picche!”.
Mi ricordo che uscendo da Milano Due incrociai un ragazzino con regolare racchettina in mano. Gli chiesi: “Ti piace vivere qui?” “Sì, sì” rispose con fare smorto, “c’è tanto verde” ripeteva talmudicamente la giustificazione dei suoi genitori per essere andati ad abitare in quel luogo cimiteriale.
Una volta entrai in quella che sulle prime mi sembrò una gelateria, sedie di plexiglass e nemmeno un confessionale. Era la chiesa di Milano Due. Del resto a Milano Due non si facevano nemmeno i funerali. Sarebbe stato disdicevole far vedere che in quel luogo, fra il verde e i campi da tennis, anche la gente moriva. I funerali li facevano nella vicina e proletaria Segrate. Del resto nemmeno il prete aveva l’aspetto di un prete, ma piuttosto di un manager. Non mi parlò di religione o almeno di spiritualità, ma solo di conti.
E’ molto difficile trovare a Milano Due, ma in realtà in tutta Milano cui questo quartiere dà il tono a tutto il Paese, l’antica Milano col “coeur in man”. Anzi è impossibile trovare nella Milano di oggi un pizzico dell’antica umanità. Insomma è impossibile ritrovare Milano nonostante la statistiche, queste odierne Divinità, la diano come la città in cui si vive meglio in Italia.
21 gennaio 2025, il Fatto Quotidiano
Morire è facile. Lo hanno fatto tutti.
Chi teme troppo la morte pensa di essere immortale.
Si dice “ammazzare il tempo”. Purtroppo è il tempo che ammazza noi.
“Quanto tempo passa fra l’arrivo al Pronto soccorso e l’intervento del medico di guardia?” chiede la solerte cronista al primario. “Il tempo di morire”.
Secondo la medicina moderna dovremmo fare almeno sei controlli clinici all’anno. Eppure è così chiaro: è vivere che ci fa morire.
Legge matematica. Non fare mai un favore gratuito a un amico, non te lo perdonerà perché si sente in debito.
Date e vi sarà tolto.
Si dice, a volte, “lasciamoci andar al caso”. Ma, purtroppo, è il caso che non ci molla.
Quel che accade invecchiando non è tanto che si perdono alcune certezze sul mondo, ma che si perdono tutte le certezze su se stessi.
A Chronos, il Tempo padre di tutti gli Dei e degli uomini si aggiunge un semidio, il Caso.
Io sono un dubbioso dogmatico.
Il bello del senso di colpa è che la pena ricade regolarmente sulla testa degli altri.
I conservatori sono altrettanto stupidi dei progressisti, ma questi sono più pericolosi: perché si muovono.
Siamo una società individualista senza individui.
Se il comunismo è vittima del suo insuccesso, il capitalismo lo è del suo successo.
Oggi chi lavora non può diventare ricco: perde troppo tempo a lavorare.
Pudore: scomparso.
Non si può più nemmeno darsi ai vizi: li hanno tutti.
Mi rompono sommamente i coglioni quelli che mi rimproverano di essere ancora vivo.
Il vero masochista non è chi prova piacere nel dolore, ma dolore nel piacere.
Per Oriana Fallaci. L’entusiasmo non è un argomento.
L’uomo più felice è il cretino che non sa di essere cretino. Chi si rende conto d’essere un cretino non è un cretino.
Il solo uomo veramente libero è il morto.
L’uomo contemporaneo, sempre proiettato fuori di sé, non sa vivere che nell’opinione altrui.
Il dramma dell’uomo contemporaneo è constatare che la razionalità ha fallito, senza, per questo, poter tornare all’irrazionale.
Pubblicità: l’Ottocento ha creato capolavori perché il Novecento li sputtanasse.
Dio. L’unica scusante di Dio è di non esistere.
Dio. Se c’è, si è nascosto molto bene.
La verità non è davanti, ma dietro di noi.
Sessantotto. La via più diretta per arrivare alla Direzione del Corriere.
L’intelligenza è un handicap. La cultura è un handicap. La sensibilità è un handicap.
La Storia è una fake. Che cos’è una fake? E chi lo sa.
Il dotto, l’erudito, non ha nulla a che fare con la cultura. E infatti Nietzsche, che viveva solitario a Sils, preferiva parlare col macellaio, col postino, col farmacista, aborriva i docenti universitari, soprattutto se tedeschi.
Per giornalisti. La scrittura è musica, cosa interdetta a Kant, Hegel & Company.
Lo studio? Non serve a nulla e ancor meno serve la ricerca.
Innovazione. Parola magica che dovrebbe risolvere tutto.
Chef. Troppo tardi si capisce che la ricetta della nonna era meglio.
Nulla si crea e tutto si distrugge.
Siamo l’incubo di qualcuno che un giorno si sveglierà.
Il futuro non è davanti ma dietro di noi.
Ai tempi mostri.
Muore mille volte… chi ha paura della morte.
17 gennaio, il Fatto Quotidiano
Aldo Cazzullo in una sua risposta sul Corriere (24.12) a un lettore scrive che oggi le disuguaglianze sono tornate quelle dell’Ancien Régime. E’ un dato di fatto che le disuguaglianze sia in una singola nazione sia a livello internazionale siano progredite in parallelo col progresso portato dalla Rivoluzione industriale. Alexis de Tocqueville che pure è uno dei padri nobili della democrazia nel “Saggio sulla povertà” (1830) nota, sbalordendosene, che nell’Inghilterra del suo tempo, il Paese più opulento d’Europa, nel pieno del suo sforzo industriale, cioè della sua crescita, i poveri erano sei volte di più che in Spagna e Portogallo che erano appena all’inizio di quel processo, mentre nei Paesi non ancora toccati dall’industrializzazione, quindi dalla crescita, la povertà non esisteva. Secondo i dati Istat del 2023 in Italia sono in condizione di povertà assoluta quasi 5,7 milioni di individui, cioè il 9,7 per cento della popolazione residente. Nell’Ancien Régime, per quanto questo a noi possa sembrare incredibile, la povertà non esisteva. Esistevano i mendichi che rappresentavano l’1 per cento della popolazione quindi il rapporto è di uno a dieci. Ma in realtà era mendico chi voleva esserlo, un po’ come i clochard volontari di oggi. Mi ricordo un episodio che lì per lì sembra divertente e bizzarro ma in realtà è estremamente significativo. Anni fa a Torino, d’inverno, una donna si buttò nel Po per suicidarsi. Un clochard si buttò in acqua e la salvò. Naturalmente sul posto si gettarono tutte le televisioni locali e nazionali e, come premio, un imprenditore della zona gli promise un impiego nella sua azienda. “Fossi matto” rispose quello “io torno a vivere come ho sempre vissuto, da uomo libero”.
Comunque si riteneva in quelle società che sia il mendico che il “matto” avessero, per canali misteriosi, un particolare rapporto con Dio. Era un modo intelligente per inglobare questi individui nella società, per non farli sentire esclusi, ma parte di essa.
Il Signore viveva nei suoi Castelli, tra l’altro insalubri, il contadino nella campagna. Vivevano peraltro sullo stesso spazio agricolo, a contatto di gomito e quindi fra di loro s’intrecciavano rapporti che non erano solo di puro calcolo ma anche sentimentali ed emotivi. Il Signore doveva stare attento a non comportarsi troppo da stronzo perché una rivolta era sempre possibile. Ma in generale i rapporti tra queste due diverse realtà sociali furono buoni tanto è vero che tutte le rivolte vandeane videro aristocratici e contadini uniti nella lotta contro la nascente borghesia. Al Signore non interessava guadagnare sempre di più sempre di più, alla Elon Musk che vuole raggiungere un patrimonio di tre trilioni di dollari. Tutto ciò che entrava nei suoi forzieri doveva essere speso. L’investimento, che è tipico della mentalità borghese, gli era estraneo. Con l’avvento della Rivoluzione francese, dell’Illuminismo e della borghesia un affittuario si lamenta col nuovo padrone borghese perché ha aumentato di molto il canone. “Devi capire” risponde quello “che il nuovo sistema non è fatto per agevolare te, l’affittuario, ma me, il proprietario”.
Scrive Flaubert: “Nessun potere è legittimo, nonostante i loro sempiterni princìpi. Ma, siccome principio significa origine, bisogna riferirsi sempre a un inizio. Così il principio del nostro è la sovranità nazionale, intesa in forma parlamentare… Ma in che cosa mai la sovranità nazionale sarebbe più sacra del diritto divino? Sono finzioni, l’una e l’altra”. Il potere non deve essere legittimo ma, come nota Max Weber, “deve essere creduto” legittimo. E nelle monarchie feudali questo avveniva. Nell’Antico regime e la Rivoluzione (1856) Alexis de Tocqueville scrive: “Bisogna guardarsi bene dal valutare la bassezza degli uomini dal grado della loro sottomissione al potere sovrano: sarebbe servirsi di una falsa misura. Per quanto gli uomini dell’antico regime fossero sottomessi alla volontà di un Re, un genere di obbedienza era loro sconosciuta: non sapevano che cosa fosse piegarsi a un potere illegittimo e contestato, poco rispettato... Questa forma di schiavitù degradante fu loro sempre sconosciuta”.
Infine. Come abbiamo detto, feudatario e contadino avevano stretti legami perché vivevano gomito a gomito sullo stesso territorio. Essendo a stretto contatto l’uno conosceva l’altro. Poteva avvicinarlo, poteva parlargli. Oggi ognuno di noi è più lontano da una grande rockstar o da un uomo politico importante protetto da plotoni di polizia e di guardie del corpo che spesso sono eserciti all’interno dell’Esercito di quanto il contadino fosse lontano dal suo feudatario.
14 gennaio 2025, il Fatto Quotidiano