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Il cardinale Zuppi, Presidente della Cei, in chiusura dell’assemblea generale dei Vescovi italiani ha espresso le sue perplessità sulla riforma del premierato attualmente all’esame del Parlamento. Il cardinale Zuppi e il suo Supremo Superiore, alias il Sommo Pontefice, dovrebbero ricordare che fra Chiesa e Stato italiano esistono due concordati, uno del 1929 firmato, per la parte laica, da Benito Mussolini, il secondo del 1984 a firma Bettino Craxi, che regolano i rapporti fra Stato italiano e Chiesa. Da questi concordati si ricava che in nessun modo la Chiesa può entrare negli affari interni dello Stato italiano. A parti invertite sarebbe come se il nostro premier o il governo italiano o i suoi ministri esprimessero a livello istituzionale dubbi sulla verginità della Madonna.

A dare inizio a questo vizio della Chiesa di entrare a piedi uniti in affari che non la riguardano è stato, come sempre, papa Wojtyla che tuonò contro l’ipotesi indipendentista della Lega di Bossi e il progetto delle “macroregioni”. Questioni che nulla avevano a che fare col magistero della Chiesa per quanto lato lo si voglia intendere. Non è che un popolo è più religioso se è uno piuttosto che trino. Tra l’altro è curioso e bizzarro che la Chiesa si schierasse a favore dell’unità dello Stato italiano quando era stata proprio la Chiesa a dividerlo. La “breccia di Porta Pia” non l’ho inventata io.

Ma anche la nostra cattolicissima premier e quell’altro che ha sempre in mano il rosario dovrebbero ricordare che Camillo Benso di Cavour, colui che di fatto ha creato l’unità dello Stato italiano, ha affermato: “Libera Chiesa in libero Stato”. Quindi non avrebbero dovuto far polemica con il cardinale Zuppi, ma semplicemente ignorarlo o dichiarare le sue perplessità irricevibili. Nel 1997 Umberto Bossi, nella cui Lega c’erano anche cattolici, basta ricordare l’ex Presidente della Camera Irene Pivetti, ebbe un durissimo scontro con la Chiesa. Disse l’Umberto: “Il Papa polacco ha investito nel potere temporale, nello Ior e nei Marcinkus. Ha investito nella politica dimenticando il suo magistero di spiritualità e di evangelizzazione”. Ma anche la Democrazia Cristiana, finché ebbe il potere, tamponò queste indebite interferenze della Chiesa. Giulio Andreotti, il cattolicissimo “divo Giulio”, che andava a Messa alle sei del mattino, non permise mai che la Chiesa si intromettesse nei nostri affari interni. Perché la Dc aveva quel senso dello Stato che sempre gli abbiamo rimproverato, a torto, di non avere, come dimostrò all’epoca del rapimento di Aldo Moro, quando Papi e socialisti, corrotti nell’anima prima ancora che sul piano degli affari sporchi, si schieravano per la trattativa con le Brigate Rosse.

Dubito molto che Giorgia Meloni e soprattutto Matteo Salvini, quantunque schierati su un nazionalismo radicale, abbiano lo stesso senso dello Stato di Giulio Andreotti o del cattolico Amintore Fanfani. Per non parlare naturalmente di Alcide De Gasperi che, dopo la parentesi del Fascismo, fu il continuatore di quella concezione laica dello Stato che era stata di Cavour.

Di recente un uomo politico dallo storico pedigree di sinistra ha detto: “Un tempo temevamo di morire democristiani, oggi speriamo di morire democristiani”.

Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2024

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In uno sgangheratissimo articolo sul Giornale (29.05.2024) Augusto Minzolini, prendendo in esame il cosiddetto ‘caso Toti’, si scaglia contro i magistrati genovesi che hanno previsto gli arresti domiciliari per il Presidente della Regione Liguria. Secondo l’articolo 274 del Codice di procedura penale gli arresti domiciliari, che sono già in qualche modo una misura più lieve della custodia in carcere, possono essere decisi su richiesta del pubblico ministero al Gip, cioè a un giudice che deve convalidarla, in tre casi: uno, pericolo di inquinamento delle prove, due, pericolo di reiterazione del reato, tre, pericolo di fuga. Solo il Pm che sta conducendo le indagini può sapere se questi pericoli esistono in concreto. Il suo apprezzamento è ampiamente discrezionale, ma questa discrezionalità gli è attribuita dalla legge. Evidentemente i pubblici ministeri genovesi, sempre sotto il controllo del Gip, hanno ritenuto che almeno uno di questi requisiti esistesse. Improvvisatosi Pm e Gip, Minzolini sostiene che i giudici genovesi non hanno “lo straccio di una prova”. Minzolini definisce “retorica qualunquista” quella di coloro che ritengono che i diritti, ma anche i doveri, degli uomini che ricoprano cariche pubbliche debbano essere uguali davanti alla legge a norma dell’art. 3 della Costituzione.

Ma è inutile seguire, o piuttosto inseguire, Minzolini nei suoi sragionamenti sgangherati, fra cui c’è quello della “giustizia ad orologeria”, consueto negli opinionisti di destra che si autodefiniscono “garantisti”, categoria giuridica, come quella, contrapposta, dei “giustizialisti”, mai esistita in nessun Codice, né italiano né europeo né di qualsiasi altro Paese. Poiché in Italia ci sono elezioni ad ogni momento, comunali, regionali, politiche e adesso anche europee, i magistrati non potrebbero mai agire senza che cali su loro il sospetto, accreditato nel caso Toti da Minzolini, di fare politica e di essere schierati con una parte politica. Esemplare, in questo senso, è il “caso Teardo”, presidente della Regione Liguria arrestato e poi condannato per “associazione a delinquere, concussione, concussione continuata, peculato ed estorsione” pochi giorni prima delle elezioni politiche in cui si era candidato. Se Teardo non fosse stato arrestato a tempo opportuno, in omaggio alla teoria della “giustizia ad orologeria”, sarebbe diventato un parlamentare della Repubblica, autorizzato, con tutte le guarentigie di cui i parlamentari godono in Italia, immunità compresa, a continuare i suoi maliaffari.

Ma perché dico che è inutile inseguire il professor Minzolini nei suoi sragionamenti? Perché è evidente che è tutto teso a salvaguardare dal rispetto della legge politici e ‘lorsignori’, non certamente gli stracci autori di reati da strada per i quali vale il brocardo di Daniela Santanchè, “in galera subito e buttare via le chiavi”, condiviso da tutta la irriconoscibile destra italiana (ma la destra, e mi scuso con la vera Destra, non era per “la legge e l’ordine”?). Forse Minzolini, se si vuole dar credito a questo personaggio che non ne ha, dovrebbe chiedersi come mai i ‘lorsignori’ di qualsiasi tipo vanno ai “domiciliari”, in genere nelle loro belle case, e i poveracci direttamente in carcere. È una delle tante discriminazioni sociali che esistono in Italia giustificata con l’argomento che per ‘lorsignori’, abituati alla bella vita, il carcere sarebbe troppo duro mentre i poveracci che vi entrano, vi escono e spesso vi rientrano perché nessuno dà loro lavoro, vi sarebbero abituati.

Comunque, e in sostanza, il tentativo di Augusto Minzolini è di dare una lezione morale a chi chiede il rispetto della legge. Ci chiediamo dove fosse Minzolini quando noi difendevamo Valpreda, in carcere da quattro anni senza processo e poi assolto, o il presunto terrorista rosso Giuliano Naria che ha fatto nove anni di carcerazione preventiva, non i “domiciliari”, per essere poi anche lui assolto. Gli sarà facile rispondere che in quegli anni prestava il suo fascino ai film di Nanni Moretti Io sono un autarchico ed Ecce bombo. Ma non è certo per questo che noi non accettiamo lezioni morali da Augusto Minzolini. Costui, arrivato alla direzione di Rai1, la più importante televisione generalista del nostro Paese, in virtù di meriti che gli erano stati attribuiti dallo Spirito Santo, è stato condannato a due anni e mezzo di carcere per “peculato continuato”. Un peculato miserabile, non bastandogli lo stipendio, presumiamo remunerativo, della Rai, Augusto Minzolini sgraffignava sulle ‘note spese’, cosa che peraltro ho visto fare anche a molti altri dirigenti Rai. Costoro facevano i fenomeni, facevano i munifici, invitando a cena un mucchio di persone pagando il conto. Ma quel conto non lo pagavano i Minzolini di turno, lo pagava la Rai con i soldi del canone, cioè con i soldi tuoi, caro, stupidissimo, lettore. E ti tocca anche beccarti l’accusa infamante di “forcaiolo” da un Augusto Minzolini non per nulla ribattezzato da Marco Travaglio “Minzolingua”, nel senso che lecca i potenti ma lecca anche le briciole dei pranzi di gala.

Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2024

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Massimo Fini, Giorgio Bocca la definì “un anarcoide, un russo mezzo pazzo”.

“Una definizione perfetta”.

Russa era sua madre Zinaide. Lei cos’ha di russo?

“Il senso di malinconia. E il masochismo. Anche se i russi hanno vissuto una mutazione antropologica. Un tempo le russe erano contadine basse e tarchiate, il modo migliore per far arrabbiare mia madre era dirle che le polacche erano più slanciate. Pensi invece alle russe che vediamo adesso”.

Cosa pensa della guerra d’Ucraina?

“La formula dell’aggressore e dell’aggredito è giusta; ma non l’ho sentita quando noi occidentali abbiamo aggredito l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia. Putin si è sentito circondato dalla potenza atomica della Nato. Comunque, appena Trump sarà presidente, la guerra finirà”.

Trump sarà presidente?

“Se non lo ammazzano prima”.

La guerra finirà con la vittoria di Putin.

“No: finirà come diceva Berlusconi. Con una trattativa, e un piano Marshall per ricostruire l’Ucraina”.

Lei ha scritto libri in difesa di Nerone e di Catilina.

“Catilina è il primo dei miei eroi. Incarna la dignitas romana: lealtà, difesa dei deboli, coraggio fisico”.

E Cicerone?

“Mi ricorda Scalfari: un retore “ore rotundo”, dall’eloquio enfatico, che cambia idea quando cambia il vento. Un avvocato vilissimo, mentre Catilina morì sul campo di battaglia”.

Come prosegue la classifica dei suoi eroi?

“Secondo il Che, terzo il mullah Omar, quarto Trotzky, quinto Annibale. Tutti perdenti come me. Tranne Annibale, che è giustamente ricordato come uno dei più grandi comandanti della storia”.

E il Che?

“Deriso dai comunisti perché troppo romantico. Un medico argentino che combatte una battaglia non sua, per i cubani, e quando vede che Castro è diventato un dittatore va a morire in Bolivia. E poi era un uomo bellissimo”.

Trotzky?

“Grande combattente, grandissimo scrittore. Se avesse prevalso lui anziché Stalin, la storia sovietica sarebbe stata meno peggio”.

Trotzky avrebbe vinto la seconda guerra mondiale?

“La seconda guerra mondiale non l’ha vinta Stalin; l’hanno vinta i russi, con decine di milioni di morti”.

Certo. Ma l’hanno vinta anche gli americani. Che poi ci hanno salvati pure dal comunismo. Perché ce l’ha tanto con loro?

“Perché ora basta. Non possono tenere il mondo sotto il loro tallone. E poi non mi piacciono. Se in un locale senti sbraitare in inglese, puoi essere sicuro che non sono inglesi, ma americani”.

Il mullah Omar è indifendibile.

“Il mullah Omar è un uomo che si è battuto prima contro i sovietici, poi contro i signori della guerra che avevano trasformato l’Afghanistan in una terra di abusi e soprusi di ogni genere a spese della povera gente, quindi contro gli invasori americani. Nessuna resistenza dura vent’anni, se non ha l’appoggio della grande maggioranza della popolazione, anche femminile”.

I talebani opprimono le donne.

“Io non difendo l’ideologia talebana, che mi è del tutto estranea, ma il diritto di un popolo a resistere contro l’occupazione dello straniero. Del mullah non mi interessa la fede religiosa; mi interessa la sua figura”.

Fuggì in moto.

“La fuga più meravigliosa della storia. Come Peter O’Toole in Lawrence d’Arabia”.

Lei Fini è forse del tutto pazzo, ma ha scritto una frase geniale: Nella prima metà del Novecento è successo tutto, ma non è cambiato nulla. Nella seconda metà non è successo nulla, ma è cambiato tutto.

“E’ così. I nostri padri potevano essere fascisti o antifascisti; noi non possiamo dire sì o no alla tecnologia. Loro condividevano valori e stili di vita: andavano in bicicletta, avevano due paia di scarpe, uno per le feste uno per gli altri giorni. Noi siamo schiavi del marketing. Al tempo del boom ci dicevano “giovani è bello”, ora “vecchio è bello”. La penso come Cesare Musatti, che a novant'anni, quindi al di là di ogni sospetto, diceva: “Una popolazione composta in maggioranza da vecchi mi farebbe orrore””.

Suo padre Benso era antifascista.

“Liberale. A Parigi incontrò mia madre: veniva da una famiglia ebrea che aveva perso tutto con la rivoluzione, ed era fuggita dopo la carestia del 1922. Al confine con la Lituania vendettero l’ultimo samovar d’argento in cambio di un chilo di pane”.

Lei è del 1943, quindi non può ricordare la guerra.

“Ma ricordo la Milano del dopoguerra: bellissima. Una città di quartieri. Io stavo in via Washington, estrema periferia. Sono cresciuto in strada: battaglie continue, ma guai a colpire l’avversario a terra; e i deboli andavano difesi. Il bullismo l’ho conosciuto solo quando mi sono trasferito in centro”.

Suo padre era direttore del Corriere Lombardo.

“Lo fu per 16 anni. Poi con Fanfani cambiò la linea politica e lo mandarono via. Morì di crepacuore a 61 anni. L’età giusta”.

Al Berchet il suo insegnante di religione era don Giussani.

“Corruttore della gioventù”.

Ma se ora lo fanno santo!

“Scriva allora seduttore. Si dava arie da prete spretato, che dice le parolacce. E in un tempo di classi maschili e femminili nei suoi Raggi trovavi le ragazze”.

Lei è stato molto vicino a Giorgio Bocca.

“L’unico amico vero che ho avuto nel giornalismo. Oltre a Walter Tobagi, che era il contrario di me: pacato, mediatore; sarebbe diventato un grande direttore del Corriere. Lo portai a casa in macchina la sera prima che lo ammazzassero. Vigliacchi: Walter non era un uomo fisico, ma se ti colpiscono alle spalle puoi essere anche un Rambo ma non c’è nulla da fare.”

Montanelli?

“Grandissimo signore. Non faceva pesare la sua autorevolezza, perché l’aveva incorporata. Un uomo di grande stile che oggi rivedo solo in Marco Travaglio, nonostante il suo torquemadismo che non condivido”.

Vittorio Feltri?

“Il miglior direttore della sua generazione, e anche di qualche generazione precedente. Nonostante i nostri diverbi”.

Quali diverbi?

“Eravamo all’Indipendente, Berlusconi aveva rotto con Montanelli e lo corteggiava, lui resisteva. Una sera a cena, un po’ bevuti, Vittorio propose un brindisi: “In culo al Berlusca! Restiamo all’Indi!”. La scena si ripeté per tre o quattro sere. Fino a quando, il mattino dopo, non andò al Giornale. Dal Berlusca”.

Lei ha intervistato Pasolini.

“C’erano tanti Pasolini. Mi ricevette nella sua casa molto borghese, all’Eur. Non aveva affatto un tratto da checca, anzi. Ma poi entrò la madre, e si infantilizzò. Tutto un puci-puci: imbarazzante. Quindi arrivò Ninetto Davoli. La sera mi portò al Pigneto, all’epoca un quartiere di ragazzi di vita e di malavita, dove vidi un altro Pasolini ancora”.

Chi stima oggi nel giornalismo italiano?

“Il vostro Lorenzo Cremonesi. Sempre in prima linea”.

E nel passato?

“Curzio Malaparte. Aveva una conoscenza dell’arte che nessuno ha mai avuto né mai avrà, penso alla sua descrizione del Cristo putrefatto di Grunewald… I libri sono un po’ barocchi. La sua allieva Oriana Fallaci invece è degenerata nel rococò”.

Non le piace la Fallaci?

“Come donna era detestabile. L’ho conosciuta nel periodo migliore, quando stava con Panagulis, che la trattava a ceffoni. Come giornalista era ottima nella superficie, ma non sapeva andare in profondità. Bei racconti, bei ritratti; però di dove andava la storia non capiva nulla”.

Fini, non sarà un po’ misogino?

“Al contrario. Considero le donne le vere protagoniste della vita”.

Si è mai innamorato di un uomo?

“No. A 24 anni ho avuto un rapporto non completo con un tipo, ma ho capito che non era quello che mi piaceva”.

Lei ha scritto che la bellezza femminile ci attrae perché vogliamo possederla e sporcarla un po’.

“E’ un’idea che ho trovato in Bataille. Le donne belle e intelligenti mi hanno capito; le femministe no. Il Manifesto mi attaccò, dopo che Rossana Rossanda mi aveva convinto a comprarne delle quote per salvarlo”.

Lei è amico di Grillo.

“Lo conosco da quando faceva il comico. Quando ha iniziato a fare politica gli ho dato molti consigli: tutti sbagliati. C’ero, quando a teatro distrusse il computer, che poi sarebbe diventato essenziale per i 5 Stelle”.

Conte?

“Parla come un avvocaticchio. Per i 5 Stelle è stata esiziale la scomparsa di Casaleggio, che era la vera mente. Grillo era il frontman. Ora sua moglie Parvin, una gran donna, l’ha convinto a fare un passo indietro, a godersi la vita. L’ho visto di recente: è in gran forma”.

E la Meloni?

“Mi piace molto come persona. E’ vera, schietta, diretta, animata da passione autentica. Dopo lo scherzo dei comici russi ho provato a chiamarla sul vecchio numero di cellulare: “Posso parlare con il presidente del Consiglio?”. Mi ha risposto: “Sono io”. Così sono andato a trovarla a Palazzo Chigi”.

Cosa le ha detto?

“Abbiamo parlato dei figli e della vita. Le ho dato un solo consiglio politico: non farti mettere i piedi in testa dagli americani”.

Lei per quale squadra tifa?

“Toro. Superga, Meroni: una storia tragica, che mi si addice”.

Quali sono i più grandi calciatori di sempre?

“Capello dice Pelè, Maradona, Messi. Io dico Neeskens, Iniesta – gran signore – e Van Nistelrooy, centravanti altruista. Era un mite, ma prese a schiaffi Cristiano Ronaldo, che la palla non la passava mai: “E ora vai a piangere da tuo padre portoghese””.

Lei ha un figlio, Matteo.

“La madre era una professoressa, una persona molto concreta, troppo diversa da me. Un matrimonio sbagliato. Ma siamo rimasti in ottimi rapporti”.

Cosa pensa dei due Matteo, Salvini e Renzi?

“Il peggio del peggio”.

Lei ha cominciato all’Avanti, il giornale socialista. Che giudizio ha di Craxi?

“Buono sul piano umano: la sua apparente arroganza era dovuta a una ritrosa timidezza. Sono sempre stato amico di sua figlia Stefania. Ma sul piano politico ha fatto un disastro, distruggendo quel poco di socialismo che restava in Italia”.

Claudio Martelli era suo compagno di scuola.

“Di banco. L’uomo più cinico che abbia mai conosciuto. Come ha detto Tognoli: “Claudio appena sale un gradino distrugge tutto quello che c’è sotto”. Eppure con lui non riesco a essere cattivo come meriterebbe, perché siamo stati ragazzi insieme. E poi gli invidio una moglie giovane e intelligente come Lia Quartapelle”.

Lei non ha una compagna?

“Ho lasciato quattro mesi fa la mia fidanzata, una storica dell’arte”.

Riesce a vivere da solo, quasi cieco?

“Da trent’anni ho questa scimmia sulla spalla. Fin da quando a Capri la mia fidanzata storica, Mariella, mi fece notare il cielo stellato. Mi accorsi che lo vedevo tutto sfocato, e capii che un cielo stellato non lo avrei visto mai più”.

La Milano di oggi le piace?

“Mi fa orrore. Tutti questi grattacieli come ad Abu Dhabi… Milano era una città di case popolari e di palazzi ottocenteschi: bisognava fermarsi al grattacielo Pirelli, già la Torre Velasca era al limite. Milano è una città di solitudini, a coppia o di singoli. Io oggi non conosco la mia vicina di pianerottolo. E i bambini non giocano più per strada”.

Intervista di Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera. 3 giugno 2024