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E ci risiamo. In occasione della “Giornata mondiale senza tabacco”, ormai non c’è dì in cui non ci sia una giornata mondiale per qualcosa, per la mamma, per il papà, per i gatti, per gli animali, per i batteri che sono anch’essi esseri viventi e senzienti, a dispetto dell’animalista compulsivo Vittorio Feltri (“L’animalismo è la malattia infantile dell’ecologismo”) è proseguita la campagna contro quello che è considerato un vizio.

Ma come? Fuma persino Travaglio che è l’uomo meno vizioso del mondo, un potenziale serial killer perché a furia di comprimere i vizi, e quindi esigenze che sono dell’essere umano, saltano fuori i “delitti delle villette a schiera” come li chiamava Guido Ceronetti.

Fra i tanti divieti che costellano la nostra esistenza è spuntato adesso quello di essere obesi. In Gran Bretagna si rifiutano operazioni agli obesi per protesi all’anca e al ginocchio. Intendiamoci, dal punto di vista clinico la cosa ha un suo senso perché l’obesità, per parafrasare Saddam Hussein, è la madre di tutte le malattie o quasi: disturbi cardiocircolatori, diabete, eccetera. Però il diktat britannico non riguarda la medicina in senso stretto, ma l’economia, cioè i costi di queste operazioni. Un obeso può fare di tutto per dimagrire anche operazioni che gli restringono lo stomaco, ma non riuscirci. E’ il caso di Edoardo Raspelli, giornalista e per giunta gastronomo, che questa operazione l’aveva fatta ma, a quanto mi ha raccontato una mia amica, a Sussisa, nell’entroterra genovese, in una trattoria tradizionale e quindi in un ambiente molto tranquillo, si ingollò ogni genere di cibi fino a scoppiarne.

L’obesità è quindi anche una questione psicologica. Ed è direttamente legata al fatto che in una società bulimica come la nostra il cibo ha assunto un’importanza capitale. Sono infinite oggi le trasmissioni che si occupano di grandi e meno grandi chef, da Cannavacciuolo in giù e in su. Prima c’era solo La prova del cuoco di Antonella Clerici che introduceva il Tg1. E Antonella, proponendo i suoi cibi, non era certo una donna che si preoccupava del suo peso e di quello dei telespettatori. Era una donna sana che stava bene nel suo corpo. E’ lei che in un’intervista centrata sul vizio di tutti i vizi, il sesso, si lasciò sfuggire candidamente: “Non posso fare a meno del cazzo!”. Allah l’abbia sempre in gloria.

Questa battaglia spasmodica dello Stato contro i vizi ha un solo senso: impedirci di vivere. Recentemente è anche nato il vino dealcolato. Secondo questa idea statolatrica noi possiamo lasciarci andare ai vizi, il vino in questo caso, però senza pagarne le conseguenze. Siamo come i sessantottini che volevano fare la rivoluzione con la mutua. Cosa che poi può ampliarsi in una dimensione più ampia che riguarda anche la politica e non solo: nessuno si assume mai la responsabilità di quello che fa. La prima responsabilità è verso noi stessi. Se a una persona piace vivere in modo vizioso, io sono a favore di tutti i vizi, tranne la pedofilia, su cui andrebbe aperto un altro discorso che riguarda il Vaticano e nel complesso la morale cattolica che proibisce ai preti di sposarsi, mentre nella religione ortodossa questo è permesso perché nessuno, foss’anche Domineddio, può rimanere vergine tutta la vita o accontentarsi di perpetue vecchie e laide  (“S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre: e vecchie e laide lasserei altruiS’i’ fosse foco, Cecco Angiolieri).

Venendo vecchi, e la nostra società occidentale lo sta diventando, decresce ovviamente la virilità, ma aumenta la libido che è la forma più viziosa dei cosiddetti vizi sessuali. Inoltre si è insofferenti a tutto, anche ai profumi e agli odori. Nota Luigi Mascheroni, la migliore firma del Giornale, che il sindaco del comune di Palma Campania, nel napoletano, ha dichiarato guerra alle “molestie olfattive”, quelle che provengono da cucine e abitazioni. E così, come se tutto il resto non bastasse, adesso abbiamo anche le “molestie olfattive”.

Ritorniamo al “vino dealcolato”. Mauro Corona, che oggi ha 75 anni, ha vissuto un’esistenza da ubriacone impenitente. Ciò non gli ha impedito di avere una vita interessantissima e variegata di esperienze anche perché dopo una ciucca apparentemente devastante andava a correre sulle montagne. E l’esercizio fisico è un antidoto alle depressioni di qualsiasi tipo, in particolare a quelle causate da uso ed abuso di alcool (anche se non si può mai sapere se è l’abuso di alcool che ti manda in depressione o se è la depressione che induce a bere smodatamente).

Insomma il succo della questione è sempre lo stesso: è vivere che ci fa morire. Possibile che non si riesca a capirlo? Che ci si consegni senza riserve a quello che io chiamo il “terrorismo diagnostico”?

Una sola cosa è certa nella vita: la morte. Del resto: “Morire è facile, lo hanno fatto tutti”. Cerchiamo di affrontarla in modo degno. Per i Latini la morte degna è quella in battaglia o che ci si dà per mano propria. Nelle ultime guerre americane una morte degna era impossibile perché uno solo poteva colpire, l’altro solo subire. Queste guerre, come scrive Lewis A. Coser: “Non si differenziano sostanzialmente dall’attacco dello strangolatore alla sua vittima”. Perché il diritto di uccidere in guerra, assolutamente escluso in tempo di pace, si legittima se si può essere, altrettanto legittimamente, uccisi.

In Palestina c’è un esempio palmare di questo tipo di guerra che vede, nella stragrande maggioranza, vittime civili cioè inermi. Nella guerra russo-ucraina le cose sono diverse perché, a parte tutte le diavolerie tecnologiche, a cominciare dai droni, ci sono degli uomini, ucraini e russi, che si battono in campo aperto. E non riesco proprio a capire perché le reazioni ucraine all’aggressione russa siano definite ‘terroriste’. Quando difronte ci sono forze evidentemente impari il ricorso al terrorismo è necessario. Terroristi furono anche i nostri partigiani e il terrorismo è costretto, per la contraddizion che nol consente, a forme di lotta e di strategia non convenzionali (con buona pace di La Russa). Non capisco quindi perché l’Ucraina, coinvolta in una guerra, pardon in “un’operazione militare speciale” (evidentemente abbiamo fatto scuola perché tutti gli interventi occidentali, in particolare americani, dell’ultimo quarto di secolo, dalla Serbia in poi, non sono stati chiamati guerre ma “operazioni di Peacekeeping” o operazioni umanitarie o altre ipocrisie del genere) venga demonizzata perché sta cercando di resistere all’aggressione russa in forme non convenzionali, terrorismo compreso. Insomma alla formulazione geniale di Travaglio “ha stato Putin” dovremmo accoppiare “ha stato Zelensky”. E la cosa mi spiace perché da mezzo russo qual sono la prepotenza di Zelensky, soprattutto nei primi anni della “operazione militare speciale”, quando era protetto dagli americani e dagli europei, in piena russofobia occidentale si era montato la testa, per cui in Italia non potevano esibirsi cantanti e ballerini russi e non si poteva neppure leggere Dostoevskij, non mi sta, dico Zelensky, per nulla a sangue. Ma una cosa gli riconosco: il coraggio, forse anche troppo esibito, ma pur sempre coraggio. Quel coraggio che nessun leader occidentale ha dimostrato di avere, vivendo in quel limbo degli “ignavi” che padre Dante condanna senza appello. 

 

11 giugno 2025, il Fatto Quotidiano 

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E’ scoppiato il caldo. Con un certo anticipo e prevedo che ci sarà un’estate feroce perché, in pratica, non c’è stato inverno. Io la sera sono solito andare al ristorante e per tutto quest’inverno ho mangiato fuori.

E’ venuto quindi il tempo del tè caldo, caldo non freddo, che aiuta a resistere all’afa più dell’acqua, con bollicine e non.  L’ho sperimentato nel deserto. Siamo sulla fine degli anni Sessanta. Avevo progettato un viaggio in Marocco (non professionale, fortunatamente non ero ancora giornalista) perché allora, prima della globalizzazione, che tutto ha omologato, viaggiare aveva ancora il sapore dell’avventura e del mistero. Oltretutto il Marocco non era stato ancora assassinato dal turismo di massa. Certo, molti ricchi europei e anche italiani avevano casa a Tangeri, sul mare. Era una cosa per ricchi che non si può nemmeno definire turismo.  E Tangeri, nonostante la sua ricchissima e millenaria storia, socialmente era lontana dal Marocco più profondo, cioè Marrakech. Alla ricerca di questo Marocco mi trovavo, con un’amica, non alla periferia di Marrakech perché lì non esistevano, allora, periferie, ma ai bordi del deserto. Vidi un grande cartello con scritto Sahara. Sahara è un nome che non può non colpire un europeo, tanto più un bambino quale io psicologicamente ero e sono rimasto perché è l’ingenuità che ti fa capire e scoprire che “il Re è nudo”. Chiedemmo quindi a dei beduini se potevamo accompagnarli, per un breve tratto, nel loro viaggio, un lungo viaggio a dorso di cammello che li avrebbe portati a Kairouan, in Tunisia, altro luogo mitico dove si incrociano, si incrociavano, carovane provenienti dal Mali, dal Marocco appunto e da altre zone del Nordafrica in un perenne commercio di tessuti, di pietre preziose e altro ancora. I beduini, molto cordiali ma di una cordialità molto diversa, più asciutta, da quella di noi europei, furono lieti di portarci per un po’ con loro. Ci ospitarono in un tendone, prima tappa del loro viaggio, dove ci offrirono del tè caldo e ci spiegarono le sue qualità. Fu quindi nel deserto, sotto un caldo atroce, era piena estate, che seppi delle qualità taumaturgiche del tè caldo.

Fu a Marrakech che conobbi il Marocco più profondo quando misi piede nella piazza di Jemaa el-Fnaa, dove la sera la luna fa da sfondo alla Koutoubia. C’erano solo alcuni hippie, nomadi anche loro, in quella stagione esistenzialista.

Entrai quindi dritto e di filato in una dimensione da “Mille e una notte”. Il Marocco, sotto la guida di Hasan II era allora un Paese tranquillissimo (il Polisario era di là da venire) inoltre Hasan II, un grande regnante, curava molto l’istruzione, a una certa ora del giorno vedevi spuntare dalle sabbie del deserto, come miraggi, bambini con la cartella e sui giornali marocchini, peraltro come su quelli tunisini, c’erano dibattiti sui tempi di attenzione dei ragazzi, a seconda delle età.

Per farci da guida ingaggiammo un ragazzino delizioso, Mbarek, dodici anni. Alla fine del nostro rapporto gli porsi dei dinari. Ma li rifiutò. Non con disprezzo o sdegno, ma perché li riteneva, giustamente, non all’altezza del suo lavoro.

Con Mbarek ci spingemmo un giorno fuori da Marrakech e vidi un grande palazzo. “Che cos’è?” chiesi a Mbarek. “Ma come, non lo sai? E’ la reggia di Hasan II”. Arrivato davanti a un piccolo cancello suonai senza alcuna speranza. Dopo un po’ arrivò una sorta di nana con pantaloni gonfi, harem diciamo così, a cui cercai di spiegare a gesti che avrei voluto entrare. L’araba sparì ma poco dopo, misteriosamente, il cancello si aprì e ci trovammo davanti a una lunga distesa di limoneti e aranceti. Sullo sfondo sentivamo un galoppo, era la cavalleria del Re che si allenava. Incontrammo anche tre operai che facevano la siesta all’ombra di un albero. Una fiaba nella fiaba.

Sulla piazza Jemaa el-Fnaa c’erano due mercati: uno all’aperto, l’altro al chiuso. In quello all’aperto i commercianti, chiamiamoli così, stendevano i loro tappeti con la mercanzia, c’erano tappeti molto grandi e altri ridottissimi. In uno vidi solo uno slip usato e poco altro. Nel mercato al chiuso c’erano invece i commercianti più ricchi. Lì facemmo conoscenza con una famigliola, padre, madre e quattro figli. Il più grande di diciotto anni, il più piccolo, Alì, tre, un batuffolo riccioluto e nerissimo (e quando penso ai tanti Alì che abbiamo assassinato, se non proprio in Marocco nelle vicinanze, mi viene il voltastomaco). La famigliola ci invitò tre o quattro volte a pranzo. Cuscus naturalmente. Il più grande, Mohamed, si era messo in testa di andare a lavorare alla Renault, a Parigi. E io avevo ben voglia di cercare di spiegargli che in fondo la sua felicità era lì, con la sua famiglia, con un discreto benessere, nel suo Paese. Ma lui, duro. Io gli dissi che se fosse andato davvero a Parigi e se fosse passato per Milano avrei volentieri contraccambiato l’ospitalità. E infatti in un giorno di maggio si presentò a casa mia. Non aveva cambiato idea. E a Parigi dovette rendersi conto di che lacrime e di che sangue grondi il nostro modello di sviluppo. Non era una migrazione forzata la sua, come quella degli odierni migranti. Non era per la brutale fame come sono le migrazioni di oggi. Seguiva un’illusione.

Le rivolte delle banlieue parigine si spiegano così. Le banlieue parigine sono di tutto rispetto, non hanno nulla a che fare con Tor Bella Monaca. Ci sono palestre, mediateche, centri sportivi. Non è proprio un caso che nelle banlieue parigine, o vicine a Parigi, i sindaci siano comunisti come, solo per fare un esempio, Patrice Leclerc, sindaco di Gennevilliers o come Charlotte Blandiot-Faride, comunista, che è sindaca di Mitry-Mory.

Insomma a causa di questo tipo di migrazioni siamo riusciti a resuscitare, almeno a Parigi, una sinistra morente in tutto il resto d’Europa tranne il caso di Mélenchon, non per nulla francese anche lui, e nel resto del mondo se si esclude il Sudamerica (Lula, Chávez, Maduro).

Cuba è comunista, vero, ma comunismo e socialismo sono due cose molto diverse. Il comunismo quando ci riesce vuole una parità economica e sociale a scapito dei diritti civili, il socialismo cerca di raggiungere una ragionevole parità senza comprimere i diritti civili (sia detto di passata: ho letto di recente degli articoli, immondi, che descrivono Cuba come un “universo concentrazionario”, ci si è dimenticati di Batista? Inoltre a Cuba sanità ed istruzione sono gratuite proprio come in Italia e negli States).

Insomma è stato proprio grazie ad un’illusione, alla chimera inseguita dal marocchino Mohamed che la sinistra, o quello che ne resta, è tornata ad avere un ruolo, sia pur modesto, in Europa (la socialdemocrazia è un compromesso ragionevole, ma pur sempre un compromesso). Paradossi della Storia.

 

8 giugno 2025, il Fatto Quotidiano

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I giovani si dividono in due categorie. Quelli che si drogano e quelli che si drogano. Quelli che si intossicano della droga propriamente detta il cui uso è in costante espansione (tracce di Fentanyl, la potente droga di moda, sono state trovate nei delfini del Golfo del Messico) e quelli che si intossicano di smartphone il cui uso è anch’esso in aumento, non solo nei giovani naturalmente ma è arrivato a riguardare bambini di cinque anni. A quest’orgia vanno aggiunti gli psicofarmaci, il cui uso non riguarda però specialmente i giovani, ma tutti. In un’inchiesta che feci quando pubblicai La Ragione aveva torto? (1985) risultava che 502 americani su 1000 facevano uso abituale di psicofarmaci. Cioè più di un americano su due non stava bene nella propria pelle. E vedendo ciò che accade oggi in America non c’è ragione di pensare che le cose siano cambiate se non in peggio.

I fenomeni delle droghe quelle propriamente dette e le altre si inserisce in un alveo più grande vale a dire nelle nevrosi e nelle depressioni che sono malattie tipiche della Modernità. Appaiono all’inizio della Rivoluzione industriale per poi dilagare (Freud docet). Non esistevano nei tempi passati. C’era solo il malato psichiatrico, il ‘pazzo’ che però i nostri progenitori medievali erano riusciti a metabolizzare credendo che il pazzo, come il mendico, aveva un suo rapporto privilegiato con Dio.

La droga di massa, che coinvolge tutti i ceti, è un fenomeno abbastanza recente in Europa. E c’è chi, come Walter Veltroni (Corriere, 3.5) che come sociologo a me pare valga molto di più di quando faceva il politico, insinua che l’immissione massiccia della droga in Europa riflette un calcolo politico: distruggere alcune generazioni di cittadini europei.

Prima la droga nella forma della cocaina o dell’oppio era una cosa di artisti (Rimbaud, Baudelaire e compagnia). Mika Waltari poté scrivere il suo bellissimo Sinuhe l’egiziano (1945) perché era sotto l’effetto della droga, solo così poté immaginare il mondo tenebroso, misterioso, inquietante, affascinante di cui stava scrivendo. Oppure era una prerogativa dei grandi ricchi che poi potevano andarsi a disintossicare in qualche clinica specializzata. Gianni Agnelli era soprannominato anche “narice d’oro”, perché aveva sniffato tanto da compromettere l’uso del naso.

Il primo morto per droga, anzi morta, in Italia avviene a Milano, nel 1974. Io facendo l’inchiesta sull’episodio per l’Europeo ne conobbi l’amica più cara, Rosanna C. Era figlia di un famoso avvocato, istruita, colta, curiosa, e sarà questo, forse, a fregarla. Si era ridotta a un punto tale che non poteva più leggere perché le righe le si accavallavano, si doveva accontentare dei fumetti o dei fotoromanzi. Io e mia moglie facemmo l’errore di ospitarla in casa nostra. L’unico limite era che non si drogasse in casa. Io feci l’ulteriore errore di consegnarle la mia macchina, una modesta Simca 1000. Con cui Rosanna si fiondò per la città alla ricerca naturalmente della ‘roba’ ed ebbe un incidente. Per timore della mia reazione non rientrò a casa. A me del danno importava relativamente, avevo l’assicurazione. Denunciai la cosa in Questura e al magistrato di sorveglianza, che mi pare, anche se non sono sicuro, fosse Leonardo Guarnotta e Guarnotta o chi per lui mi disse, giustamente, che potevo andare a processo per ‘incauto affidamento’. Rosanna C morirà ugualmente per droga qualche anno dopo. Questo per dire che è pericoloso improvvisarsi specialisti. Credere di poter fare quello che meritoriamente, e sia pur in mezzo a grandi polemiche, fece Vincenzo Muccioli con la sua comunità di San Patrignano.

Nello stesso periodo incontrai nei pressi della Stazione Centrale una ragazzina giovanissima, avrà avuto sì e no diciotto anni, che chiedeva le elemosina, per drogarsi naturalmente. Era veramente un gioiello, non solo per bellezza ma per grazia e modi. In questi casi non sai mai come comportarti. Darle i soldi per alleviare nell’immediato la sua sofferenza, spingendola però così sempre più a fondo?

La mia generazione, quella del Dopoguerra, non è stata coinvolta in droga. Allora bisognava fare un’iniezione, di eroina, della potentissima eroina, e per noi ragazzini l’iniezione ricordava una dolorosa puntura sul sedere. Adesso che ci sono le pillole calarsi un acido, poniamo un yellow sunshine o similare, è cosa di un momento. C’è la stessa differenza che esiste, per chi abbia tentazioni suicidarie, fra il buttarsi dal quarto piano e tirarsi un colpo di pistola. Non alla tempia perché resti vivo ma cieco, ma in gola dove il risultato è sicuro.

A rendere ancora più difficile il già difficile rapporto tra i sessi è arrivato, per i maschi, MeToo (“L’amore? L’eterno odio tra i sessi”, Nietzsche). L’uomo, per ragioni antropologiche che sarebbe troppo complicato chiarire qui, diventate poi culturali, è dalla parte peggiore: quella della domanda. A rigore oggi non è più possibile fare il filo a una ragazza perché basta un niente per essere accusati di ‘molestie sessuali’ o di ‘comportamenti inopportuni’ (queste storie vengono a galla soprattutto quando ci sono di mezzo personaggi famosi del mondo artistico, Depardieu) e il maschio, il maschio normale intendo, che è sostanzialmente un timido, non osa fare un atto che dimostri il suo interessamento per lei (è il tema de Le passanti, di De André, 1974). Inoltre in un incrocio di paradossi il maschio soffre dell’aggressività di lei che, diventata in buona sostanza libera, è spesso la prima a proporsi. E’ proprio l’aggressività della donna che spaventa il maschio. E qui si entra nel tema, molto attuale, dell’infertilità. L’infertilità come scrive Gismondo (Fatto, 20.5) in Italia colpisce 2 coppie su 5. Molto spesso è dovuta a malformazioni fisiche dell’uno e dell’altra. Ma più spesso ancora si deve a questioni psicologiche. Insomma i giovani non scopano o scopano troppo poco. Uno psichiatra, che faceva la scrematura per i candidati Cinque Stelle, direi con risultati non ottimali, mi ha raccontato che spesso venivano da lui giovani che si consideravano impotenti. Naturalmente li faceva visitare da uno specialista. Fisicamente erano perfetti. Evidentemente era una questione psicologica. Conosco almeno tre o quattro dei miei amici sulla trentina, bei ragazzi, che a quell’età sono ancora più o meno vergini (“Osa” dico loro “vedrai che lei ci sta, e se non ci sta avrai fatto solo una brutta figura per cui valeva la pena tentare”).

I giovani, ragazzi e ragazze, soffrono oggi di anoressia, di bulimia e in genere di disturbi alimentari che, al limite, possono portare al suicidio. Ogni anno, nel mondo occidentale, ci sono 46.000 suicidi. Non ho mai visto un talebano suicidarsi. Cosa vuol dire? Che ai nostri ragazzi mancano valori forti, condivisi, quelli che io chiamo i valori “pre-ideologici, pre-politici” che corrispondono alla dignitas latina (difesa del più debole, lealtà, una morte dignitosa che, allora, era quella che avveniva in battaglia o per mano propria) sostituiti dallo stress cui ci costringe l’attuale modello di sviluppo. Salito un gradino devi salirne immediatamente un altro e poi un altro ancora in una corsa senza fine senza poter mai avere un momento di pausa e di riflessione, privo di ansia. Perché è proprio l’ansia che domina il nostro mondo.

 

4 giungo 2025, il Fatto Quotidiano