L’epica partita Inter-Barcellona ha riportato all’onor del mondo la questione dello stadio di San Siro. I nerazzurri hanno vinto contro una squadra decisamente più forte, con i suoi geni diciassettenni, Yamal e Cubarsí, ne vale a scusante dei blaugrana la pur pesante mezza indisponibilità di Robert Lewandowski, uno dei più prolifici bomber di tutti i tempi (726 reti in 1053 partite, media 0.69). Hanno vinto per altri motivi. Proviamo ad elencarli. Ci hanno messo più rabbia. Alla fine degli interminabili 120 minuti, e qualcosa di più con i recuperi, i ragazzi di Inzaghi non correvano più, camminavano, letteralmente stremati dallo sforzo per affrontare una squadra molto più tecnica e teoricamente più forte. Per l’Inter che aveva mancato tutti gli obiettivi annuali la sfida col Barca era l’ultima Thule. Per il Barca l’urgenza era minore perché ha già vinto la Coppa del Re e con tutta probabilità la Liga contro gli arci nemici del Real, anche se una vittoria in Champions non può essere paragonata alla vittoria di un campionato. Poi c’è stato il tifo nerazzurro aiutato anche dalla struttura e dal mito dello stadio di San Siro. Il Camp Nou dove gioca abitualmente il Barca non è meno mitico come il Bernabeu o Anfield Road, stadio del Liverpool ma attualmente il Barca, per motivi di ristrutturazione, gioca al Montjuic, che non è la stessa cosa. Se la partita di andata, decisiva, si fosse giocata al Camp Nou e non al Montjuic sono convinto che il risultato sarebbe stato diverso.
La vittoria dell’Inter si deve quindi anche, e molto, a San Siro che mi rifiuto di chiamare Meazza. Per noi meneghini doc, tifosi e no, San Siro è il vero simbolo di Milano più del Duomo e alla pari solo con i tram, quei tram che ci furono così preziosi all’epoca della prima crisi energetica del 1973. Abbattere San Siro è più che una bestemmia in chiesa. E poi abbatterlo non si può perché è sotto il vincolo, culturale e paesaggistico, dell’Accademia di Belle arti. I fondi americani, proprietari di Inter e Milan lo costruiranno, se va bene, un po’ più in là o, come è stato ventilato dalla proprietà interista, a Rozzano. San Siro diventerà come un tempio azteco, affascinante ma vuoto. Quello che interessa ai proprietari yankee per nulla ostacolati dal sindaco Sala è ciò che verrà costruito intorno, grandi hotel, centri congressi, centri commerciali, negozi di lusso. Ciò cambierà non solo l’ecologia ma la socialità del quartiere come è successo con i grattacieli costruiti davanti a casa mia sul terreno della ex stazione delle Varesine. Il risultato è che gli abitanti che vivevano sul lato destro, guardando verso nord, hanno dovuto sloggiare perché gli affitti erano diventati troppo alti. Così i negozietti si sono ridotti al minimo. Nel mio quartiere c’è un fruttivendolo, un panificio, un casalinghi che tiene solo per affezione e un mini-market. Se ho bisogno di un martello devo rivolgermi a eBay.
C’è un altro discorso che non riguarda però gli stadi di calcio ma gli ippodromi prima che, con la crisi dell’ippica, sparissero anche quelli. A fianco delle piste di allenamento c’erano sette cascine abitate da contadini autosufficienti. Per gli stessi motivi che riguardano gli stadi li si voleva abbattere. Ora abbattere una cascina a Milano, sia pur in periferia, è come abbattere una Pieve in Toscana. Ci fu una rivolta degli abitanti cui partecipai anch’io con degli articoli sul Giorno. Vincemmo la battaglia perché si ritenne che almeno i cavalli avessero il diritto di respirare, gli uomini no. Ma fu una vittoria solo temporanea. Un giorno, girando da quelle parti, vidi sul terreno della gloriosa scuderia De Montel sei orribili edifici rosa. Ne chiesi ragione al sindaco Tognoli incontrato pochi giorni dopo. Lui, abbassando gli occhi, disse: “Vuol dire che il piano regolatore lo consente”. Eh già, lo consentiva perché era stato cambiato a favore degli affari di Salvatore Ligresti (è il famoso scandalo Ligresti per cui ebbi un processo e vinsi solo perché i socialisti, dopo Mani Pulite, non erano così più potenti a Milano).
Gradualmente, ma inesorabilmente, tutto ciò che ha caratterizzato per secoli Milano viene spazzato via. Innanzitutto Milano non è mai stata una città di grattacieli ma di case di quattro o sei piani. C’era il grattacielo Pirelli, un gioiello, ideato da Gio Ponti e realizzato da Pier Luigi Nervi nel 1960 e la più discutibile Torre Velasca. Tutto qui.
Piano piano scompaiono altre cose e abitudini milanesi. Le edicole per esempio. L’altra mattina, era domenica, passeggiavo in via Vittor Pisani tenendo sotto il braccio un pacco di giornali, che avevo preso all’edicola vicina che però se fa affari non li fa con i giornali ma con i gadget, un tizio mi ha fermato e mi ha detto: “Ma lei legge ancora i giornali?”. L’altra edicola della zona è tenuta eroicamente da un bangla che è presente dalle cinque del mattino a mezzanotte e oltre. Salvini dovrebbe andare a nascondersi sotto terra.
Scomparso è il Commissario di quartiere che ci conosceva tutti e quindi se in zona accadeva qualcosa di malavitoso sapeva dove andare a cercare. Un paio di anni fa mi citofonano. E’ la portiera, non più italiana naturalmente. Mi dice: “C’è la polizia”. “Faccia salire”. Si presentano due pulotti, uno ‘buono’ e uno ‘cattivo’, come è consuetudine. “Dobbiamo perquisire l’appartamento”. “Fate pure però io devo scrivere un pezzo”. Perquisito l’appartamento, mi chiedono se ho un garage. Perquisito anche quello mi chiedono se ho una cantina. “Sì”, rispondo, “ma ho perso le chiavi, sfondate pure la porta”. “Ah, sfondare no”. Qualche dubbio gli era venuto entrando in un appartamento pieno di libri che è la mia difesa contro i ladri, perché solo un ladro cretino può prendere di mira un appartamento dove da rubare ci sono solo libri e una televisione che oggi costa meno di una radio del Dopoguerra quando fu, sì, strumento essenziale (Radio Londra). Qual era il crimine? “Contraffazione di marchio industriale”. Ora il Commissario di quartiere avrebbe saputo che io posso essere accusato di tutto, di stupri, di assassinio, di ogni genere di reato tranne quello. Se ci fosse stato il Commissario di quartiere non avrebbero perso inutilmente tutto quel tempo. Cosa era successo? Un caso di omonimia, il mio numero era stato trovato sull’agenda di un trafficante di Firenze. Un piccolo ‘caso Tortora’ anche se con conseguenze, per fortuna, farsesche. Dissi ai pulotti: “Se guardate la mia agenda con questa accuratezza, potete arrestare mezza Milano e anche mezza Roma”. Se ne andarono scornati come un manipolatore di via Prè che ha sbagliato a mescolare le carte.
Non c’è più il ghisa, il mitico ghisa che era un’autorità assoluta nel quartiere: “C’è lì il ghisa, dillo al ghisa, chiedilo al ghisa”. L’altro giorno, tornando da un funerale, ho chiesto a una vigilessa bassa e tarchiata che pareva non aver niente da fare dove fosse un posteggio taxi. “E che ne sacciu?” mi ha risposto. E’ inutile quasi dire che il ghisa era un ben piantato e bel ‘giovanotto’ (allora si usavano questi termini) milanesissimo.
Non ci sono più le cassette rosse per imbucare la posta, una per indirizzi di città, l’altra per il resto d’Italia. Non ci sono più le cabine telefoniche. Non c’è più lo ‘strascee’, “strascee, strasciaio” era la cantilena che ci svegliava la mattina. Lui ti dava gli stracci e tu due lire. C’erano poi altre forme di baratto. Poiché mio padre era direttore di un quotidiano la nostra casa era piena di giornali. Noi li davamo al fruttivendolo e lui, in cambio di un piccolo sconto, ci incartava la frutta e la verdura. Ma adesso c’è il packaging. Una mia giovane nipote si è laureata a pieni voti in Scienze alimentari. E’ stata assunta da una grande azienda ma è rimasta delusissima quando si è resa conto che non doveva occuparsi degli alimenti ma del loro involucro.
Sono la modernizzazione e la digitalizzazione, bellezza! Sì, d’accordo, ma a piace concludere con le parole di un nostro lettore, Gian Ranieri Cuturi: “Le Poste ci bombardano di spot televisivi autoelogiativi che concludono ‘tutto ciò che ti serve’. A me, per esempio, serve una cassetta postale vicino casa”.
14 maggio 2025, il Fatto Quotidiano