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L’imperativo categorico è: sopravvivere alle Feste. Non sarà facile. Un’impresa, anzi.

C’è innanzitutto la cerimonia degli auguri. A chi farli? Al tuo amico Sempronio, ma Sempronio è anche amico di Caio che è pure tuo amico ma in tono minore e se Caio viene a sapere che hai fatto gli auguri a Sempronio ma non a lui si incazza. E in che forma poi gli auguri? Per telefono no, è seccante e quello ne approfitta per attaccarti un bottone. Per mail o sms? Troppo freddi. Ci sono poi le persone importanti che conosci. Per telefono è escluso, troppo confidenziale. Con un biglietto da visita? A parte che non ce l’ho, come dev’essere il biglietto? Di cartone spesso? Troppo volgare. Di carta esile? Troppo sparagnino, troppo genovese, troppo ‘stundaiu’.

Finita la cerimonia degli auguri, che può essere risolta solo con difficili algoritmi, viene quella ben più insidiosa e difficile dei regali. Si sa da tempo che il Natale non è più una festa spirituale, ma è una festa del consumo, così si aiuta anche il Pil.

Scendere in strada, a Milano, per i regali vuol dire entrare in una bolgia infernale di persone, di automobili, di ambulanze perché la gente ha il cattivo gusto di ammalarsi a Natale, direi anzi a causa del Natale. La commessa carina, che ti ha sempre trattato bene, con cui c’era un inizio di flirt, è troppo stanca per darti la dovuta attenzione.

Se sei in strada c’è poi il rischio del borseggio. Una mano abile ti strappa dal braccio stanco il miserabile sacchetto di plastica dove hai messo i tuoi faticosi regali. Ma su questo sono preparato. Parto alla controffensiva. Lo scippo l’ho imparato dalla mala milanese che un tempo frequentavo, piccola mala s’intende, non Vallanzasca, perché Renato era al di là della mia portata. A scippo quindi contro scippo. Anche se non potrò beneficiare della benevolenza della Giustizia che è riservata a ‘lorsignori’, corrotti e corruttori, mentre per i delinquenti da strada vale il detto di madama Santanchè: “In galera subito e buttare via le chiavi”. La garantista.

E poi cosa regalare e a chi regalare? Qui si pone il problema, gravissimo, del nonno, che ha perso tutti i cinque sensi. Un quadro, non lo vede. Un disco, non ci sente. Una bella fanciulla, non gli interessa più. Un cavallo a dondolo, ecco questa potrebbe essere la soluzione, sempre che non cada.

La cerimonia delle cene. Oggi impera la famiglia allargata, ma in abitazioni metropolitane sempre più ristrette. Se invita la tua fidanzata, non può ignorare la tua ex moglie, madre dei tuoi figli. Le due ovviamente si detestano. All’inizio cercano di tenere una certa compostezza, come in Carnage di Roman Polanski, ma progressivamente è battaglia aperta. Si strappano l’un l’altra i capelli, si dan botte e a volte si arriva persino all’omicidio che, essendo donna su donna, non può nemmeno essere classificato come “femminicidio” per la disperazione dei compilatori di statistiche. Prevedo un considerevole aumento dei crimini durante le Feste di Natale.

Poi nel periodo 24 dicembre – 6 gennaio ci sono le torpide domeniche “di sole a tradimento”, come direbbe Ivano Fossati, peccato che siamo in inverno, in cui non sai che fare. Se vuoi andare a pranzo o a cena, dai più grandi ristoranti alle bettole più sordide, ti dicono che devi prenotare una settimana prima e che ne so se tra una settimana son vivo, soprattutto dopo le fatiche del Natale? E poi son domeniche senza calcio. E che può fare un pover’uomo senza nemmeno il calcio?

Se poi hai la disgrazia di essere un editorialista il giornale ti chiede dei pezzi particolari sul Natale, e tu non puoi spiegare al tuo Direttore, Marco Travaglio, cattolico, apostolico, romano, che del Natale e della nascita del Cristo non te ne importa un cazzo. Per quanto liberale il Marco Nazionale ci resterebbe male.

Arriva finalmente a liberarci l’Epifania che “tutte le Feste le porta via”. Ma i pericoli sono sempre in agguato. Perché incombe il Carnevale, altra festa che ha perso di senso perché ormai è carnevale tutto l’anno. Solo la Pasqua, giorno della resurrezione del Signore, e anche nostra, verrà a salvarci perché vale ancora la massima: “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”.

 

Massimo Fini, Il Fatto Quotidiano 20 dicembre

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I Bororo, che in lingua locale significa “cortile del villaggio”, sono una popolazione che abita il Mato Grosso ai confini tra Brasile e Bolivia, nella foresta amazzonica. Fu studiato in particolare dall’antropologo e filosofo Claude Lèvi-Strauss che vi fece una spedizione nel 1935/1936 al ritorno della quale scrisse il libro “Tristi Tropici”. Perché il costume dei vecchi antropologi da Levi-Strauss al suo predecessore Marcell Mauss a Evans-Pritchard, per parlare solo dei più famosi, era di andare a vedere le cose con i propri occhi e non stando sul “cortile della propria casa”. Fra i Bororo vige il matriarcato. In realtà, adornato il capo con piume di uccello, conducono una vita molto semplice o, per meglio dire, semplice sul piano concreto ma nient’affatto semplice sul piano intellettuale e psicologico. Dopo essere stati aggrediti dai garimpeiros, i famigerati cercatori d’oro, e in seguito anche dai cercatori di diamanti, i Bororo esistono ancora. Da diecimila che erano nel diciannovesimo secolo oggi la loro popolazione si è ridotta a circa duemila individui. Ma i pericoli sono sempre in agguato. Oggi gruppi di volontari animati da buonissime e pie intenzioni e di preti di ogni genere vogliono convertirli non alle religioni cristiane, i Bororo come tutte le popolazioni di questo genere sono animiste e su questo non ci piove, ma alle leggi dell’economia moderna spazzando via le loro tradizioni.

Davvero non impariamo mai niente. Il nostro delirio è voler razionalizzare ciò che a noi sembra irrazionale. Non c’è servita nemmeno la lezione degli Azande. Dopo la fine della seconda guerra mondiale gli inglesi diedero inizio a un progetto chiamato Azande scheme per introdurre presso gli Azande, popolazione del sud del Sudan, animista, la coltivazione del cotone più redditizia rispetto alle colture tradizionali. Non era il solito progetto di rapina ma il tentativo in buona fede di portare questo popolo a livelli economici se non proprio europei a loro vicini. Per far questo dovettero cambiare l’urbanistica del territorio e cioè distanziare i casali. Ma non tennero conto che gli Azande credevano alla stregoneria. Ora, poiché i poteri del supposto stregone non potevano andare oltre certi limiti, ma riguardavano i vicini, ciò faceva sì che ogni Azande, non volendo aver fama di stregone, si comportasse nel modo più affabile e cortese con i vicini. Inoltre per ogni disgrazia anche minima, per esempio se a un vasaio che pur aveva eseguito il suo manufatto a regola d’arte si era rotto, costui poteva sempre attribuire il misfatto a uno stregone e questo dava un certo sollievo psicologico. Ciò valeva anche per eventi più gravi come la morte. Nessuno fra gli Azande moriva mai per cause naturali, di mezzo c’era sempre uno stregone. Fra gli Azande, come presso ogni comunità, si potevano creare lotte intestine  per il potere dove ciascun villaggio cercava di sopraffare quello del vicino, questo avveniva soprattutto quando vi era un aumento della popolazione e quindi l’autosufficienza alimentare era messa in pericolo. Che cosa facevano allora gli Azande? Un villaggio si spostava un po’ più in là riequilibrando la demografia “senza scontri cruenti e spargimenti di sangue”.

Fin qui abbiamo cercato di ricostruire, in estrema sintesi, le funzioni esistenziali, psicologiche, sociali, politiche che aveva la stregoneria fra questa popolazione. In particolare la perdita della funzione politica porterà a una serie di scontri e di vera e propria guerra civile fra il Sudan del Nord, musulmano, e quello del Sud, animista. Questione, come si sa, molto attuale ma i cui passaggi non è possibile ripercorrere in questa sede limitata. Ma tutto ebbe inizio da un filantropico, umanitario e illuminatissimo progetto occidentale che voleva solo fare del bene al popolo Azande. Ma si era dimenticato della stregoneria.

Ma come in ogni leggenda c’è in fondo una verità, così in fondo all’irrazionalità c’è una razionalità che spesso sfugge all’osservatore superficiale.

Vedremo ora se i Bororo, dopo aver resistito, sia pur con perdite, ai garimpeiros e ai cercatori di diamanti riusciranno a sopravvivere ai volontari e ai preti animati dai più buoni e pii intenti. Del resto lo dice anche la sapienza popolare che è anch’essa da tener d’occhio: “Le vie dell’Inferno sono lastricate di buone intenzioni”.

Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2023

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Nella sua Stanza intitolata per l’occasione  “Ormai per gli anziani nessuno si indigna” (Il Giornale 28-11) Vittorio Feltri scrive: “fino a qualche decennio fa gli anziani erano, all’interno delle famiglie e nella comunità in generale, più rispettati”. Tutto vero. Quando eravamo giovani Feltri ed io le famiglie erano allargate perché si facevano allora almeno quattro o cinque figli (se si risale anche di poco più indietro i figli potevano essere anche dieci o undici), gli spazi degli appartamenti erano sufficientemente ampi per ospitare anche i nonni che potevano così essere accuditi dai figli e dai nipoti. Era insomma risparmiata loro la solitudine, che è una delle tragedie dell’anziano di oggi (la solitudine, secondo le statistiche, uccide più del fumo).

Ma a Feltri sembra sfuggire quello che è il più grave problema dell’anziano di oggi, più grave della solitudine: la perdita di ruolo. Nel medioevo europeo, società prevalentemente agricola, il capo famiglia lasciava gradualmente i lavori più faticosi ai figli e ai nipoti ma gli rimaneva la conoscenza, cioè sapeva per esperienza le cose che i più giovani ignoravano. Quindi conservava un ruolo e la sua vita un senso.

Oggi la situazione si è capovolta: sono i giovani a detenere il sapere, soprattutto nei settori più importanti, quelli tecnologici e digitali. Con la velocità cui stanno andando le trasformazioni tecnologiche e digitali, oggi si può essere obsoleti già a quarant’anni.  Scrive lo storico Carlo Maria Cipolla nella sua Storia economica dell'Europa pre-industriale: “nella società agricola il vecchio è il saggio, in quella industriale un relitto”.

L’invecchiamento del mondo occidentale nel suo complesso (in Italia il tasso di natalità è dell’ 1,2, per avere un pareggio demografico bisognerebbe superare di qualcosa il 2, siamo il paese più vecchio del mondo avendo superato in questa poco gloriosa classifica anche il Giappone) pone dei problemi sociali ed esistenziali che non riguardano direttamente l’anziano in quanto tale ma la società in cui vive.

C’è innanzitutto, con tutta evidenza, il problema economico. Già oggi un manipolo di giovani deve mantenere legioni di anziani. Se aspirano alla pensione, ammesso che si abbia questa sinistra aspettativa, devono togliersela dalla testa, non l’avranno.

Il marketing dopo aver creato nel Sessantotto e dintorni l’apologia dei giovani, perché dopo il boom erano diventati dei forti consumatori con i soldi risparmiati dai padri (tutto il meccanismo si regge sul “produci, consuma, crepa” come cantano i CCCP) scoprì che anche i vecchi potevano diventare un mercato interessante, per quanto consumatori molto deboli, perché stavano diventando sempre più numerosi. Quindi ci fu l’altra faccia della truffa, dopo aver ingannato i giovani sul loro futuro si ingannarono i vecchi con l’ipocrita brocardo: “vecchio è bello!”, per cui il vecchio era costretto a scopare, col cialis, anche se non ne aveva più alcuna voglia, a sgambettare impudicamente nei dancing, a immergersi in musiche che non lo riguardavano affatto, eccetera. Altrimenti era un “tagliato fuori”.

C’è poi una questione esistenziale. I vecchi detestano frequentare i vecchi perché in essi si riflettono. Lo psicanalista Cesare Musatti, l’ho ricordato altre volte ma è bene ribadirlo, superati abbondantemente i novant’anni, e quindi al di sopra di ogni sospetto, disse: “una società popolata in maggioranza da vecchi mi farebbe orrore”.

C’è poi il problema di tutti i problemi, che li racchiude tutti. Il tasso di natalità dei popoli mediorientali è del 2,5, nei neri subsahariani va oltre il 5 . Nonostante le condizioni miserande, a nostro dire, di questa gente, costoro continuano a figliare (quante donne incinte vediamo fra i migranti che cercano di approdare a quello che, per interessi economici e propaganda televisiva, gli è stato spacciato come il “sol dell’avvenire”?). Lo ha cantato bene quello straordinario menestrello che è Ivano Fossati in Pane e coraggio: “Proprio sul filo della frontiera, il commissario ci fa fermare/ Su quella barca troppo piena, non ci potrà più rimandare/ Su quella barca troppo piena, non ci possiamo ritornare”. Quindi è assolutamente inutile che noi si cerchi di estirpare Hamas o l’Isis e tutti gli Isis del mondo perché questi continueranno a figliare e noi no. E alla fine, per una questione fisica, ci sommergeranno.

 

Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2023