0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Nei giorni scorsi l’ex presidente egiziano Morsi è comparso in Tribunale vestito con una tuta rossa che è quella che in Egitto si fa indossare ai condannati a morte, parodia delle tute arancioni che gli americani impongono a Guantanamo, simbolismo poi ripreso dall’Isis nei suoi atroci video. L’accusa a Morsi è particolarmente grottesca: essere evaso dal carcere durante le manifestazioni di piazza Tahrir dell’inverno 2011 che rovesciarono il dittatore Mubarak. E’ come se, dopo il trionfo della rivoluzione bolscevica si fosse accusato Trotzkij, che di quella Rivoluzione era stato il protagonista, di essere fuggito a suo tempo dalle prigioni zariste. Le altre accuse che si muovono a Morsi sono altrettanto risibili: aver divulgato documenti sensibili al Qatar quando era presidente e di “aver offeso la Magistratura in un discorso Tv”.

In Occidente si è levata qualche flebile voce per risparmiare a Morsi la condanna a morte. Ma la questione non è affatto questa. Tale ‘pietas’ pelosa serve solo a nascondere il nocciolo della faccenda. Dopo la defenestrazione di Mubarak ci furono le prime elezioni libere in Egitto dopo trent’anni di dittatura. E le vinsero i Fratelli Musulmani, movimento islamico moderato, per la semplice ragione che in trent’anni erano stati gli unici, veri, oppositori di Mubarak, pagando prezzi durissimi (galera, torture, assassinii), mentre i cosiddetti ‘laici’, che tanto piacciono all’Occidente, se ne stavano prudentemente al coperto. Dopo solo un anno e mezzo di governo, prendendo spunto da una manifestazione popolare, Morsi fu rovesciato da un colpo di Stato del generale Al Sisi. Quali erano le accuse contro Morsi? Di aver introdotto la sharia, di aver tentato di islamizzare il Paese? Niente di tutto questo. Morsi era semplicemente accusato di ‘inefficienza’, cioè di non aver risolto i problemi economici dell’Egitto, di cui non poteva essere certo una delle cause, risalendo queste, com’è ovvio, hai trent’anni di Mubarak nonostante il dittatore fosse cospicuamente appoggiato dagli Stati Uniti. Al Sisi mise in galera Morsi e l’intera dirigenza musulmana. Prendendo pretesto dall’uccisione di un poliziotto durante una manifestazione di protesta contro il colpo di Stato fece fuori poco meno di un migliaio di Fratelli e si rese responsabile di altri eccidi. Oggi in Egitto è proibita per legge qualsiasi manifestazione di protesta, anche la più pacifica, la censura è totale e decine di giornalisti sono in galera. Non stupisce che ora i Fratelli Musulmani siano diventati molto meno moderati, che diecimila siano andati a ingrossare le file dell'Isis, che in Sinai e altrove si siano create cellule di jihadismo radicale. Che più che una forza militare è un'epidemia ideologica che sta contagiando tutto il mondo musulmano.

Ma il paradosso dei paradossi della questione egiziana è che Al Sisi era il braccio militare di Mubarak. E’ un po’, per tornare all’esempio russo, come se lo Zar, dopo la vittoria bolscevica, fosse stato sostituito dal Capo delle sue Forze Armate.

E cosa fa l’Occidente, sempre così sensibile alla Democrazia, ai diritti civili, alle ‘questioni umanitarie’? Se ne sta acquattato perché l’Egitto dei generali tagliagole, oltre ad essere, dopo Sadat, una ‘longa manus’ degli americani in Medio Oriente, oggi ci è utile, come l’Iran, noto componente dell’ ‘asse del male’, in funzione anti Isis che invece Al Sisi, con la sua repressione, finisce per incoraggiare.

Se questi sono i ‘democratici’ io sono antidemocratico.

Massimo Fini

29 giugno 2015