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E’ la solita storia. Della complessa vicenda del Mali, a lungo ignorata, i giornali occidentali raccontano solo l’ultima parte e cioè, in sostanza, l’attacco all’hotel Radisson di Bamako, formalmente la capitale del Paese. Ma si ignorano, o si fa finta di ignorare, i precedenti. Il Mali del nord in gran parte desertico è abitato prevalentemente dai Tuareg, antico popolo nomade sostanzialmente laico o che di islamico ha solo un’infarinatura. Tanto per fare un esempio le donne possono divorziare e dal momento che le tende sono di loro proprietà, l’ex marito si ritrova senza un tetto e deve cercare ospitalità presso parenti di sesso femminile (madri, sorelle). A partire dal 2008 i Tuareg vengono massacrati da squadre di miliziani legati al governo di Bamako, sostanzialmente sotto la protezione, chiamiamola così, di quello della Francia ex potenza coloniale dell’area. Inizia una guerra civile fra il Nord e il Sud del Mali, che contrappone i Tuareg, gli animisti ed elementi islamisti a cui i Tuareg si sono nel frattempo legati per far fronte comune contro il Sud. E’ una guerra interna. L’Isis non centra nulla. Siamo nel 2008 e il Califfato è di là da venire. E’ una guerra di indipendenza ma quando nel 2013 i ribelli stanno per prendere la capitale Bamako intervengono i francesi con l’operazione chiamata Serval (formalmente la Francia è chiamata ad intervenire dal governo fantoccio di Bamako, cosa che ricorda molto da vicino gli interventi sovietici nell’Ungheria in rivolta del 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968, interventi ‘invocati’ dai governi di Budapest e di Praga). La superiorità militare garantita dai francesi al governo di Bamako respinge i Tuareg e i loro alleati che sono costretti a ritirarsi verso gli estremi confini nord del Paese. Nel frattempo però è nato l’Isis e molti dei ribelli maliani, anche se non tutti (ci sono profonde divisioni all’interno su questa questione) cominciano a vederlo come punto di riferimento. Ed ecco come una guerra locale, in cui gli occidentali (accanto ai francesi ci sono naturalmente anche gli americani) non avrebbero dovuto metter becco lasciando che fosse il verdetto del campo di battaglia a decidere, finisce per inserirsi nella guerra globale fra Occidente e radicalismo islamico.

La guerra ha una sua ecologia e andarci a ficcare il dito dall’esterno produce sempre effetti controproducenti e paradossi che si ritorcono regolarmente contro di noi. Come abbiamo visto di recente in Somalia. Siamo intervenuti contro gli shebab che avevano sconfitto i ‘signori della guerra’ locali e riportato l’ordine e l’unità nel Paese (una situazione che ricorda molto quella afgana). E così gli shebab si sono legati all’Isis. Come abbiamo visto in Libia. Come abbiamo visto in Egitto dove il colpo di Stato del generale tagliagole Al Sisi ha fatto fuori, con la nostra complicità (oggi è considerato un prezioso alleato) i Fratelli Musulmani che avevano vinto le prime elezioni libere di quel Paese. Risultato: migliaia di Fratelli sono accorsi in Iraq e in Siria a combattere col Califfato, mentre in Egitto appoggiano l’Isis che nel frattempo è arrivato anche lì.

Quando lo capiremo che dobbiamo smetterla di pretendere di dominare il mondo intero in nome dei nostri interessi, o peggio ancora dei nostri ideali? Perché continuando di questo passo finirà che sarà il mondo ‘altro da noi’, indotto alla violenza estrema dalla nostra prepotenza, a dominar noi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2015