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Articolo di Pietrangelo Buttafuoco pubblicato sul Fatto Quotidiano il 18 aprile 2016

Metto le mani avanti e lo dichiaro il cortocircuito. Marco Travaglio, il direttore di questo giornale – giusto l’estate scorsa, alla Versiliana – parlando in pubblico diceva così: “Non ci sarebbe stato bisogno di fondare Il Fatto Quotidiano se uno come Massimo Fini, un uomo libero, oggi potesse scrivere i suoi articoli sul Corriere della Sera”.
Quest’affermazione è suonata disarmante e rivelatrice. Ed è, infatti, difficile da spiegare agli extraterrestri perché un Massimo Fini – cronista di solida scuola, uno che non hai mai lisciato il pelo dal verso giusto – nella stagione migliore della sua produzione intellettuale, abbia dovuto attendere la fondazione di questo giornale per restituirsi ai propri lettori.
Nessuna testata, infatti, può reggere il suo punto di vista – lo spirito critico tutto suo – con cui frantuma i totem dell’ideologicamente corretto.
Il totalitarismo liberale esiste, altro che, altrimenti non ci si accontenterebbe, come stucchevolmente accade sempre, di appaltare il dissenso ai pittoreschi idoli del pop pensando che già la battaglia a favore di Mika – il cantante dell’impegno omosessualista, a cui qualcuno fa la bua – emancipi l’Italia da tutti i medioevi.
Già è d’obbligo rivalutare Nerone – Fini docet – figurarsi il medioevo. E quando Nicola Lagioia dice – in un’intervista concessa a Libero – “oggi non sarebbe possibile avere l’equivalente degli Scritti corsari di Pasolini”, ecco, il cortocircuito, impone un altolà: l’equivalente di ciò che il luogo comune percepisce come “Pasolini” c’è, è appunto Massimo Fini, e lo è in una forma davvero ribelle e grandemente poetica se si pensa che già il suo Nietzsche è il romanzo che nessun scrittore della cerchia altolocata saprà mai scrivere.
Interpellato a proposito del Premio Strega, Lagioia, ultimo vincitore del più ambito tra i riconoscimenti letterari, ha dunque parlato di una cosa vera, verissima – “essere un intellettuale libero è complicato” – scivolando però nella botola del già detto: “Nessun direttore ti chiamerebbe nel suo giornale per offrirti, come successe a lui con il
Corriere della Sera, il ruolo di ospite ingrato”.
Siamo al caro Lei, quando c’era Lui. Ma il Corriere che faceva scrivere Pasolini era quello dei cummenda: quelli che temevano gli espropri proletari e ben volentieri offrivano regalie per ammansire qualunque brivido rivoluzionario. Quelli dell’alta borghesia ai quali faceva fino aprire le dimore ai collettivi in cachemire.
Il ponte che traghettava il ’68 negli anni ’70 – al tempo in cui, caro Lei, c’era Lui – era un sottaciuto gioco di specchi tra le due Chiese, quella del sistema consociativo e quella del potere culturale, che andava a contenere tutte le ospitalità e tutte le gratitudini.
Ospiti ingrati, nella veneranda pubblicistica liberale, non ce ne sono mai stati altrimenti, quello stesso giornale, la prima vetrina del dibattito italiano, negli anni della peste terroristica non avrebbe cacciato Indro Montanelli per poi salutarlo nel giorno in cui lo gambizzavano le Br col famoso titolo “Ferito un giornalista”.
Proprio complicata – ha ragione Lagioia – la vita di un intellettuale libero. Sempre preda dei cortocircuiti.
Altrimenti, per uno come Massimo Fini – la cui vita è una certa idea di Milano – l’indirizzo sarebbe stato solo uno: via Solferino.