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Barack Obama è il primo presidente degli Stati Uniti che è andato a Hiroshima per rendere omaggio alle vittime di quell’orrore. Non si è scusato come qualcuno chiedeva. E ha fatto bene. Bisogna almeno essere all’altezza dei propri crimini. Le scuse postume (come ad esempio quelle della Chiesa cattolica per le vittime dell’Inquisizione o per il rogo di Giordano Bruno) sono solo una forma di ipocrisia che rende ancora più odiosi quei misfatti. E quello di Hiroshima e Nagasaki (140 mila vittime a Hiroshima, 60 mila a Nagasaki e qualche centinaio di migliaia i morti in seguito per varie forme di cancro, più i circa 140 mila hibakusha, persone tuttora radioattive, con i volti spesso sfigurati o gli arti gravemente segnati) è stato il più grande nella pur tormentata Storia del mondo. Anche perché la Bomba su Nagasaki seguì di tre giorni quella di Hiroshima e quindi gli americani sapevano benissimo quali ne erano gli effetti. La favola convenuta che la Bomba fu gettata per finire la guerra e quindi risparmiare altri milioni di morti giapponesi e americani è appunto una favola. La Bomba fu gettata per due motivi. Uno, minore, come ha ricordato Umberto Eco, era di avvertire l’Unione Sovietica che gli americani possedevano quest’arma micidiale. Duecentomila morti per mandare un messaggio, non c’è male. L’altro motivo, poiché la Bomba non aveva per obbiettivo strutture militari ma la popolazione civile, era di logorare la resistenza del popolo giapponese. Esattamente come era avvenuto, sia pur con armi più convenzionali, a Dresda, Lipsia, Berlino dove, per dichiarata decisione dei comandi politici e militari americani, bisognava colpire i civili “per fiaccare la resistenza del popolo tedesco”. E qui i civili morti furono alcuni milioni. Per cui fa sorridere, amaro, che oggi gli americani si ergano a grandi moralizzatori e deferiscano o intendano deferire a quella farsa che è il Tribunale internazionale dell’Aia per i ‘crimini di guerra’ i loro nemici, una volta i serbi oggi i guerriglieri dell’Isis, che di civili ne hanno uccisi qualche centinaio o migliaio.

Sky Tg24 ha intervistato alcuni giapponesi di Hiroshima e Nagasaki e ha chiesto loro che cosa pensassero della visita di Obama. Tutti se ne sono dichiarati felici. Erano evidentemente interviste mirate in cui erano state scelte accuratamente le persone da sentire. Perché sotto lo straordinario formalismo dei giapponesi, che è la loro prima pelle, la pelle di superficie, cova un sordo e fortissimo rancore contro gli americani non solo per Hiroshima e Nagasaki ma anche per avere imposto loro la devinizzazione dell’Imperatore. In Giappone l’Imperatore non è una persona fisica, ma un’astrazione, il simbolo stesso del Giappone. Il mio amico Ken, un ragazzo di trent’anni che mi faceva da interprete in un viaggio che feci qualche anno fa a Kyoto, Osaka e Tokyo, non sapeva nemmeno il nome dell’Imperatore (Akhito), non per disinteresse ma appunto perché l’Imperatore non è un essere umano in carne e ossa. In tutta la lunga storia del Giappone non c’è stato un solo attentato all’Imperatore. Eppure il Palazzo imperiale di Kyoto, costruito in legno, ha mura di difesa così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle con facilità.

I giapponesi non parlano mai di Hiroshima e Nagasaki e se, con cautela, cerchi di portarli sull’argomento cambiano discorso. E anche questo è un segnale.

Nel 2006 fui invitato a tenere all’università di Kyoto una conferenza sul tema ‘americanismo e antiamericanismo. Il ruolo dell’Europa’ (nemo propheta in patria, qui non mi invitano nemmeno a Otto e mezzo). L’altro relatore era un filosofo tedesco della scuola di Francoforte. Poi c’erano alcuni co-relatori che dovevano replicare: un giapponese, un coreano (Corea del sud), uno spagnolo, altri europei e un trentenne americano, con giudiziosa mogliettina al seguito, che sembrava per pettinatura e il modo di vestire una copia giovanile di George W. Bush. Si comportava con la consueta arroganza con cui si portano gli americani all’estero, ma non si rendeva conto del disagio che provocava. I giapponesi presenti, cerimoniosi e formalisti come sempre, non facevano trasparire nulla di questo disagio che però osservandoli con attenzione, avvertivi. Ma quel disagio sottocutaneo poteva essere semplicemente un’irritazione per un comportamento maldestro in un Paese dove la buona educazione, con tutti gli infiniti formalismi che laggiù comporta, è tutto. Più significativo è un altro aneddoto. Io ero arrivato in Giappone proprio dopo una partita di baseball (sport in cui i nipponici sono molto forti) fra la nazionale giapponese e quella americana dove gli Usa avevano vinto per 4 a 3 con un punto contestato. Ebbene per tutti i venti giorni che sono stato lì lo Yomiuri Shimbun e lo Asahi Shimbun, i più importanti giornali giapponesi, serissimi, e noiosissimi, che si occupano solo di economia, di finanza, di questioni internazionali, sono andati avanti a scrivere di quel punto contestato. Evidentemente sotto covava qualcos’altro. Del resto nel 1986 il neoministro dell’Educazione giapponese, Masayuki Fujio, riferendosi ai processi di Tokyo osò porre la scandalosa domanda “Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?”. Naturalmente fu subito tacitato dalla cosiddetta ‘comunità internazionale’, americani in testa, e se non ricordo male poco dopo defenestrato.

La violenza repressa di questo popolo viene fuori, ogni tanto, in qualche piccolo gesto incontrollato. Li fermi per chiedergli di una strada e loro, gentili, cortesi, educati, cerimoniosi ti ascoltano. Poi d’improvviso il braccio scatta in avanti, teso, in un gesto duro e perentorio e gridano “Ai!”. Ti stanno semplicemente indicando la direzione in cui devi andare, ma, per un attimo, nella loro mano tesa è spuntata la spada del samurai.

Voi scendete per la Chivodori, una delle strade principali di Tokyo, molto vista al cinema e riconoscibile per i grandi drappi, verdi, rossi, azzurri, che pendono, appesi fra le facciate dei grattacieli e sembrano addobbi per una festa. Sono invece striscioni pubblicitari, perché i giapponesi scrivono dall’alto in basso, in un traffico ordinato, silenzioso, senza colpi di clacson, avendo come rumore di sottofondo solo quello dei treni del metrò quando passano, ogni minuto o due, nei tratti allo scoperto. Passeggiate per questa via che è quella dell’high tech, con decine di negozi che arrivano alle specializzazioni più spinte (c’è persino quello che vende solo cuffie per walkman), e dagli schermi delle tv piazzate in ogni vetrina vedete un combattimento di scarafaggi con una folla di giapponesi urlante che tifa per il campione su cui ha puntato.

Certo oggi il Giappone, efficientissimo, tecnologico (basta scendere all’enorme aeroporto Narita di Tokyo e fare un confronto con lo scalcagnato JFK di New York per rendersi conto delle differenze) è per gli americani una specie di ‘quarta sponda’ e i rapporti economici, finanziari, diplomatici fra i due Paesi sono intensi e ottimi. Ma sono convinto che fra trent’anni, se il mondo esisterà ancora, i giapponesi tireranno fuori dal sottosuolo di qualche isola dove le hanno nascoste, una trentina di Atomiche e le getteranno su New York.

Massimo Fini

1 giugno 2016