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Meravigliosi Europei. Non perché ci siano grandi squadre e grandi interpreti (tranne, naturalmente, Andres Iniesta, Don Andres) anzi complessivamente sono piuttosto mediocri, ma perché hanno messo completamente fuori gioco le tipe. Annullate, azzerate, spianate. Solo un pervertito, da internare immediatamente nei reparti psichiatrici degli Ospedali generali, potrebbe rinunciare a vedere non dico Italia-Spagna, ma Inghilterra-Islanda per uscire con una donna. Fra una partita di calcio e una donna ogni maschio bennato non ha dubbi: sceglie la partita. Dice: ma potrebbero vederla insieme. Tel chi il pirla che non ha capito niente. Il calcio è un rito sacro (per la verità l'ultimo spazio restante al sacro in una società completamente materialista) che vuole una concentrazione assoluta e non ammette distrazioni e diversioni. Non sono mai stato allo stadio con una donna. O l'uno o l'altro. Eppoi di calcio non capiscono nulla (anche se mi dicono che adesso ci sono addirittura delle guardialinee, robb de matt). Provate a cercare di spiegare a una tipa il fuorigioco. Niente da fare, le risulta più indigesto della teoria dei quanti (del resto nemmeno la matematica, troppo razionale, entra in quei loro cervellini dispettosi per i quali la linea più breve per unire due punti non è la retta ma l'arabesco).

Eppoi portano sfiga. Molti, moltissimi anni fa stavo seguendo in tv un Toro-Juve in cui i granata stavano tenendo bene. Nella stanza entrò mia moglie e fu subito gol per la “goeba”. Da allora, durante le partite, chiudo la porta a chiave. E questa tradizione s'è trasmessa a mio figlio.

Meravigliosi Europei. Se, superando la barriera della segreteria telefonica e la chiusura del cellulare, lei riesce a chiamarti: “No, c'è la partita”.

Meravigliosi Europei, per venti giorni ci liberano delle loro moine, dei loro attuzzi, dei loro scodinzolamenti, di quello eterno ondular di chiappe e ci permettono di lasciarci andare a quel poco o a quel tanto di omosessualità che è in ciascuno di noi. Dopo il 10 luglio torneremo succubi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2016