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Il fenomeno Isis, il più inquietante ma anche il più interessante dalla fine della seconda guerra mondiale, può avere quattro letture, che non si elidono ma si sovrappongono. All’inizio è una guerra interreligiosa fra sunniti e sciiti i cui rapporti di forza erano stati sconvolti dall’aggressione del 2003 proditoria, immotivata e illegittima degli Stati Uniti all’Iraq di Saddam, Stato sovrano rappresentato all’Onu, aggressione avvenuta senza la copertura dell’Onu, anzi contro la volontà dell’Onu (si sa che per gli occidentali la copertura dell’Onu va su e giù come la pelle dei coglioni: se c’è va bene, se non c’è va bene lo stesso com’è avvenuto appunto in Iraq, ma prima ancora in Serbia nel 1999 e dopo in Libia nel 2011).

Ma fin dalle origini il conflitto sunniti/sciiti oltre a un connotato religioso ne ha uno politico o, se si preferisce, geopolitico: è il tentativo di ridefinire confini statuali arbitrariamente disegnati dai colonialisti inglesi e francesi negli anni ’20 e ’30 del Novecento. Non a caso all’inizio il Califfato non si chiama così ma ‘Stato dell’Iraq e del Levante’, cioè aveva l’obbiettivo di riunire Iraq e Siria.

Dopo l’intervento degli americani e dei francesi che, almeno in linea di principio, con questo conflitto non avevano nulla a che vedere (ma ormai è consumata abitudine dell’Occidente di intromettersi nelle guerre altrui, com’è stato in Serbia e in seguito in Afghanistan) il principale obbiettivo dell’Isis è diventato colpire l’Occidente non solo e non tanto perché abitato da ‘infedeli’ (io credo che Al Baghdadi sfrutti l’elemento religioso per cooptare il più alto numero possibile di adepti) ma perché da più di due secoli esercita la sua violenza militare ed economica in Medio Oriente, nell’Africa subsahariana e anche in alcuni paesi del Maghreb. Non è un caso se i primi attacchi terroristici sono avvenuti in Francia essendo gli Stati Uniti troppo lontani e apparentemente irraggiungibili (ma dopo i fatti di Orlando nemmeno gli Usa possono sentirsi più al sicuro).

Ma in quarta battuta -almeno questa è la mia personalissima opinione- quella dell’Isis, intorno al quale si raccolgono iracheni, siriani, libici, somali (gli Shebab), nigeriani (Boko Haram), egiziani (Fratelli Musulmani), maliani, pachistani e da ultimo, dopo la morte del Mullah Omar, anche afgani, è la lotta dei Paesi poveri del Terzo mondo contro i Paesi ricchi del Primo. Naturalmente, per il momento, gli sconvolgimenti innescati dalla guerra dell’Isis e all’Isis ma anche, e forse soprattutto, dalla fame che la nostra economia ha provocato in Africa Nera, si traduce, con le migrazioni, in una lotta in Europa fra i poveri del Terzo mondo e i poveri di casa nostra. Ma una volta che questi ultimi capissero che sono omologhi ai poveri del Terzo mondo, vittime entrambi della violenza del turbocapitalismo, queste due povertà si potrebbero saldare e puntare contro i padroni del vapore nazionali e internazionali. Si avvererebbe così paradossalmente, in salsa islamica, la profezia di Marx.

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016